Pubblicità e Antitrust: sfida aperta al potere delle Big Tech

scritto da il 10 Luglio 2025

Post di Angela Bersini, Country Manager Italy di The Trade Desk

C’è un vecchio detto che gira nel mondo della tecnologia e della pubblicità: “Se non paghi per il prodotto, il prodotto sei tu”. Oggi più che mai, questa frase suona incredibilmente attuale.

Le Big Tech stanno adottando misure sempre più aggressive per rafforzare i propri walled garden, ecosistemi chiusi in cui controllano ogni aspetto dell’esperienza pubblicitaria. Le conseguenze sono ormai sotto gli occhi di tutti. Negli anni, molte di queste aziende hanno abbracciato pratiche anticoncorrenziali, anteponendo il profitto alla trasparenza.

Le autorità regolatorie stanno finalmente reagendo – il recente processo antitrust contro Google ne è solo un esempio. Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (DOJ) ha avviato un’azione legale senza precedenti contro Google e Alphabet, accusando il colosso tecnologico di detenere un monopolio illegale nel settore della pubblicità digitale, ma è difficile che gli inserzionisti colgano benefici concreti nel breve termine.

Le multe salate sono la risposta più comune a questo tipo di comportamenti, ma hanno prodotto pochi cambiamenti reali. Alphabet è stata colpita da sanzioni per miliardi di euro. Impattanti, certo – ma non abbastanza da scoraggiare future violazioni.

L’opacità del mercato pubblicitario

Nel frattempo, mentre i regolatori discutono sul da farsi, le Big Tech continuano a operare in zone grigie, piegando silenziosamente il mercato a proprio favore. Nonostante le crescenti azioni antitrust, le Big Tech riescono spesso a eludere le restrizioni grazie all’opacità e alla complessità intrinseche del mercato pubblicitario digitale. La supply chain rimane ancora troppo poco trasparente, fatta di “scatole nere” che rendono difficile monitorare e regolamentare le pratiche di mercato. Questo sistema opaco permette ai giganti tecnologici di consolidare il proprio controllo all’interno di ecosistemi chiusi e controllati, spostando progressivamente il loro business lontano dall’internet aperto e complicando così l’azione delle autorità regolatorie.

Se gli sconti restano solo apparenti

Una delle strategie più recenti adottate da alcuni fornitori consiste nell’abbassare le commissioni applicate sulle proprie DSP (Demand Side Platform), arrivando talvolta fino allo 0,5%. Ma questo non si traduce necessariamente in un risparmio per brand o agenzie media. Si paga in altri modi: con oneri occulti, minore trasparenza, privilegi riservati agli spazi pubblicitari di proprietà, rischi per la sicurezza del brand, cessione dei dati e saturazione pubblicitaria per i consumatori – tutti fattori che compromettono l’efficacia delle campagne.

Prima di investire in un media, gli inserzionisti devono analizzare con attenzione le strutture di costo e i termini di servizio, per avere una visione completa del contesto. Controllo e trasparenza non sono negoziabili: è fondamentale sapere dove appaiono gli annunci, con quale frequenza e quale valore reale ha ciascuna impression.

Per retailer e brand, la posta in gioco è ancora più alta. Quando una grande piattaforma di ad tech gestisce l’erogazione delle campagne, imposta i prezzi, stabilisce i margini, misura le performance, sfrutta i dati a proprio vantaggio e controlla il marketplace in cui avviene la vendita dei prodotti, il rapporto costi-benefici reale diventa molto più complesso di una semplice commissione dello 0,5% – e merita un’attenta valutazione.

Big Tech

Nel braccio di ferro con Big Tech è fondamentale che i marketer continuino a esigere trasparenza, sull’utilizzo dei propri dati e sul valore reale generato da ciascun partner (Immagine generata con ChatGPT)

I costi aumentano, i ricavi si assottigliano, la Big Tech si arricchiscono

In definitiva, questi comportamenti aumentano i costi per gli inserzionisti e riducono le opportunità di ricavo per gli editori. Le Big Tech, forti di risorse finanziarie pressoché illimitate e libere di agire da giudici e giurati, continuano così a privilegiare i propri interessi rispetto alla performance dei loro clienti.

Nonostante lo squilibrio, i marketer non sono privi di strumenti per reagire. Anche in un contesto di crescente attenzione da parte delle autorità regolatorie – in particolare negli Stati Uniti e nell’Unione Europea – è fondamentale che continuino a esigere trasparenza, sull’utilizzo dei propri dati e sul valore reale generato da ciascun partner.

In un momento segnato dall’incertezza, i CMO si trovano a dover ottenere di più con risorse sempre più limitate. Ma arretrare significherebbe perdere slancio.

Che cosa si può fare, concretamente?

La risposta più solida e duratura consiste nel puntare sulla pubblicità data-driven all’interno di un internet aperto e premium, dove insight in tempo reale, targeting preciso e accesso a contenuti di qualità in ambienti sicuri garantiscono la flessibilità necessaria per rispondere con efficacia alla domanda reale dei consumatori.

I sistemi chiusi, al contrario, funzionano soprattutto per chi li controlla – spesso a discapito di tutti gli altri. I compromessi sono reali: l’apparente comodità o i risparmi di facciata non dovrebbero mai andare a scapito del controllo. I brand, le agenzie e gli inserzionisti più accorti lo sanno bene: chiedono trasparenza, indipendenza e performance misurabili dai propri investimenti media. Non si tratta di semplici vantaggi accessori, ma dei pilastri su cui costruire il successo duraturo di un brand – e un internet più sostenibile, premium e supportato dall’advertising.