Democrazie occidentali e loro sopravvivenza: le sei condizioni

scritto da il 09 Gennaio 2023

L’autore è l’avvocato Matteo Bonelli. Si occupa di societario e contrattualistica commerciale. Co-autore del podcast Capitali coraggiosi sul Sole 24 Ore –

Oggi vorrei salutarvi con un addio e un arrivederci.

Addio, perché dopo aver commentato per anni cose diverse, ho l’impressione di avere vissuto un eterno giorno della marmotta, perché il nocciolo dei commenti era spesso lo stesso. Ho pure provato seguire un percorso più strutturato, per esempio commentando le tappe della riforma della giustizia. Poi ho riordinato tutto in un libro dal titolo Libertà, regole e zombie, ispirato a due noti libri di Milton Friedman e Paul Krugman. Tuttavia, nonostante lo sforzo di ordine e riordino, l’immagine che ne affiorava restava frammentata e, a tratti, ripetitiva. Dunque mi pare inutile proseguire su questa strada, in cui finirei per girare in tondo.

Arrivederci, perché con Matteo Erede – già collega di lavoro e di un podcast che conduciamo per questo gruppo editoriale – abbiamo pensato a un programma di contenuti più strutturati, che confluiranno poi in un libro. È pur vero che un blog non è adatto a contenuti distaccati dai fatti di tutti i giorni, per non dire di tutti gli istanti del giorno; tantomeno a un libro a puntate come i romanzi ottocenteschi. Tuttavia siamo convinti che per cercare (e auspicabilmente trovare) le soluzioni di problemi complessi sia preferibile questo metodo “antico”. Dunque ringraziamo sentitamente Alberto Annicchiarico per darcene l’opportunità, con un coraggio e una fiducia che ci auguriamo di meritare.

La sopravvivenza delle democrazie e dei modelli liberali

Nel 2020 avevo scritto un libro che aveva la pretesa di individuare i “campi di gioco” e i “giocatori” della governance: un compito di cui nessuno si era mai fatto carico. Ovviamente era una pretesa un po’ iperbolica, ma continuo a credere che rimanga uno sforzo apprezzabile nel proposito e nell’analisi. Mancavano però le indicazioni delle possibili soluzioni, o meglio degli “schemi di gioco” da mettere “in campo”. Che è ciò che, per l’appunto, Matteo Erede e io abbiamo in mente di fare.

Prima però vorrei condividere alcuni pensieri che spero possano servire a ciò che andremo a scrivere. Discendono tutti dalla convinzione che i modelli liberali e democratici, che sono quelli dell’occidente, possano sopravvivere e perfino rimanere vincenti, ma solo se impostati correttamente.

In proposito credo che le considerazioni da fare siano essenzialmente sei.

1. Riprendersi dalla confusione delle idee

La prima, è sulla necessità di riprenderci dalla confusione delle idee in cui l’occidente sembra essersi smarrito. Credo che le radici di questa confusione risalgano alla fine della guerra fredda, che ha dissolto la contrapposizione fra due modelli di sviluppo opposti. Ma poiché le contrapposizioni sono il presupposto, se non il fondamento, di ogni democrazia, ci siamo trovati nella necessità individuarne di nuove, che però si sono rivelate volatili e sfuggenti, se non demagogiche. Oggi ci troviamo nella contrapposizione di modelli “inclusivi” che brandiscono shwa e asterischi come totem di un nuovo integralismo, contro modelli “esclusivi” che rivendicano tradizioni ormai superate da anni, dunque una contrapposizione non solo artificiale, ma anche caricaturale.

Da questa contrapposizione, tra l’altro, non discendono differenze fondamentali sul piano delle regole che una democrazia si può dare. Se c’è un innegabile vantaggio del modello liberale e democratico, questo è stato storicamente il suo pragmatismo, che ha finito per prevalere sulle aspirazioni più velleitarie del modello socialista. Oggi invece ci perdiamo in polemiche che amplificano i problemi identitari e che sottovalutano quelli pratici.

Piuttosto che autoflagellarci per gli errori del passato e per gli incidenti del presente dovremmo essere orgogliosi di aver fatto un percorso che ci ha resi, nonostante tutto, il modello più aperto, tollerante e inclusivo del mondo, rivendicandone la superiorità rispetto agli altri. Discutendo con un giornalista che nutre una certa simpatia per i leader “carismatici”, egli stesso conveniva che uno dei vantaggi dell’occidente è la sua capacità attrarre i più talentuosi fra i perseguitati e gli emarginati dalle autocrazie. Al tempo stesso non è il caso di disperarci se non riusciremo a salvare proprio tutti.

2. Superare il dogma della contrapposizione fra pubblico e privato

La seconda è sulla necessità di superare il dogma della contrapposizione fra pubblico e privato. Il modello cinese ci ha dimostrato che è tutto tranne che incrollabile e può anche frenare lo sviluppo. In un mondo globale e interconnesso non si può più pensare allo sviluppo con una concezione del privato in contrapposizione al pubblico, e forse nemmeno dei privati in contrapposizione fra loro.

La battaglia contro la pandemia, per esempio, ci ha dimostrato come la ricerca si avvantaggi non solo della collaborazione fra pubblico e privato, ma anche della collaborazione fra privati. Per competere nella ricerca (e non solo) occorre dunque ricorrere sempre più a modelli che superino il dogma privatistico (e “privativo”) della proprietà intellettuale. Occorre poi un maggiore e migliore coordinamento dell’ingaggio dei privati negli obiettivi di sostenibilità, per evitarne una declinazione a macchia di leopardo.

Ma a prescindere dalla ricerca di modelli funzionali a queste esigenze di collaborazione e coordinamento, occorre che anche il pubblico si doti degli incentivi e dei sistemi di selezione che hanno favorito lo sviluppo dei modelli di mercato. Il pubblico, infine, deve comprendere che il suo capitale più prezioso non sono i soldi, ma le regole. Occorre dunque usarle come motore di sviluppo e non come specchi per allodole.

3. La centralità del lavoro nella realizzazione dell’individuo e della società

La terza è sulla necessità di restituire al lavoro centralità nella realizzazione dell’individuo e della società. Luca Ricolfi ha osservato che viviamo ormai in paese in cui la popolazione lavorativa è inferiore a quella non lavorativa. Ovviamente questo dato preoccupa per la tenuta di un sistema in cui il carico sociale insiste sempre su meno persone, ma a mio modo di vedere è ancora più preoccupante per le sue conseguenze psicologiche e morali.

Nella dialettica hegeliana servo-padrone alla fine vince il servo, perché ha uno scopo nella vita. Che scopo possono avere i figli che non riescono o non vogliono liberarsi dal giogo della dipendenza dai genitori? Quale scopo può avere chi rinuncia a un lavoro per non perdere un sussidio—non solo il reddito di cittadinanza, ma qualsiasi altra sua forma, inclusi i prepensionamenti e i sussidi mascherati da lavori, che sono pure più cronici perché permanenti? E che obiettivo può avere una fanciulla che punta su un buon matrimonio e al tempo stesso rivendica emancipazione?

E infine, al di là dei problemi psicologici individuali, vogliamo porci il problema di una società ormai diventata così dipendente dalla rendita da rischiare di collassare sotto l’urto di chi ancora “ha fame”? Il progresso tecnologico ha reso e renderà superflui certi lavori, certo, ma anche in tal caso non ha più senso impegnarsi in qualcosa, piuttosto che ciondolare mantenuti dallo stato, dai genitori o dai coniugi?

democrazie

(Afp)

4. Misurare con metodi nuovi il benessere di una società

La quarta è sulla necessità di superare le metriche quantitative per valutare il benessere di una società. Si dice da anni, se non decenni, che il prodotto interno lordo è un indicatore rozzo, ma non si è ancora trovato una modo per sostituirlo. Dal discorso di Robert Kennedy del marzo 1968 ai più recenti tentativi di delineare indicatori più qualitativi, inclusa la pittoresca felicità interna lorda del Buthan, non siamo ancora riusciti a confrontare i paesi in base a indicatori diversi, tantomeno a dirigerne la programmazione economica.

Sicché ci troviamo a inseguire un modello di sviluppo che valuta la prosperità dei paesi come se fossero oche all’ingrasso. Anche nel dilagare del mantra della sostenibilità prevale un modello centrato sulla trasformazione delle fonti energetiche e sull’accorciamento delle filiere, piuttosto che sulla riduzione dei consumi, sebbene per ottenere risultati più immediati e tangibili basterebbe riprendere lo stile di vita dei nostri genitori, che erano pure mediamente più soddisfatti di noi.

Ma chi oggi osa predicare una riduzione dei consumi viene bollato come pauperista, e quasi nessuno avverte la necessità di avviare una discussione seria sulle prospettive di un modello che impone di aumentare la velocità con cui rischiamo di schiantarci, a meno di non riuscire a scappare prima, come i passeggeri pingui e pigri dell’astronave Axiom di Wall-e. Ma anche in una prospettiva meno disastrosa, una politica più responsabile sui consumi potrebbe risultare utile, se non essenziale, per superare alcune delle criticità emerse negli ultimi anni, come l’eccessiva dipendenza dell’occidente da paesi che non condividono i nostri valori.

5. Un modello rappresentativo più diretto

La quinta è sulla necessità di individuare forme più ampie e dirette di partecipazione alle decisioni di qualsiasi organizzazione, pubblica o privata. Il modello rappresentativo appartiene a un epoca in cui la partecipazione diretta era impraticabile. Paradossalmente la partecipazione diretta era molto più diffusa nell’antica Grecia, ma solo perché le società erano più semplici e i cittadini meno numerosi.

Il modello rappresentativo è una naturale conseguenza della crescita demografica e della specializzazione produttiva, e si è dunque affermato sia nella gestione delle società civili sia nella gestione delle imprese. Ma lo scenario è cambiato con l’irruzione delle nuove tecnologie, che hanno rivoluzionato la formazione di molte decisioni. In particolare, praticamente tutte le imprese di questo settore orientano le proprie decisioni in funzione delle scelte e dei comportamenti dei propri utenti.

Così Google “decide” i risultati di una ricerca, così Amazon l’offerta di un prodotto, così Spotify le canzoni di una playlist. Non si capisce perché un comune, un’impresa o un’associazione non dovrebbero fare altrettanto. Ciò non significa, sia chiaro, escludere qualsiasi forma di rappresentanza, ma al contrario individuare gli strumenti che consentano ai rappresentanti di conoscere meglio i propri rappresentati, prima che questi si “incazzino”.

6. Capire che la buona giustizia è il più saldo pilastro del buon governo

La sesta è sulla necessità di comprendere che la buona giustizia è il più saldo pilastro del buon governo, come disse famosamente George Washington. Infatti la buona giustizia, soprattutto nella sua funzione nomofilattica, è come un programmatore che interpreta il “codice” del quadro normativo con coerenza e, se possibile, ne ripara i “bachi”. Viceversa, una giustizia dove le condanne e le assoluzioni sembrano estratte a sorte, come nella Babilonia di Borges, corrompe il funzionamento di ogni cosa, sia in ambito pubblico sia in ambito privato.

Se l’imprevedibilità della giustizia penale è quella che genera più sconcerto e sconforto, forse il danno maggiore deriva dall’imprevedibilità della giustizia civile, amministrativa e fiscale. Quanti sono gli imprenditori che hanno venduto le proprie aziende perché non ne potevano più delle “incursioni” (per usare un eufemismo) dell’Agenzia delle Entrate? Quante sono le (già poche) multinazionali italiane che hanno traferito la sede all’estero o si sono fuse con una multinazionale estera? Quanti sono i funzionari pubblici che praticano il cosiddetto sciopero della firma, per paura di incorrere in un illecito a loro ignoto?

Nel nostro podcast Sabino Cassese descriveva i funzionari pubblici come “automi” manovrati da regole: è evidente che quest’impostazione, di per sé problematica, diventa disfunzionale nella misura in cui le regole sono pure incerte.

Modelli e processi più che soluzioni per le democrazie

Ovviamente queste considerazioni non pretendono di risolvere i problemi, le cui soluzioni impongono analisi più specifiche, che proveremo ad articolare nel quadro organico del nostro progetto. In ogni caso, più che soluzioni, ci sforzeremo di indicare i modelli e i processi per farle emergere con un metodo sperimentale, poiché riteniamo che il buon funzionamento delle cose dipenda più dal continuo esercizio della loro messa a punto, che dalle Grandi Idee o dai Grandi Uomini.