Operaio di te stesso? No, imprenditore: crea un’azienda autonoma

scritto da il 22 Aprile 2024

“Non voglio che mio figlio faccia il mio mestiere”: quante volte abbiamo detto o abbiamo ascoltato qualcuno ripetere questo mantra.

Lo dice la parrucchiera e ha ragione perché nonostante tutto è un lavoro duro il suo, sempre in piedi, sempre a contatto con il pubblico.

Lo ripete il muratore, che è lavoro di fatica fisica e di cervello, dove il rischio finanziario non è basso, perché trovare clienti che pagano sull’unghia è difficile, mentre i fornitori i soldi li vogliono subito.

Ma lo dichiara anche l’avvocato o il commercialista o l’imprenditore in genere.

Ognuno di loro ha le sue rispettabilissime ragioni, che variabilmente vanno ricondotte alla italica burocrazia, al fisco pesante, alla difficoltà di gestire i rapporti con clienti e fornitori, alla concorrenza feroce o addirittura all’intelligenza artificiale,che sta mettendo lo zampino un po’ dappertutto tanto per complicare le cose.

Artigiano al lavoro

( Fonte: www.emiliotomasini.it )

Io stesso rammento sempre ai miei figli quello che mi diceva mio padre, che era un industriale nel settore ceramico: “Se fai un lavoro che ti piace allora non è più fatica, ma un divertimento”.

Lui non voleva fare l’industriale, era un artigiano nato e l’abito da padrone della ferriera gli è sempre andato stretto.

Preferiva infatti il grembiule del tornitore perché per un uomo dei suoi tempi il tornitore aveva l’afflato dell’artista visto che non esistevano ancora i torni elettronici. E per il suo carattere l’arte e il bello venivano prima del denaro.

Ma quelli erano i tempi del dopoguerra e un industriale poteva permettersi dolci divagazioni sul tema come quelle, perché il boom economico ti spingeva immancabilmente sulla cresta dell’onda.

Oggi come oggi agli ostacoli tradizionali della libera mano del mercato e ad un quadro macroeconomico ondivago si aggiunge la complessità del mondo moderno.

Se il cambiamento c’è sempre stato nella storia dell’umanità, la velocità odierna del cambiamento è tale che tutti siamo chi più o chi meno spiazzati.

Fatta questa premessa e toccato un tasto che chiunque sia padre sente prepotentemente nella relazione con il figlio e nell’angoscia di cercare di definire quale sarà il suo lascito non solo morale ma anche economico,ecco però che voglio fare una osservazione più che a voi lettori a me stesso, visto che sono anch’io parte in causa.

Una osservazione molto amara.

La maturità di un imprenditore vorrebbe che la sua impresa fosse scissa almeno parzialmente dal suo apporto di “lavoro”, inteso come attività misurata da un prodotto per il tempo necessario a costruirlo.

Il tempo e la energia fisica si compra facilmente sul mercato del lavoro, la capacità direzionale e soprattutto quella imprenditoriale sono merce rara.

Il successo dell’imprenditore sta nel rendersi terzo rispetto al lavoro necessario a fare funzionare la sua impresa. Se consideriamo l’impresa come un asset produttore di reddito data una serie di input, tra cui ovviamente il lavoro e la capacità direzionale, ecco che arriviamo alla conclusione che non necessariamente nostro figlio dovrà decidere se fare il nostro lavoro oppure un altro, se il nostro lavoro è scindibile dall’impresa e delegabile ai terzi.

Nostro figlio dovrà limitarsi a fare il socio o l’imprenditore, attività difficilissime ma molto meno pesanti sotto il profilo fisico di quello del semplice prestatore d’opera.

Le funzioni del socio o dell’imprenditore sono note: deve investire i capitali dove è più redditizio, quindi deve sapere farei conti e valutare i progetti di investimento.

Deve controllare chi lavora, attività sottilissima di equilibrismo e polso fermo.

Deve avere il coraggio di abbassare la saracinesca quando non c’è più reddito, decisione questa che mette a repentaglio l’orgoglio e l’ego di chiunque.

La parrucchiera si deve quindi chiedere se la figlia vorrà stare seduta all’entrata della bottega, mani sul cassetto della cassa, e dialogare piacevolmente con le clienti in attesa della messa in piega mentre le sue inservienti vorticosamente danzeranno tra una poltrona e l’altra.

parrucchiera

( Fonte: www.emiliotomasini.it )

Il figlio del muratore si occuperà di trovare con il marketing nuovi clienti e di negoziare sconti con i fornitori mentre il direttore dei lavori in ore antelucane sarà già in cantiere con la manodopera per abbattere e costruire muri.

O semplicemente figlia della parrucchiera e figlio del muratore dovranno prendere la decisione se non sia il caso di chiudere la bottega in tempo per mettersi in tasca quattro soldi prima dell’inevitabile declino.

Quello che voglio significare con questo mio sproloquio è che forse è anche colpa di noi imprenditori se temiamo di lasciare ai figli una attività che ancora necessita del nostro “lavoro” per tirare avanti perché significa che siamo ancora “operai di noi stessi”.

E non siamo ancora riusciti a costruire una azienda che è prima di tutto un asset produttore di reddito in maniera autonoma e non “un posto di lavoro fisso a reddito variabile” come chiosava un mio conoscente quando parlava della sua piccola azienda.

In conclusione dietro quello che potrebbe passare come un gesto di amore nei confronti dei figli basato sul presupposto che non li vogliamo fare soffrire come abbiamo sofferto noi, si nasconde il nostro insuccesso di artigiani, professionisti e imprenditori e la nostra incapacità di creare una azienda vera che sappia camminare con le proprie gambe.

E quindi quando sentiamo un artigiano o un imprenditore che si lagna del proprio lavoro e promette di non lasciarlo in eredità ai propri figli dovremmo consigliarlo di licenziarsi da “operaio di se stesso”  e provare a costruire una vera e propria azienda che sia terza rispetto al proprio lavoro.

X (già Twitter) @EmilioTomasini

La pagina di Emilio Tomasini sul suo sito personale