Siamo nell’Antropocene, ha ancora senso parlare di salario?

scritto da il 07 Settembre 2023

Post di Silvano Joly, young boomer torinese, Business Development Director di Altea Federation. Già Manager presso Innovation Leader come PTC, Reply, Sap, Dassault Systemes, Centric Software, Syncron e in Aziende pre-IPO, collabora con varie Università Italiane ed è mentore pro-bono di start-up high-tech, oltre che amico da sempre della Piccola Casa della Provvidenza (Cottolengo), il più antico istituto dedicato all’assistenza di persone con gravi disabilità –

Ormai da tre anni si fa un gran parlare del salario minimo, che però esiste dal 1894, quando il parlamento neozelandese approvò l’Industrial Conciliation and Arbitration Act, diventando il primo paese a stabilire una soglia minima di retribuzione a livello nazionale, seppure in modo involontario dato che la sicurezza di un salario minimo per le maestranze era un aspetto secondario. Lo scopo di questa legge era infatti risolvere istituzionalmente alcune dispute competitive tra industriali. Tuttavia, l’Atto diede gradualmente luogo all’emersione di un sistema ampiamente accettato per determinare il livello del salario minimo e negli anni seguenti fu adottato in Australia e persino nel Regno Unito e negli USA.

Dove è già stato adottato il salario minimo e il caso Italia

Nel diritto del lavoro il salario minimo è la retribuzione oraria, giornaliera o mensile minima che i datori di lavoro devono corrispondere ai propri impiegati e operai. Dopo la sua istituzione in Nuova Zelanda, leggi sul salario minimo sono state introdotte altrove e sono ancora in vigore oggi in molti Stati. Nell’Unione Europea 21 stati su 27 hanno leggi sul salario minimo, mentre i restanti sei paesi (Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia) ne demandano la definizione ai vari settori ovvero tramite i contratti collettivi.

Questo è anche il caso dell’Italia dove – va detto – non esiste una legge sul salario minimo ma si contano (secondo i dati del Cnel – Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro che li censisce in un Archivio Nazionale), ben 919 contratti collettivi nel settore privato, 15 della Pubblica Amministrazione e 48 del mondo dei lavoratori parasubordinati. Ognuno di questi contratti prevede una griglia contrattuale che definisce il salario minimo dei vari operai, impiegati, quadri, e dirigenti.

I punti di vista sul salario minimo

Sul tema esistono differenti opinioni. Sinteticamente, i sostenitori affermano che un salario minimo “universale”, cioè non definito da un contratto collettivo ma da una legge dello Stato, aumenterebbe il tenore di vita dei lavoratori, riducendo povertà e disuguaglianze sociali. I detrattori sostengono invece che esso aumenterebbe povertà e disoccupazione, in particolare dei lavoratori meno qualificati e dei neoassunti, oltre ad essere dannoso per le imprese. Infatti, secondo le regole di economia, il salario minimo legale non è negoziato sindacalmente come nei contratto collettivo, ma viene rigidamente calcolato in base alla produttività del lavoro (misurata in PIL /ora lavorata pro-capite), fatto che lo rende così diverso anche tra paesi che hanno un salario minimo di legge, ad esempio in Bulgaria è 399 euro e in Germania 1976. A questo link è disponibile una serie di dati che agevola tale comparazione.

Per approfondire consiglio la lettura su AltaLex del dibattito “Salario minimo: le ragioni del pro e del contro” che contrappone le autorevoli opinioni del professor Michele Miscione e dell’avvocato Marco Menicucci, rispettivamente contrario e favorevole al progetto di legge volto a inserire un salario minimo orario nel nostro ordinamento.

Il mondo del lavoro (legale) in Italia

In Italia il fenomeno dei working poors ha stimolato il dibattito sul tema del salario minimo e si presenta nella sua evidenza colpendo i lavoratori il cui reddito è inferiore alla soglia di povertà relativa. Magari perché lavorano a tempo parziale, o con astuzie contrattuali tutte italiane come festivi o straordinari non pagati, piuttosto che contratti part-time fasulli etc. Oppure perché lavorano in grandi città dove lo spending medio è assai più elevato che in altre del meridione o montane. Un non recentissimo report EuroStat “In-work poverty in the EU” indicava che in Italia l’11,7% dei lavoratori dipendenti ha un salario inferiore ai minimi contrattuali. Tuttavia, leggendo gli ultimi dati disponibili Istat, lo stipendio di un lavoratore in Italia supera i 21.000 euro annui, 1.700 euro al mese (a questo indirizzo è possibile consultare l’analisi Istat 2022).

Il salario dei metalmeccanici a confronto

Ma se proviamo a prendere il contratto metalmeccanici, di recente rinnovo, vedremo non solo lo stipendio minimo degli operai ma anche quello di capi, impiegati e quadri notando che le differenze retributive a contratto sono molto contenute – forse troppo – tra i due vertici:

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Ad esempio a livello di “salario minimo” definito dal CCNL un Quadro, ovvero “un dipendente che pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolge funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa” guadagna  980 euro lordi in più al mese rispetto ad un Operaio D1 ovvero “un lavoratore che svolge attività produttive, amministrative o di servizio elementari relative a un limitato numero di posizioni di lavoro di uno specifico ambito operativo/funzionale secondo istruzioni di lavoro definite” (fonte wikilabour).

Un dato interessante che, se rapportato alle competenze, esperienze di cui l’una e l’altra categoria professionale dispongono o devono acquisire con investimento personale (ad es. studiando e diplomandosi) e ancora di più alle responsabilità, ai problemi che devono prendere in carico, merita certo una riflessione.

Se si fa strada la filosofia del less is more

Allora potrebbe anche avere senso scegliere la via di Pareto del “massimo risultato con il minimo sforzo” applicata ad una filosofia lavorativa, di workbalance alla “less is more”. Potrebbe partire – forse è già partito – un fenomeno simile alla Great Resignation, ma senza dimissioni: uno spiraleggiare verso il basso, che abdica alla responsabilità ed al progresso di carriera a favore di una vita comoda nei bassifondi dell’organigramma dove forse si guadagna meno, ma anche si ha un orario, si “stacca il cervello” timbrando il cartellino, non ci si porta il lavoro a casa e così via…

Forse senza accorgercene siamo passati dall’Edonismo Reaganiano – venne inventato Roberto D’Agostino negli anni ’80 – ad una rilettura del vangelo di Luca in salsa digitale: “I ricchi sono infelici perché tesoreggiano per sé e non arricchiscono davanti a Dio (12,21).” Questa attitudine non sembra tipica solo dei boomers “scoppiati” e a fine carriera, ma vale anche per le giovani leve – che non sono “choosy” come le definì improvvidamente l’ex ministra Fornero – ma si comportano da abili calcolatori tra GPtW, welfare, life balance etc.

Una dialettica contrattuale lavoro/beneficio

Sembrano confermarlo tante notizie di aziende che non riescono a convincere le persone a farsi assumere, ad esempio Faber, multinazionale italiana della climatizzazione con 870 dipendenti e 350 milioni di fatturato. Come spiega Alessandro Riello su vari quotidiani e su L’Arena, “molti giovani neodiplomati si presentano con i genitori e sono poi questi ultimi a confrontarsi con le nostre risorse umane chiedendo gli orari, lo stipendio e le prospettive per il proprio figlio», accostando queste mamme e papà che cercano di pianificare l’entrata del proprio figlio nel mondo del lavoro ai procuratori che nel calcio cerca il miglior ingaggio per il loro assistito.

Siamo intrappolati in una dialettica dove il valore retributivo delle soft e hard skills non viene più affrontato nell’ottica della performance aziendale ma di una dialettica contrattuale “lavoro/beneficio”. E’ quindi sempre più necessario per un’azienda imparare a strutturarsi per valutare correttamente le competenze comportamentali e di conseguenza pagarle adeguatamente dato che da esse dipende la performance aziendale.

Parlare di salario ha senso in un mondo fatto di competenze e soft skills?

Nel 2021, sempre su Econopoly, Francesco Mercadante ci spiegava in un post la differenza tra Salario E Onorario partendo dalla loro etimologia: uno deriva da sale di cui contadini e soldati ricevevano un sacchetto in cambio delle loro abilità lavorative, l’altro da onore che i clienti riservavano a Medici ed Avvocati con doni e beni dopo essersi giovati delle loro competenze. Sempre di retribuzione si trattava, in sintesi un do ut des, ma è evidente che l’Onorario alla fine era molto più prezioso del Salario, dato che contadini e soldati se ne trovavano, o si potevano addestrare in fretta, mentre medici ed avvocati erano pochi e assai richiesti…

La famosa fattura da mille dollari dell’ingegnere informatico

Su questo tema, va ricordata anche una celebre storiella in voga negli anni ’80 che chiarisce bene come le competenze possano essere la vera determinante nella definizione di un pacchetto di retribuzione:

Un ingegnere fu chiamato a riparare dalla ACME Corporation un computer molto grande ed estremamente complesso, un computer del valore di svariati milioni di dollari. Sedutosi di fronte allo schermo, premuti alcuni tasti, annuì, mormorò tra sé e lo spense. Poi prese un piccolo cacciavite dalla tasca e girò a metà a una piccola vite.

Quindi accese di nuovo il computer che riprese a funzionare perfettamente. Il presidente della ACME entusiasta, si offrì di pagare il conto sul posto. – “Quanto le devo?” – chiese – “In totale 1.000 dollari ” – “1.000 dollari?! Per un paio di minuti di lavoro?! 1.000 dollari, semplicemente per aver girato una piccola vite?! Io so che questo super computer costa milioni di dollari, ma… 1.000 dollari è un importo pazzesco! Pagherò solo se mi invia una fattura dettagliata che giustifichi perfettamente questa cifra!” L’ingegnere annuì e se ne andò. La mattina seguente, il Presidente ricevette via fax la fattura, lesse attentamente, scosse la testa e procedette a pagare, senza indugio.

Posso mostrarvene una copia:

Salario minimo e importanza di un sistema formativo

Non posso certo tirare somme o fare alcuna morale, ma credo che anche questa antica storiella – di un mondo che non c’è più ma che ancora assomiglia al nostro – ci aiuti comunque a riflettere su cosa sia perseguire un salario minimo che garantisca un potere d’acquisto minimo e a cascata beni e valori tarati al minimo, oppure un sistema formativo e ancor più la volontà di essere formati dall’inizio alla fine della carriera, in modo di essere più interessanti e meritevoli di una retribuzione come quella dell’Ingegnere che non era un semplice “giraviti” ma sapeva quale vite si doveva avvitare.

Solo così si rispetterà il lavoro di chi rischia la riduzione in schiavitù con un set di competenze (ovvero sapere ed abilità) limitato – ad esempio un fattorino di una società di consegne a domicilio o un operaio non specializzato – ed anche quello di chi ha sviluppato più ampie competenze e vede oggi la sua professionalità alla fine dei conti sottopagata. Sembra paradossale ma è quanto accade anche in tragici episodi come quello dei manutentori ferroviari di Brandizzo.

I Quindici della Cooperativa Birra dello Stretto

Esistono anche storie non a lieto fine ma guidate dal talento e dalle competenze, come l’epopea della Birra Messina, marchio storico che Heineken ha acquisito nel 1988. La multinazionale nel 1999 trasferì la produzione altrove condannando lo stabilimento di Messina a varie vicissitudini ed alla chiusura definitiva nel 2011. Ma nel 2013 il mastro birraio Mimmo Sorrenti insieme ad altri 14 ex operai specializzati utilizzando i loro TFR, fondano la Cooperativa Birrificio Messina, con un nuovo marchio e nuove birre locali: Birra dello Stretto, nelle versioni “Premium” e “Non Filtrata” e Doc 15 e Doc 15 cruda, una ricetta “cruda” che i 15 soci hanno deciso di dedicare, nel nome, alla loro avventura.

“Mio nonno faceva la birra, mio padre faceva la birra, io voglio continuare a fare la birra”, racconta Mimmo Sorrenti e “sarebbe stato più facile mollare, ma non saremmo mai stati così fieri di noi”. Una storia vera e italiana, visibile e visitabile nella stessa regione che aveva il maggior numero di percettori RDC, ma dove le competenze hanno vinto sulla ricerca del minimo per puntare un po’ più in alto, magari con iniziali sacrifici ma la prospettiva di crescere e riscattarsi.

I ragazzi del Centro Rebaudengo e la Panda 4×4

Un’altra bella esperienza di costruzione “da zero” di competenze si è realizzata a Torino con il progetto Panda 4 Mission, iniziato da una vecchia Fiat Panda 4×4, il mini fuoristrada degli anni ‘80, di cui l’associazione “Torino Heritage” ha proposto il restauro agli insegnanti e ai ragazzi del Centro di Formazione Professionale ‘Rebaudengo’, giovani che abbandonata la scuola tornano in classe presso centri di formazione per acquisire una qualifica professionale ed avere una maggiore leva e più opportunità nel mondo del lavoro.

La sfida era far tornare nuova quella vecchia Panda, facendo affrontare con i ragazzi un caso concreto di restauro sia nel reparto di carrozzeria sia in quello di meccanica. E facendo di loro operai specializzati e ricercatissimi nel ricco settore delle auto classiche e d’epoca dove mancano risorse e le opportunità sono molte. Il progetto ha generato un contagioso entusiasmo che ha coinvolto anche il leggendario designer Giorgetto Giugiaro, papà della Panda, che ha partecipato al progetto e posto la sua firma sul cruscotto.

Anche Pirelli ha fornito gli pneumatici tassellati del modello originale riesumando i vecchi stampi. L’auto è stata poi venduta con una charity auction di Aste Bolaffi, a 13.250 euro che sono stati spesi per dotare di attrezzature un’altra scuola Salesiana in Madagascar il “Centre Notre Dame de Clairvaux”.

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Giorgetto Giugiaro (a sinistra accanto alla sua Panda4Mission) e gli studenti del Rebaudengo

In una scuola come il Rebaudengo la formazione professionale, cioè l’aumento del sapere e delle competenze, è lo strumento per dare ai giovani un mestiere spendibile che riversa così sull’intera comunità a cui appartengono un avvio di benessere economico. Al termine del progetto il direttore il professor Marco Teruggi ha anche raccontato dell’entusiasmo che gli allievi hanno messo per il restauro: “Le squadre che hanno operato sul veicolo erano sempre puntualissime agli appuntamenti. Il piacere di riattivare un mezzo che sarebbe poi tornato su strada superava l’interesse per le lezioni in cui la pratica richiede di montare un motore e smontarlo per la lezione della squadra successiva”.

Non salario ma onorario

Ammettiamolo: siamo nell’Antropocene e nell’era digitale. Non si può più, non si deve più parlare salario ma di onorario per chiunque abbia una specializzazione ed una qualifica. E bisogna darne una a chi non ce l’ha! Anche il più manuale dei lavori oggi richiede formazione, competenze e soft skills. Oggi non possiamo pensare al Paradosso di Keynes, che arrivò a sostenere che in casi di grande disoccupazione il Governo dovrebbe assumere disoccupati per scavare buche e poi riempirle, pensando al solo effetto positivo di dare disponibilità di denaro e di spesa a chi prima non l’aveva. Nel 2023, per scavare una buca non si usa una pala ma un macchinario complesso che richiede un corso di formazione ed una patente!

Conclusioni:

Di fronte ad un mondo del lavoro sempre più tecnologico va trovata una sintesi le esigenze di un’azienda, le capacità di apprendimento della forza lavoro, l’abilità di trasferire quanto appreso ed un necessario atteggiamento di disponibilità e flessibilità a adattarsi alle richieste che si ricevono dal mercato. Non contano posizione gerarchica e ruolo professionale, vanno valutate competenze tecniche, posizione e anzianità in relazione ai valori di mercato contestualizzati geograficamente, settorialmente e dimensionalmente. Ancor più che un minimo salario andrebbe pensate una “scuola del lavoro” che dia ad ognuno la possibilità di ambire ad un onorario che riconosca il valore delle sue competenze e della sua performance anche con premi ad hoc.

L’ingegnere, manager e saggista statunitense W. Edwards Deming, le cui competenze furono più apprezzate in Giappone che in patria e che considerato il padre del miglioramento continuo (Kaizen), diceva, “una gestione per risultati non è il modo giusto di ottenere buoni risultati. Perché così si tenta di agire sui risultati finali, mentre quel che davvero è importante, è lavorare sulle determinanti che li producono e quindi lavorare sull’intero sistema”. Allo stesso modo se puntiamo ad un salario e non all’evoluzione dei lavoratori verso professionalità che comprendano competenze e conoscenza, non daremo valore ad un sistema complesso, come sono un’azienda, un distretto, un’intera nazione, ma forniremo solo elementi di sussistenza e sostegno sociale: pagando un salario, al posto di un onorario.