Salario minimo tra Italia ed Europa. Come superare l’impasse

scritto da il 20 Aprile 2023

Post di Flavia Carlino e Mattia Moretta per Accademia Politica – 

È proprio dell’essere umano, come direbbe Rousseau, “meditare sull’uguaglianza che la natura ha messo tra gli uomini e la disuguaglianza che essi hanno istituita”. Difatti, particolarmente dibattuto negli ultimi mesi è il tema del salario minimo, il quale riguarda il livello di retribuzione basilare fissato per legge da garantire a un lavoratore in relazione a un determinato ammontare di lavoro. Viene, per prassi, fissato sulla base di parametri quali il PIL, l’Indice dei Prezzi al Consumo, l’andamento generale dei mercati ed è suscettibile di revisione periodica così da stabilizzare nel tempo il potere di acquisto dei salari.

Il quadro italiano attuale: i lavoratori poveri

Nel 2022, un rapporto di un comitato operante presso il Ministero del Lavoro, delineava una situazione del lavoro in Italia dai tratti angusti: un quarto dei dipendenti ha infatti una retribuzione individuale inferiore al 60% della mediana. Ne deriva che circa 1/10 vive in condizioni di sostanziale indigenza in nuclei familiari il cui reddito netto equivalente è inferiore al 60% della mediana. In questo scenario il salario minimo, sebbene non possa totalmente risolvere la piaga dei lavoratori poveri, potrebbe, per certi versi, rivelarsi una misura efficace. Quest’ultimo, previsto ex lege in 21 Stati dell’Unione Europea, in Italia divide il Governo dall’opposizione, generando una rispettiva contrapposizione tra favorevoli e contrari. Ad ogni modo, qualora questo venisse calcolato vicino al 60% della retribuzione mediana sopracitata, la competitività delle imprese – in linea di massima – non verrebbe intaccata. Diversamente, sarebbe un provvedimento sensibile per le microimprese con bassi salari e alti livelli di evasione; imprese, queste, che rappresentano una frazione cospicua del PIL sommerso italiano.

I pro del salario minimo

Un livello di retribuzione fissato per legge darebbe luogo ad una serie di conseguenze implicite nella misura, positive o negative che siano. I pro del salario minimo, potenzialmente, possono essere numerosi. Il più intuitivo ed ovvio risulta essere l’allontanamento dalle condizioni di povertà per specifiche categorie di lavoratori. Soprattutto per coloro che lavorano quotidianamente a tempo pieno, la povertà non dovrebbe – idealmente – rappresentare un problema. Va sottolineato come l’Italia, tra le principali economie europee, risulta essere l’unico paese – insieme alla Spagna – dove i salari sono rimasti fermi negli ultimi anni.

Inoltre, una serie di contratti atipici presenti oggi nel mercato del lavoro italiano verrebbero contrastati, non garantendo – tra le altre – specifiche tutele (anche) salariali. Sotto questa lente, molti fenomeni diffusi – tra cui il lavoro nero e i contratti precari – subirebbero una drastica diminuzione. Infine, nel tempo una misura di questo tipo potrebbe generare un circolo virtuoso volto ad aumentare la produttività del capitale umano, in Italia ferma da molti anni. Il salario minimo potrebbe infatti essere uno strumento verso una maggiore produttività del lavoro, ponendo le condizioni affinché quest’ultima torni a essere driver di crescita in Italia. Come si evince dal grafico sottostante, infatti, la crescita della produttività risulta essere minima: 0.195% in 20 anni. Questa, peraltro, risulta essere una delle ragioni principali della mancata crescita degli stipendi in Italia.

 

I contro del salario minimo 

L’attuale Governo si è detto sfavorevole rispetto all’introduzione di questa misura. Ha così ribadito la posizione introdotta il 30 Novembre 2022 con l’approvazione della mozione 1/00030 della Camera dei Deputati. Trattasi, quest’ultimo, di un atto attraverso il quale Camera e Senato hanno delineato al Governo delle linee guida utili all’attuazione di una riforma del Lavoro, evitando l’introduzione del salario minimo e proponendo degli itinerari alternativi. Le ragioni espresse a sfavore sono le seguenti:

– il Bel Paese si avvale di un sistema di contrattazione collettiva in grado di soddisfare l’85% dei lavoratori, comprensivo di misure di tutela quali TFR, malattie, ferie, permessi, previdenza complementare, sanità integrativa eccetera. Questo sistema prevede già il più delle volte salari più alti rispetto a un’ipotetica soglia salariale minima; si rischierebbe, così, di compromettere la contrattazione collettiva, con conseguenze pericolose quali la diminuzione delle ore lavorative, l’incremento del lavoro sommerso, dell’irregolarità dei contratti e della disoccupazione; circa l’aumento di quest’ultima, è interessante sottolineare la practice inglese.Stando infatti a uno studio pubblicato sul Journal of Industrial Relations, il salario minimo introdotto nel 1999 ha certamente aumentato la retribuzione reale e relativa dei lavoratori a basso salario. Tuttavia non ha avuto le conseguenze attese sull’occupazione. Ciò per diverse ragioni, tra cui la compensazione tramite il sistema del credito d’imposta, il miglioramento della produttività, l’impatto della misura sulle ore lavorative piuttosto che sui lavoratori stessi;

– l’introduzione del minimo salariale potrebbe dare avvio a una spirale inflazionistica: non è difatti da escludere l’ipotesi che le imprese potrebbero riversare i maggiori costi retributivi sul consumatore finale, generando un conseguente aumento dei prezzi.

L’alternativa, a detta del Governo, sarebbe quella di implementare ulteriormente la contrattazione collettiva che, oltre a favorire un mercato del lavoro più flessibile, limiterebbe in maniera consistente i “contratti pirata”, piuttosto diffusi nella Penisola. Ciò è da attuarsi parallelamente a una diminuzione del carico fiscale, utile ad aumentare il potere d’acquisto dei lavoratori ma anche a riaccendere l’economia reale. In altre parole, meno tasse, più soldi disponibili, più consumi, più produzione, più distribuzione di beni e servizi, più lavoro, come precisato nella mozione.  

Il salario minimo in Europa  

A ottobre l’UE ha pubblicato una direttiva che dà tempo fino a novembre 2024 agli Stati membri per recepirla. Questa indica a ogni Stato che, qualora il tasso di copertura della contrattazione collettiva sia inferiore alla soglia dell’80%, esso debba prevedere condizioni favorevoli alla contrattazione collettiva. Dei 21 Paesi dell’Unione dove c’è il salario minimo, la Bulgaria è lo stato con il limite più basso: 332,34 euro. Spetta al Lussemburgo il tetto più alto, pari a 2.256,95 euro, seguito da Germania e Irlanda. Fuori dai confini europei, negli USA è fissato a 1.109,54 euro ed in Gran Bretagna a 1.583,31 euro. La normativa europea, dunque, non interviene sulle cifre, ma introduce specifiche modalità di indicizzazione, revisione e variazione uguali per tutti i Paesi.

Ogni Paese dell’Unione deve fissare il salario minimo al 60% del salario mediano lordo e al 50% del salario medio lordo. Tuttavia, dato che questi valori possono cambiare in base a vari fattori, l’Unione Europea verifica regolarmente il processo di adeguamento, adattando il salario minimo in base al cambiamento delle condizioni economiche.

Perché per l’Italia non c’è un obbligo

Come detto, l’Italia – insieme a Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia e Svezia – non dispone di un salario minimo. Il nostro Paese, tuttavia, non è obbligato dalla direttiva sopra descritta, poiché ha un tasso di copertura della contrattazione collettiva superiore all’80% – 88,9% secondo l’Inapp. Per questo, le parti sociali hanno sempre ritenuto superflua una legge sul salario minimo, che avrebbe addirittura ridotto il loro ruolo. In aggiunta, un salario minimo di 9 euro lordi l’ora, come proposto nella passata legislatura, secondo l’Inps tutelerebbe il 18,4% di lavoratori, attualmente sotto questa soglia. Ad ogni modo, va sottolineato come sempre secondo l’Inps un lavoratore su 4 guadagna meno del reddito di cittadinanza, in un quadro dove il fenomeno della povertà lavorativa risulta in crescita.

Controproposte e considerazioni finali: meglio i contratti nazionali?

In Italia, dunque, non esiste una legge nazionale sul salario minimo in virtù dell’elevatissima sindacalizzazione degli occupati e della diffusa contrattazione collettiva. In aggiunta, la stima sopra citata dimostra che il salario minimo a 9 euro lordi l’ora aiuterebbe meno di un lavoratore su 5. Conseguenze non meno importanti sarebbero, inoltre, l’aumento dei costi negli appalti pubblici, nella PA, nelle piccole imprese e in quelle familiari.

Un percorso alternativo, dunque, potrebbe essere quello di rafforzare i contratti collettivi nazionali. Come? Con decreti specifici, non necessariamente ad hoc per settore, bensì partendo dalle categorie più rischiose e suscettibili di dumping salariale. Strada, quest’ultima, imboccata anche da altri paesi Europei, prima fra tutti la Germania. Parallelamente e non in alternativa dovrebbe collocarsi l’abbattimento del cuneo fiscale, utile ad alleggerire gli oneri salariali e ad ampliare le dinamiche retributive nette.

L’ipotesi dei crediti d’imposta

Si potrebbe inoltre riflettere riguardo la practice inglese sopra descritta: ad esempio, è da valutare l’ipotesi di introdurre, contestualmente ad un salario minimo, crediti d’imposta. Andrebbero a “compensare” le maggiori spese del datore di lavoro, ad esempio non facendo versare i contributi – per un anno – del lavoratore precedentemente sotto la soglia stabilita dal salario minimo. È lunga la strada, e tante sono le opzioni: va fatta una valutazione d’insieme per capire quale alternativa perseguire, nell’interesse di tutte le parti coinvolte.