Facebook alias Meta ha dei problemi molto seri

scritto da il 06 Marzo 2023

Negli ultimi mesi Facebook, del gruppo Meta Platforms, sembra avere dei problemi.

Il crollo della raccolta pubblicitaria registrata nel 2022 è sicuramente un evento interessante ma, negli ultimi mesi, sono ben più grandi le sfide che attendono Meta.

I governi occidentali stanno prendendo coscienza che le piattaforme sociali non sono una realtà del tutto innocua. Dagli scandali sulla manipolazione delle elezioni americane ai danni cagionati da questi gruppi ai giovani è un continuo fuoco di soppressione contro questa BigTech che, dopo tutto, “vuole solo permettere a tutti di essere collegati” come ha spiegato più volte il suo fondatore Mark Zuckerberg.

Comprendere le sfide che dovrà affrontare questa BigTech ci permette di capire come, nei prossimi anni, grazie anche alle leggi sulla privacy, un certo tipo di economia digitale, e relativa raccolta pubblicitaria, la primaria linfa vitale di questa industria, potrebbe cambiare radicalmente.

Facciamo il punto discutendo le due sfide principali.

La multa irlandese a Meta

Alcune settimane orsono la Data Protection Commission irlandese ha multato Meta per 390 milioni di euro: 210 a Facebook e 180 ad Instagram. Nella sua decisione il DPC ha spiegato che il Sistema utilizzato dalla BigTech per chiedere il permesso agli utenti, in merito all’utilizzo dei loro dati per fini pubblicitari, non è valido e ha dato 3 mesi di tempo a Meta per allinearsi con la EU General Data Protection Regulation (il famoso GDPR). La multa in sé, per Meta, è più una offesa e un danno di immagine, che una questione economica rilevante. Ma la ragione della multa rappresenta un precedente importante.

Meta vive di pubblicità. La localizzazione dei suoi utenti e la inferenza dei loro dati permettono a Facebook e Instagram di offrire un tipo di frammentazione e discriminazione efficace per gli inserzionisti pubblicitari. Per comprendere quanto valgano i dati che Meta raccoglie dagli utenti osserviamo il caso Apple VS Meta. Quando la Mela ha deciso di cambiare i parametri di autorizzazione dei dati, di fatto chiedendo ai suoi utenti se volevano ancora essere tracciati dai social network (tra cui Meta) gli utenti han deciso, in maggioranza, di non essere tracciabili. Meta ha perso circa 10 miliardi di investimenti pubblicitari. Il danno cagionabile dalle richieste irlandesi-europee potrebbe essere superiore, nel caso peggiore mutando radicalmente il modello di business di Facebook.

Le nuove regole del gioco: Meta illegale?

“Il DPC ha determinato un scenario nuovo per Meta”, mi spiega Stefano Sutti, senior partner dello Studio Legale Sutti, realtà professionale storicamente molto coinvolta nel settore delle nuove tecnologie. “La filosofia su cui è in sostanza basata la piattaforma sociale comporta l’offerta a chi desidera utilizzare il servizio di accedervi pagando con i dati alla piattaforma stessa esplicitamente o attraverso il proprio comportamento successivo. E se i dati personali appartengono alla persona cui i dati si riferiscono, tale persona può farne l’uso che crede, no? Ora, l’orientamento emerso recentemente in sede europea è che, no, non basta accedere al servizio prestato a queste condizioni per essere in presenza di un valido consenso, e che, no, tale consenso è viziato se non è accessorio e distinto rispetto alla mera registrazione ed attività sulla piattaforma. In altre parole, il EDPB considera questo modo di lavorare di Meta illegale.”

Rivedere il modello di business

Il tema apparentemente suona molto legale ma, alla base, il vero rischio è che Meta debba rivedere il suo modello di business. “Le decisioni di EDPB e DPC ridefiniranno il modello di business pubblicitario basato sul targeted advertising, che è l’unico oggi a garantire ritorni sufficienti per finanziare le multinazionali dell’IT. Ora, è verissimo che il consenso è forzato, ma ci si può chiedere se la forzatura non derivi più dalla posizione di relativo monopolio di ciascuno dei grandi player che dal mancato rispetto di formalità distinte. Il che implica che il vero problema sia quello di impedire ai monopolisti stessi di discriminare tra i potenziali utenti, compresi gli utenti business e gli inserzionisti pubblicitari, e non solo sulla base del mancato consenso al trattamento dei dati personali”, chiarisce Sutti.

Meta

Mark Zuckerberg fondatore di Facebook e numero uno di Meta

La maggiore insidia per Meta

La soluzione che Meta potrebbe adottare è richiedere, di nuovo, l’autorizzazione esplicita agli utenti sull’utilizzo dei propri dati. Per quanto possa apparire una soluzione semplice esiste un problema psicologico rilevante. Storicamente, si veda il caso Apple Vs Meta, quando ad un utente viene chiesta l’autorizzazione che porterà a un tracciamento dell’utente stesso, di norma l’utente nega il consenso. Il rischio che si palesa per Meta è che, posto di fronte all’obbligo di dover richiedere il consenso ai suoi utenti, la maggioranza neghi tale consenso, azzoppando la capacità di Meta di tracciare gli utenti e, per conseguenza, rendendo la pubblicità sulle piattaforme gestite da Meta meno efficace.

Il baratto dati vs utilizzo che non s’ha da fare

Se il primo scenario appare preoccupante il secondo è un radicale cambio di rotta nell’intero sistema che relaziona i rapporti tra gli utenti delle piattaforme sociali e le BigTech che le gestiscono, e da cui estraggono ricchezza valorizzando i dati utenti. Come riportato a febbraio dal Fatto Quotidiano Facebook-Meta è sotto indagine; l’oggetto degli accertamenti è l’Iva.

Ora per capire di che tipo di indagine parliamo dobbiamo fare un passo indietro e spiegare un concetto chiave dell’economia: il baratto. Allo stato attuale l’utente che si registra e utilizza i servizi di Facebook e Instagram lo fa in modo del tutto gratuito. In rete si è solito dire che se un prodotto è gratis tu sei il prodotto. E infatti il nostro utilizzo di piattaforme sociali ha un costo: i nostri dati, tutti i nostri dati salvo che, come discusso sopra, si possa declinare la profilazione avanzata da parte della piattaforma sociale.

Il baratto e l’Iva

Il baratto in sé non è una forma di scambio di beni o servizi illegali ma ha un aspetto che spesso si ignora: il valore del transato tra due entità deve essere compreso e tassato secondo l’Iva del paese dove i due individui agiscono.

“Lo scambio di beni senza un corrispettivo monetario è una delle forme più antiche di interazione economica tra soggetti diversi”, mi conferma Stefano Sutti “e il fenomeno resta tanto diffuso quanto potenzialmente elusivo. Ora, il legislatore italiano, e in vero quasi tutti gli ordinamenti, hanno recentemente moltiplicato gli sforzi per riconoscere e tassare queste transazioni avalutarie. Così da poter prevedere l’obbligo dei contraenti di dichiarare il valore di quanto scambiato e, per conseguenza, riconoscere allo stato l’Imposta sul Valore Aggiunto applicabile alle relative operazioni”.

Il rischio di una multa colossale

Se questa teoria è riconosciuta, ad oggi nessuno aveva pensato di applicarla ai social network. Di tutti Facebook è in assoluto quello che fa maggior leva sui dati degli utenti. L’aspetto dirompente di questa indagine è che siamo di fronte a un inedito che può costituire un precedente anche per gli altri colossi dell’universo social e anche per gli altri Paesi Ue. Al momento l’indagine è solo italiana ma è comprensibile che, se portasse ad un risultato efficace per multare Facebook, tutti gli altri stati salterebbero sul treno. 220 milioni, questa la cifra contestata, su un lasso di tempo dal 2015 al 2021, è una cifra irrisoria per Facebook ma, se moltiplicata per tutti gli altri stati occidentali, rappresenta una multa colossale. Secondo analisti e investigatori, come riporta il Fatto, saremmo dinanzi a una sorta di baratto, più precisamente a una permuta tra beni differenti.

“La permuta di beni tangibili o intangibili, come i dati personali, per definizione muniti di un valore economico se scambiabili contro servizi, implica concettualmente una fattispecie tassabile. D’altronde, se decidiamo coerentemente di tassarla, la cosa non si dovrebbe applicare al solo Meta-Facebook ma a tutte le BigTech i cui servizi siano offerti a titolo gratuito in cambio di un pagamento in dati degli utenti. Ma se questa interpretazione divenisse effettiva ci troveremmo di fronte ad un nuovo scenario dove le multinazionali Bigtech si troverebbero a dover trattare contabilmente e fiscalmente la fornitura di servizi pseudo-gratuiti esattamente come la fornitura di servizi di pagamento. Questo scenario, potenzialmente il più plausibile, rischia tuttavia di erodere i margini di ogni BigTech che abbia fatto della cosiddetta gratuità la chiave della diffusione del suo servizio”, conclude Sutti.

La risposta prestampata di Zuckerberg

Dal canto suo Facebook ha dichiarato che “prendiamo sul serio i nostri obblighi fiscali e paghiamo tutte le imposte richieste in ciascuno dei Paesi in cui operiamo. Siamo fortemente in disaccordo con l’idea che l’accesso da parte degli utenti alle piattaforme online debba essere soggetto al pagamento dell’Iva. Come sempre, siamo disposti a collaborare pienamente con le autorità rispetto ai nostri obblighi derivanti dalla legislazione europea e nazionale”. Una risposta offerta ogni volta che la piattaforma sociale è stata oggetto di indagini e/o multe.

BigTech vs. governi occidentali. Il precedente Cina

Lo scenario della “moderazione” delle BigTech, in particolare quelle che operano piattaforme sociali, è già avvenuto in Cina. In Asia il Dragone ha di fatto moderato, in poco più di un anno, tutte le BigTech offrendo loro l’opportunità di allinearsi alle regole locali. In Occidente, dove l’influenza di questi player è più radicata, la guerra alle BigTech è iniziata su due fronti paralleli: in Europa con il GDPR e in Usa con Biden che ha dato il via a una serie di indagini da parte delle agenzie federali sulle attività monopolistiche di molti gruppi digitali.

Lo scontro tra stato/società civile e BigTech è ancora agli inizi in Occidente. Tuttavia, se le due soluzioni sopra prospettate divenissero effettive su tutti i territori occidentali, le BigTech potrebbero accusare il primo grande rallentamento alla loro espansione che, sino ad oggi, è parsa ineludibile.

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