Perché la riforma del Patto di Stabilità e Crescita così com’è non va

scritto da il 18 Gennaio 2023

Dopo mesi di acceso dibattito, a novembre la Commissione Europea ha finalmente avanzato una nuova proposta di riforma del Patto di Stabilità e Crescita (o Sgp, Stability and Growth Pact), l’insieme di regole relative alle politiche di bilancio dei paesi membri che sancisce il tetto al deficit e al debito pubblico. Tocca ora agli stati membri, che dovranno raggiungere un accordo con la Commissione entro gennaio 2024.

Come funziona adesso?

La storia delle regole fiscali europee è in continua evoluzione, mantenendo alla base due principi cardine: il rapporto debito-Pil dei singoli paesi membri non deve superare il 60% e il deficit annuale (la differenza tra uscite e entrate dello stato) deve restare al di sotto del 3% del Pil. In caso di mancato rispetto di queste soglie scattano delle misure correttive, che si dividono in due “bracci”: il “braccio preventivo” (preventive arm), che consiste in un insieme di parametri da rispettare affinché il debito sia mantenuto su una traiettoria calante nel tempo, e il “braccio correttivo” (corrective arm), che interviene nel caso in cui i parametri preventivi non vengano rispettati.

I dati fondamentali

Dopo varie modifiche, attualmente il braccio preventivo tiene conto, di fatto, di due aggregati di finanza pubblica: il deficit strutturale e il Pil potenziale. In primis, il deficit strutturale (cioè il disavanzo pubblico al netto delle componenti cicliche dell’economia) deve rimanere nel tempo al di sotto del cosiddetto Obiettivo di Medio Termine (Mto), un valore stabilito a partire da regole molto rigide che dovrebbe garantire la sostenibilità del debito in un arco di tempo pluriennale. In secondo luogo, la crescita della spesa strutturale, quindi al netto di componenti cicliche, non deve superare la crescita del Pil potenziale.

Quest’ultimo viene definito come il Pil del paese se tutte le risorse venissero utilizzate in maniera efficiente, e non è una variabile economica osservabile. Un paese che superi il limite del 3% o che, pur avendo un rapporto debito-Pil superiore al 60%, non rispetti le misure preventive per portarlo su una traiettoria calante a una velocità soddisfacente, si trova sottoposto alle regole del braccio correttivo. La procedura che viene attivata in questi casi prende il nome di Procedura per Eccessivo Deficit (Edp) e può portare a multe o sanzioni.

Problemi di trasparenza e credibilità

L’insieme di regole fiscali europee è da tempo oggetto di critiche su più fronti. Innanzitutto, il riferimento a variabili economiche non osservabili nel braccio preventivo, come il deficit strutturale e il Pil potenziale, genera un problema di trasparenza e credibilità. Viene poi contestato da alcuni stati membri (spesso i più indebitati) l’approccio molto poco flessibile. Ad esempio, con le regole attuali l’Edp scatta nel caso in cui il la differenza tra il livello di debito del paese e il limite del 60% non venga ridotta di almeno un ventesimo su base annua, indipendentemente dalle condizioni economiche del paese in questione. La Commissione stessa, nella propria proposta, ha riconosciuto il parziale insuccesso di queste regole e la insufficiente attenzione all’eterogeneità delle posizioni fiscali degli stati membri.

La proposta di riforma della Commissione

La bozza di riforma proposta dalla Commissione appare coraggiosa: il braccio preventivo verrebbe sostituito da un approccio pluriennale più attento alle esigenze dei singoli paesi e basato su analisi di sostenibilità del debito (Dsa). I requisiti originali del deficit al 3% e del debito al 60% del Pil rimarrebbero invariati, ma ai paesi che non rispettino quest’ultima soglia verrebbero richiesti piani di aggiustamento diversi.

Ecco le fasi del processo

Il nuovo braccio preventivo previsto dalla riforma procederebbe in più fasi. In un primo momento, i paesi membri verrebbero classificati in categorie di rischio (basso, medio, alto) sulla base di un’analisi di sostenibilità del debito. Ai paesi a medio e ad alto rischio la Commissione proporrebbe un piano di aggiustamento pluriennale basato sulla traiettoria della spesa primaria netta, cioè la spesa pubblica sotto il controllo diretto dei governi. Non verrebbero considerate quindi le spese per gli interessi sul debito e quelle per stabilizzare l’economia – si pensi ad esempio ai sussidi di disoccupazione in tempi di crisi.

Questo piano avrebbe l’obiettivo di garantire che dopo un massimo di 4 anni (7 per i paesi a medio rischio) il debito si trovi su una traiettoria calante in maniera plausibile e continua (“on a plausibly and continuously declining path”) per almeno dieci anni. Si abbandonerebbero quindi i concetti di Mto, deficit strutturale e Pil potenziale, rimpiazzati da una misura unica, trasparente e soprattutto misurabile. Senza contare che non si imporrebbero più correzioni annuali immediate, ma verrebbero stabiliti degli obiettivi flessibili nel medio termine, che lascerebbero ai paesi tempo e spazio fiscale necessari per correggere i propri squilibri.

Il momento della controproposta

Ricevuto il piano della Commissione, i paesi membri possono presentare una controproposta. Essa consiste in una descrizione dettagliata delle riforme, degli investimenti pubblici e degli aggiustamenti fiscali necessari a portare il debito su una traiettoria calante. Il paese proponente può inoltre richiedere un’estensione del periodo di aggiustamento fino a un massimo di tre anni rispetto a quanto stabilito dalla Commissione.

Il giudizio del Consiglio europeo

Si entrerebbe quindi nell’ultima fase: il Consiglio europeo, ascoltata la Commissione, sarebbe incaricato di approvare o respingere il piano proposto dal paese. In caso di esito negativo e di mancato accordo tra Commissione e stato membro, il piano di aggiustamento proposto inizialmente dalla Commissione diventerebbe automaticamente il testo di riferimento. In contrasto con le regole attuali che impongono aggiustamenti standardizzati e a breve termine, la proposta della Commissione tenta di rendere più partecipi i paesi, con l’obiettivo di responsabilizzarli e impegnarli nelle scelte di finanza pubblica.

Dal punto di vista correttivo, le modifiche sono meno significative, ma non per questo secondarie. In particolare, sono state riviste le sanzioni: alle pene di natura monetaria, riviste al ribasso per renderle più credibili, si aggiungerebbero sanzioni reputazionali (il ministro dell’economia del paese che non rispetti gli aggiustamenti potrebbe essere chiamato a dare spiegazioni di fronte al consiglio) e il potenziale blocco dei finanziamenti europei.

Riforma, restano delle criticità

Per quanto la riforma proposta della Commissione rappresenti dunque un notevole passo avanti, alcuni elementi presentano ancora delle criticità. In primo luogo, la plausibilità della traiettoria calante del debito verrebbe determinata attraverso l’analisi di sostenibilità del debito, una tecnica che si basa sulla previsione di alcune variabili macroeconomiche – tasso di interesse sul debito e tasso di crescita in primis. Si tratta dunque di una misura per forza di cose soggetta a errori previsionali, che lascia spazio a interpretazioni e abusi. Sarebbe per altro basata su previsioni della Commissione stessa, che si porrebbe di fatto come giudice della sostenibilità del debito degli stati membri.

Troppo potere alla Commissione

È proprio il ruolo centrale della Commissione la seconda criticità della riforma. È la Commissione ad avanzare per prima un piano di adeguamento fiscale e a dare un parere al Consiglio sulla controfferta degli stati membri; ed è sempre la Commissione a raccomandarne eventuali modifiche e a monitorarne il progresso. In assenza di un accordo, è la proposta della Commissione a dover essere adottata dal Consiglio. Un passo indietro importante rispetto al Dispositivo europeo per la ripresa e la resilienza, che dava più potere ai governi, e una scelta in controtendenza con le raccomandazioni, tra gli altri, del Fmi di aumentare lo scopo e il mandato delle istituzioni fiscali indipendenti nazionali (Ifi) (quello che in Italia si chiama Ufficio parlamentare di bilancio).

E se la palla passasse ai Governi nazionali?

Ad esempio, si potrebbe pensare di invertire il processo affidando ai governi nazionali la proposta iniziale del piano di aggiustamento che poi sarebbero tenuti a condividere le assunzioni e previsioni macroeconomiche con gli Ifi nazionali. Questi ultimi avrebbero quindi il ruolo centrale di monitoraggio ed eventuale controproposta nel caso in cui gli obiettivi di bilancio non rispettassero i dispositivi europei. Aumentando considerevolmente le responsabilità degli Ifi, si porrebbe più seriamente la questione della loro reale indipendenza dalla maggioranza di turno, essendo la nomina dei membri necessariamente di natura politica. Una proposta del Fmi è quella di riunire tutti gli istituti fiscali nazionali sotto la supervisione di uno European Fiscal Council, indipendente dalla Commissione europea, che assicuri il corretto funzionamento di ciascun Ifi. L’obiettivo di questo ribaltamento nel processo decisionale sarebbe responsabilizzare in prima battuta i governi nazionali e poi affidarne la valutazione a organi indipendenti ma pur sempre di ciascun paese membro.

riforma

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (Reuters)

Regole fiscali, con questa riforma non si può sbagliare

L’attuale insieme di regole fiscali europee è eccessivamente rigido, poco trasparente e di difficile attuazione in un sistema composto da paesi con fondamentali economici e fiscali diversi. La proposta di riforma della Commissione va quindi nella giusta direzione, proponendo degli aggiustamenti flessibili di medio termine basati su variabili osservabili. Rimane però la sensazione che si tratti di una soluzione non ottimale, che raccoglie troppo potere nelle mani della Commissione e che sarà difficile far rispettare. L’auspicio di Tortuga è che nei mesi a venire queste criticità vengano risolte: con così tanti paesi fortemente indebitati, sarebbe meglio non sbagliare.