Piange il telefono: a chi toccherà pagare la vendita della rete Tim?

scritto da il 12 Gennaio 2024

Nei fili del telefono e nei cavi di fibra ottica non corre solo la nostra voce: sottoterra si gioca una partita finanziaria che condizionerà tutti, a partire dalle nostre bollette. Qui di seguito proviamo a fare i chiarezza sulle carte che sono sul tavolo. La posta in gioco è la rete telefonica fissa di Telecom Italia, diventata Tim (Telecom Italia Mobile) dopo l’Opa del 2005. questa rete serve l’89% delle famiglie italiane e ha  cavi in fibra per una lunghezza di 23 milioni di chilometri.

Tim e il ruolo dei francesi di Vivendi

Tim, il proprietario di questa rete, ha fra i suoi azionisti Vivendi, gigante francese dei media e delle telecomunicazioni, con circa un quarto delle azioni, Cassa Depositi e Prestiti, controllata dal Ministero dell’Economia (MEF), con il circa il 10% e il resto è in mano a investitori istituzionali esteri. Vivendi è piuttosto contrariata perché nel 2016 ha pagato la sua quota più di 4 miliardi e adesso se la ritrova con un valore di 1,5 miliardi, visto che Telecom Italia capitalizza in borsa circa 6 miliardi (pur avendo recuperato il 15% negli ultimi dodici mesi). Vivendi si oppone alla vendita della rete al colosso del private equity americano da 500 miliardi di dollari, Kkr, perché  ritiene l’offerta non adeguata.

L’andamento di Tim in Borsa aggiornata al 12 gennaio 2024 e la capitalizzazione (in dollari) pari a circa 6 miliardi di euro

La rete di Telecom Italia non è l’unica rete telefonica: c’è un concorrente che si chiama Open Fiber. I proprietari sono Cassa Depositi e Prestiti con il 60% e il fondo di private equity australiano Maquarie con il restante 40%. Questa alleanza con gli australiani porta con sé alcune ombre: dopo aver comprato Thames Water, il gestore del servizio idrico di Londra, Maquarie lo ha caricato di debiti per poi cederlo in condizioni finanziarie disastrose.

Agcom e la concorrenza sui prezzi 

Quando un treno corre sui binari il gestore del treno deve pagare alla rete una tariffa di passaggio, diciamo. Quando la nostra voce o i dati corrono nei cavi di fibra ottica o di rame il gestore che li invia deve pagare la rete telefonica una tariffa di passaggio. Per evitare che il proprietario della rete abusi della sua posizione dominante e a volte monopolistica, richiedendo tariffe eccessive o discriminando fra i gestori che chiedono di passare, esiste una autorità di regolazione, l’Agcom, che stabilisce le tariffe per l’uso della rete di telefonia fissa.

Tim

Il logo di Tim è visibile sullo schermo di una smartphone in piazza Affari, Milano, 22 novembre 2021. ANSA/DANIEL DAL ZENNARO

Agcom ha avviato la consultazione per la determinazione dei prezzi di accesso alla rete fissa telefonica per il periodo 2024-28.

In alcune aree geografiche l’autorità ritiene che vi sia piena concorrenza e quindi rimuove gli obblighi regolamentari in capo a Tim e alla controllata Fibercop.

Tim e l’eredità del passato

L’elefante nella stanza, nel caso Tim, è l’enorme debito che si porta dietro dalla sciagurata privatizzazione del 1997: un debito netto di più di 26 miliardi, lordo circa 32 miliardi. Questo debito la costringe a vendere il gioiello di famiglia: la rete.

Oggi Telecom vale poco più di 6 miliardi: come è possibile che la sua rete telefonica, una volta scorporata da Tim valga 22 miliardi secondo l’offerta di Kkr? È possibile perché, secondo le previsioni di Kkr l’Ebitda (un indicatore di profittabilità) dovrebbe raggiungere 2,7 miliardi (margine al 50%) e, tolto il Capex (le spese di investimento sulla rete), resterebbe un saldo di cassa di 1,9 miliardi, pari a oltre il 35% dei ricavi. A questa condizione Kkr nel 2030 potrebbe rivendere la rete, guadagnandoci.

Il debito monstre che lo Stato non si può permettere

In un mondo ideale la rete scorporata dal gestore Tim dovrebbe essere a controllo pubblico per garantire neutralità. Nel mondo reale il debito monstre di Tim richiede la vendita della rete a qualcuno disposto a tirar fuori molti soldi, un qualcuno che non può essere lo Stato.

Kkr vuole la maggioranza di NetCo (la rete), F2i (fondo il cui azionariato vede in maggioranza fondazioni bancarie, banche, casse di previdenza, istituzioni pubbliche) con il MEF avrebbe una quota minoritaria ma sufficiente a garantire obiettivi di pubblico interesse. Le briciole andrebbero a fondazioni bancarie, casse previdenziali (anche i geometri), Poste Italiane, e a tutti i soggetti interessati che puntano alla crescita di valore del titolo.

Le conseguenze per i consumatori

Kkr vuole estrarre profitti e distribuirsi dividendi, magari facendo debito? E’ legittimo sospettare che un giorno potrebbe uscire lasciando la preda appesantita da oneri finanziari? La storia di Thames Water induce al sospetto. Certo è che per pagare 22 miliardi la rete, Kkr si aspetta un ebitda molto alto, e questo può venire solo da tariffe alte, ciò da noi consumatori e dalle imprese collegate alla rete.

Le conseguenze dei debiti prima o poi bussano alla porta.