Il debito e le scelte dell’Europa: l’unica medicina è la crescita

scritto da il 14 Maggio 2024

Post di Matteo Ramenghi, Chief Investment Officer, UBS WM Italy – 

Dopo una sospensione durata quattro anni torna in vigore il Patto di stabilità, parzialmente modificato, di cui si parlerà abbondantemente una volta passate le elezioni europee perché entro settembre gli Stati dovranno presentare i piani nazionali. Questo patto, in precedenza, è stato molto criticato per i suoi effetti pro-ciclici, in modo particolare per aver acuito le fasi recessive seguite la crisi finanziaria del 2008 e la crisi dei debiti pubblici europei del 2010-12.

I punti di maggior impatto della nuova versione del Patto di stabilità sono: la riduzione di un punto percentuale l’anno del debito pubblico che eccede il 90% del prodotto interno lordo (PIL) e la correzione del deficit superiore al 3%. L’accordo non sembra voler tener conto dei maggiori disborsi che l’Europa dovrà affrontare per la difesa, mentre la NATO preme per rispettare l’impegno del 2% del PIL.

Sulla base delle finanze pubbliche dello scorso anno, molti Paesi saranno sottoposti ad una procedura per deficit eccessivo. Tra i principali ci sono L’Italia, la Francia, il Belgio e forse la Spagna. Secondo la Banca centrale europea (BCE), l’applicazione del nuovo patto potrebbe erodere tra lo 0,2% e lo 0,4% del PIL della zona euro nel periodo 2025-26 (realisticamente di più per i Paesi con maggior debito pubblico, come l’Italia).

Non solo il Patto di stabilità

Queste prescrizioni si sommano ad una politica monetaria particolarmente restrittiva da parte della BCE che, finora, ha mantenuto il tasso di riferimento al 4,5% nonostante l’inflazione sia già vicina al target del 2% e l’economia stenti a crescere. Le conseguenze dei tassi così elevati si sono manifestate soprattutto sugli investimenti in conto capitale come il rinnovo macchinari e gli immobili e nel Nord Europa, che maggiormente aveva beneficiato dei tassi bassi nel decennio scorso.

Da giugno dovrebbe cominciare la discesa dei tassi d’interesse ma la BCE continuerà a ridurre il proprio bilancio, già calato di oltre due mila miliardi di euro. Ciò significa che le obbligazioni in scadenza detenute dalla banca centrale (in larga misura titoli di Stato) non verranno sostituite e, quindi, la liquidità in circolazione continuerà a diminuire rendendo meno agevole il ricorso al credito per imprese e famiglie.

La ricetta Draghi: più investimenti per evitare il declino

Questa direzione di marcia stride con l’appello dell’ex Presidente del Consiglio ed ex Presidente della BCE, Mario Draghi, che ha identificato un fabbisogno di investimenti di almeno 500 miliardi di euro l’anno, pari all’1,5% del PIL, oltre alla necessità di rispolverare le riforme strutturali spesso ancora rimaste nel cassetto. Possiamo immaginare che investimenti di questa portata dovrebbero essere finanziati direttamente dall’Unione Europea per non appesantire i bilanci dei singoli Paesi.

Tali investimenti sarebbero necessari proprio per evitare il declino che l’Europa sta attraversando rispetto ad altri giganti economici come gli Stati Uniti e la Cina. Vi sono una serie di fattori frenanti la nostra economia. In primis la demografia, che si ripercuote sia sui consumi che sul mercato del lavoro. Inoltre, la classe media ha perso potere d’acquisto sottraendo ulteriore slancio alla domanda interna.

Si tratta, insomma , di posizioni quasi opposte tra di loro: da una parte la reintroduzione di regole fiscali che porteranno ad una diminuzione degli investimenti pubblici e dall’altra la richiesta di concentrarsi sulla crescita e di aumentare gli investimenti.

Un passo indietro: il successo degli stimoli fiscali

Per orientarsi proviamo a fare un passo indietro e prendere in considerazione qualche statistica. In seguito all’esplosione della pandemia, l’Unione Europea ha sospeso il Patto di stabilità e, come altre economie avanzate, ha varato stimoli fiscali e garantito il credito bancario evitando il credit crunch e la distruzione di capacità produttiva.

Inoltre, ha finalmente inaugurato un meccanismo di debito comune: il Recovery Fund, dando un messaggio ai mercati ovvero che l’euro è indissolubile. Nonostante da allora non sia stato più emesso debito comune, la forza di questo messaggio è confermata fino ad oggi, infatti da allora lo spread per i Paesi del sud Europea è rimasto sempre sotto controllo.

Sulla scorta di queste politiche, si sono registrati tassi di crescita che non si vedevano da decenni nonostante l’ondata inflattiva. Il successo di queste politiche è confermato dal fatto che l’economia europea ha recuperato i livelli precedenti al periodo del Covid e, nonostante tutto il debito contratto per finanziare gli stimoli fiscali, anche l’indebitamento è tornato ai livelli precedenti.

Infatti, nella zona euro si era raggiunto un livello di debito pubblico pari al 120% PIL all’apice del crisi legata al Covid ma siamo tornati alla fine del primo trimestre di quest’anno al 93%, che si confronta con il 117% degli Stati Uniti e il 233% del Giappone.

L’evoluzione del debito e l’Italia

La rapida crescita del PIL e l’elevata inflazione hanno consentito di riportare rapidamente l’indebitamento ai livelli pre-pandemia. Occorre ricordare che il denominatore del rapporto debito/PIL è il prodotto interno lordo nominale, che comprende l’effetto dell’inflazione; un’inflazione più elevata fa salire il denominatore e riduce quindi il rapporto. D’altra parte, con l’inflazione della zona euro ormai vicina al target del 2% e bassa crescita, questo effetto positivo è destinato a moderarsi e la gestione del debito diventerà meno agevole.

debito

Spesso si fa riferimento al maggior debito pubblico di alcuni Paesi tra i quali spicca l’Italia. La ripartizione del debito tra pubblico e privato è molto eterogenea in Europa, ma se si considera il debito totale, comprendendo anche il settore privato, tra i Paesi principali la Germania mostra l’indebitamento inferiore (243% del PIL), seguita dall’Italia (276%), la Francia arriva al 421%, e i Paesi Bassi addirittura al 477%. Guardando più lontano, gli Stati Uniti sono al 334% e il Giappone al 660%.

Quanto all’Italia, le principali agenzie di rating hanno recentemente confermato la stabilità del rating nonostante i recenti dati sul deficit, esploso oltre il 7% per effetto del «superbonus» (’agevolazione fiscale che consiste in una detrazione del 110% delle spese sostenute per l’efficienza energetica e la riduzione del rischio sismico degli edifici).

Per l’Italia sarà determinante l’evoluzione dell’indebitamento nei prossimi anni e, per mantenere il buon andamento sul mercato, sarà necessario mettere in campo azioni in grado di fare scendere l’indebitamento pubblico in modo sostenibile.

E gli investimenti? Come orientarsi?

Con riguardo agli investimenti, con l’inflazione scesa quasi al 2% e la BCE ormai prossima a tagliare i tassi a giugno e poi in altre due o tre volte prima della fine dell’anno, continuiamo a suggerire di bloccare i rendimenti a mediolungo termine su obbligazioni di buona qualità per garantirsi ritorni elevati anche una volta che i tassi saranno scesi.

Inoltre, questo tipo di obbligazioni ha una natura anticiclica e le valutazioni potrebbero apprezzarsi qualora le banche centrali accelerassero i tagli dei tassi d’interesse a fronte di un deterioramento economico. L’inasprimento degli standard di prestito e il rallentamento della crescita suggeriscono un rischio di default più elevato e, di conseguenza, riteniamo che il segmento high yield sia più vulnerabile.