Millennials e Gen Z. Perché gli italiani scappano all’estero per lavorare?

scritto da il 16 Dicembre 2022

Post di Daniele Bacchi, Ceo e Co-founder di Reverse – 

Cosa cercano i millennials e la generazione Z dal mondo del lavoro? Perché ancora troppo spesso i giovani italiani cercano fortuna all’estero? Sono domande che chi, come noi, lavora nel settore delle Risorse Umane si pone tutti i giorni.

Prima di tutto i pochi numeri certi che abbiamo a disposizione: tra il 2021 e il 2022 hanno lasciato l’Italia più di 80.000 giovani di età compresa tra i 18 e 34 anni (il dato 2022 è in calo rispetto al 2021). Le principali destinazioni sono UK (23%), Germania (14%) e Francia (11%) [Fonte: Migrantes-Rapporto Italiani nel Mondo. Elaborazione su dati AIRE].

Le ragioni della fuga

Purtroppo manca ancora, ad oggi, un’indagine istituzionale che possa permetterci di identificare, oltre alla portata del fenomeno migratorio, anche le cause, cioè quali motivi spingono fuori dall’Italia le nuove generazioni.

In assenza di dati ufficiali, posso solo elaborare delle ipotesi basate sul riscontro quotidiano dell’esercizio della nostra attività di recruitment, mettendo a confronto ciò che osserviamo nelle nostre sedi italiane con le nostre sedi Europee. Un’altra precisazione importante è che le mie considerazioni sono basate sulla fascia di profili manageriali e impiegatizi con i quali lavoriamo.

Addio Italia, che sofferenza

Un primo punto certo è che c’è sempre sofferenza nei candidati italiani quando decidono di abbandonare l’Italia. Se ne deduce che le leve motivazionali, che spingono le nuove generazioni a partire, debbano essere così forti da vincere la resistenza esercitata dall’amore per il rimanere nel nostro Paese. Chi parte, quindi, lo fa con la tristezza e la  certezza di non avere altra alternativa.

Il gap retributivo

Un secondo punto certo è che la metà degli emigranti sceglie paesi europei dove la prima occupazione post laurea è pagata di più che in Italia.

O meglio, la prima occupazione post laurea in Italia, dopo un lungo percorso di studi, non permette di raggiungere quell’autonomia finanziaria tanto desiderata che consentirebbe di staccarsi dall’assistenzialismo della propria famiglia.

Uno stage a 600, o anche fosse 1000 euro mensili, è quello che viene proposto nella maggior parte dei casi. Mentre su Germania e Francia le retribuzioni di partenza sono nel range di 30.000- 40.000 euro annuali, raggiungendo in alcuni casi già i 45.000 di retribuzione lorda al primo impiego sulla Germania.

Mettendosi quindi nei panni del giovane italiano, da una parte riceve offerta di stage per 600 euro e nessuna promessa sulla durata del percorso di crescita economico che lo porterà all’indipendenza. Dall’altra, riceve offerte di lavoro non minimamente paragonabili sia a livello di prestigio (stage contro contratto) sia a livello economico (600 euro mensili senza ferie, malattie, garanzie contro un minimo di 30.000 lordi annuali).

(Adobestock)

La cultura del tempo indeterminato

Un terzo punto certo è che nei Paesi che riescono a sottrarci il maggior numero di giovani (UK e Germania) non esiste il concetto di contratto a tempo indeterminato, come lo conosciamo qui. Ogni assunzione può essere sempre rimessa in discussione dal datore di lavoro se le performance delle persone assunte non fossero in linea con i desiderata o se, nel frattempo, le condizioni di mercato obbligassero l’azienda a scelte drastiche.

Ma questa instabilità contrattuale non viene vissuta ed etichettata, come in Italia, come precariato. Possiamo concludere quindi che la mancanza di stabilità, intesa come contratto indeterminato, non è quindi di certo quella leva che vince la forte resistenza a rimanere in Italia da parte dei nostri giovani.

Anzi forse lo è in senso contrario. Il giovane italiano, sprovvisto di “contratto a tempo indeterminato” viene trattato da cittadino di serie B, sia che voglia aprire un mutuo, sia che voglia un affitto, sia che voglia comprarsi un iPhone a rate con la prima busta paga, sia nelle cene di Natale con i parenti. Tanto è che l’assunzione a tempo indeterminato viene festeggiata come una tappa fondamentale della propria esistenza.

I datori italiani e quelli europei

Dall’altra parte il datore di lavoro italiano vive come una decisione irreversibile l’assunzione e il livello di ingaggio retributivo del neo assunto e cerca quindi di posticipare il più possibile questo rischio.

Infine c’è il datore di lavoro tedesco o britannico che può permettersi di fare assunzioni ragionando nel breve-medio periodo, senza il rischio di dover pensare nel lungo periodo. Cosa che nell’economia moderna è obiettivamente impensabile.

Le differenze vere? Condizioni e regole di mercato

Concludo con due note positive, sempre secondo la mia esperienza alla guida di Reverse: le aziende italiane per cui lavoriamo non hanno alcunché da invidiare alle altre aziende europee nostre clienti in termini di capacità di attrarre talenti e di opportunità lavorative. La differenza nell’esodo la fanno le differenti condizioni e regole di mercato locali.

Il fenomeno quindi merita urgentemente un approfondimento scientifico istituzionale. Solo studiando a fondo il problema in primis, possiamo poi cercare di ideare e sperimentare soluzioni per invertire la tendenza.