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Capire l’Iran per salvare il Medio Oriente


Il regime iraniano è logoro, ma sopravvive. Dopo decenni di repressione, isolamento economico e crisi interne, la Repubblica Islamica ha perso credibilità presso gran parte della sua popolazione. Le istituzioni non elette, dominate dalla Guida Suprema e dai Pasdaran, hanno svuotato ogni spazio di rappresentanza effettiva. Le riforme sono state sistematicamente neutralizzate. Eppure il sistema resiste. Non grazie al consenso, ma per mancanza di alternative credibili.
Le sanzioni non hanno funzionato. Hanno indebolito la classe media, frenato l’innovazione, accresciuto la dipendenza del sistema dai canali paralleli e dai circuiti opachi del potere. Ma non hanno innescato la transizione sperata. Anzi: hanno rafforzato la narrativa del nemico esterno e reso più difficile ogni apertura interna. Le pressioni economiche, da sole, non producono democrazia. Senza percorsi di reintegrazione graduale, isolare un Paese significa immobilizzarlo.

Titoli dei giornali iraniani esposti in una bancarella a Teheran il 24 giugno 2025. Il 24 giugno i media iraniani hanno riferito che un attacco israeliano notturno nel nord del Paese ha causato la morte di nove persone, prima dell’annuncio del presidente degli Stati Uniti dell’inizio di un cessate il fuoco tra Israele e Iran. (Foto di ATTA KENARE / AFP)
Molti iraniani oggi non sperano, ma valutano. Vivono una doppia verità: il governo è disfunzionale, ma la sua caduta potrebbe aprire scenari peggiori. Gli esempi sono vicini e recenti: in Iraq, Libia, Siria e Afghanistan, la fine del potere autoritario non ha portato libertà stabile, ma conflitto permanente. È un calcolo freddo: un cattivo governo è sopportabile, l’assenza di governo no. Non c’è fiducia nel regime, ma neppure in chi promette di rovesciarlo da fuori.
Il silenzio non è approvazione. È cautela. L’apparente immobilismo è la razionale conseguenza di decenni di traumi regionali. L’Iran è un Paese prigioniero del proprio regime, ma anche della paura di diventare come i vicini. L’idea di una rivoluzione “liberatrice”, sostenuta da potenze esterne, è vista con sospetto. Troppo spesso, in Medio Oriente, le liberazioni hanno lasciato solo vuoti di potere, guerre civili e occupazioni prolungate. L’alternativa all’oppressione non può essere il caos.
La stabilità regionale richiede una nuova architettura inclusiva. Il Medio Oriente non può reggersi su un equilibrio costruito contro l’Iran. È troppo grande, troppo connesso, troppo influente per essere escluso. Ma un suo reinserimento richiede un cambio di logica e responsabilità condivise. Non diatribe ideologiche, ma incentivi economici condizionati a riforme verificabili. L’integrazione economica, se costruita su basi funzionali, può fare più della pressione diplomatica.
Una road map possibile esiste già. Nel 2023, la Cina ha favorito il riavvicinamento tra Teheran e Riyad. Sono ripresi i voli diretti, riaperte le ambasciate. L’Iran punta a 1 miliardo di scambi commerciali con l’Arabia Saudita. Sono piccoli segnali, ma vanno nella direzione giusta. L’esperienza europea insegna che le fratture storiche possono essere superate. Anche Francia e Germania, dopo secoli di guerre, hanno costruito una pace duratura attorno a un mercato comune.
La svolta in Medio Oriente può arrivare dall’economia. Una zona di libero scambio mediorientale – imperniata su Iran, Arabia Saudita e altri attori regionali – favorirebbe la crescita, la creazione di posti di lavoro e il dialogo interconfessionale. Programmi di scambio accademico e cooperazione su sanità, acqua, energia e tecnologia possono ridurre le fratture settarie. L’interdipendenza funziona: crea interessi comuni e frena l’escalation. La politica, da sola, non basta.
Un ordine stabile nasce da incentivi, non da ideologie. L’Iran non cambierà sotto minaccia. Ma può evolvere se posto davanti a scelte concrete: accesso ai mercati, investimenti infrastrutturali, reintegrazione selettiva nel sistema finanziario internazionale. In cambio, servono impegni verificabili: su trasparenza fiscale, governance economica, rispetto dei diritti civili. Le condizioni devono essere tecniche, non retoriche. E applicabili, non utopiche.
Il Medio Oriente non può più permettersi soluzioni binarie. L’idea che si debba scegliere tra autoritarismo e disordine ha bloccato la regione per decenni. Ma la storia non è scritta. Esiste uno spazio per una terza via: imperfetta, ma praticabile. Un equilibrio pragmatico, costruito su interessi comuni, gradualità e convergenza funzionale. L’Iran, se ben gestito, può essere parte della soluzione. Ignorarlo, o volerlo schiacciare, lo renderà invece parte del problema.