Transizione verde, due modelli: Cina e Occidente: chi vincerà?

scritto da il 10 Luglio 2025

Post di Alberto Calvo e Massimiliano Granieri, rispettivamente Managing Director e Charmain di Mito Technology

Come ha scritto recentemente Guido Saracco, ex rettore del Politecnico di Torino, “se facciamo diventare i 4,6 miliardi di anni di storia del pianeta un nastro lungo 4,6 metri, i nostri antenati compaiono negli ultimi 3 millimetri” (Chimica verde 5.0, Bologna, 2024 25). Nella macrostoria dell’uomo, quella che trascorre dalla seconda rivoluzione industriale ai nostri giorni è una frazione piccola ai limiti dell’impercettibile. Incredibilmente, però, ciò che sta avvenendo in questo spazio di tempo limitatissimo rischia di avere un impatto decisivo sul pianeta. L’ineludibilità di questa constatazione e la drammaticità di eventi climatici sempre più violenti e sempre più improvvisi ci avverte che azioni di mitigazione e lotta al cambiamento climatico sono ormai un obiettivo ‘politico’ nel senso etimologico di questo termine: agire è oggi una condizione di sopravvivenza della collettività e di perpetuazione del benessere sociale.

La scala dei problemi ambientali è tale che, in tutto il mondo, si rivolgono grandi attese nei confronti di scienza e tecnologia. Su come fare in modo che le soluzioni così individuate divengano disponibili su larga scala per le società contemporanee, si misurano oggi due modelli, non necessariamente contrapposti, benché originariamente sostenuti da concezioni politiche, per l’appunto, molto diverse tra loro.

Il modello di transizione cinese: parte della soluzione e del problema

Il primo è quello incarnato oggi dalla Cina, e cioè un modello che presuppone un fulcro decisionale accentrato e successivamente una capacità di esecuzione a livello periferico caratterizzata da grande disciplina e scrupolo, anche dal punto di vista del rispetto dei tempi. Proprio per questo, si tratta di un tipo di approccio capace di pianificare per il lungo periodo (la Cina, con una certa affidabilità, fa piani di sviluppo ultradecennali). La Cina ha investito oltre 676 miliardi di dollari nel climate tech nel 2023, superando ampiamente Europa e Stati Uniti messi insieme (fonte: RMI, maggio 2024). Se per il futuro la Cina dimostra di voler essere parte della soluzione, oggi è certamente ancora una parte significativa del problema: essa resta il più grande emettitore di gas serra al mondo, con un settore energetico primario ancora fortemente legato al carbone, che ha toccato un nuovo massimo di emissioni lo scorso anno.

Una strategia industriale ambivalente

Questa apparente contraddizione è in realtà il risultato di una strategia industriale intenzionalmente ambivalente, con cui il paese tende da un lato a mantenere minimi i costi di produzione di una moltitudine di categorie merceologiche destinate alle esportazioni (sulle quali non gravano misure di contenimento dell’impatto ambientale, come avviene invece per legge e con costi ingenti in gran parte del mondo occidentale), e dall’altro a costruire una posizione dominante sulle grandi filiere portanti nella transizione energetica, come sta avvenendo ad esempio nel settore dell’auto elettrica o dei pannelli fotovoltaici.

La capacità di attuare questa visione è supportata anche dal fatto che quel Paese dispone in modo esuberante di molte risorse naturali critiche per alimentare queste produzioni (come le terre rare) e beneficia, quindi, di un vantaggio competitivo legato alla geografia del proprio territorio (ma in modo altrettanto significativo alla capacità di stabilire alleanze strategiche in zone del mondo altrettanto importanti sotto questo profilo, come ad esempio in Africa). Non di meno, il disegno è chiaro e univoco.

Il modello occidentale: connubio tra ricerca e finanza

Al modello ‘cinese’, i paesi occidentali preferiscono una strada che è invece di coordinamento e “accompagnamento forzoso” – verso un obiettivo condiviso e stabilito convenzionalmente, anche attraverso standard emissivi di tipo normativo – e maggiormente (ma non esclusivamente) incentrata sull’iniziativa individuale. Un ruolo importante, se non decisivo, viene attribuito al connubio tra la ricerca scientifica e la finanza, nella convinzione (basata certamente sulle molte evidenze della storia dell’ultimo dopoguerra) che l’individuazione di risposte efficaci ai molti problemi che ancora affliggono l’umanità possa venire da quest’unione sinergica, dinamica e feconda.

In fondo, Moderna – che ha dato un contributo decisivo alla lotta contro il covid con la sua piattaforma di vaccini a DNA ricombinante – è stata inizialmente supportata in misura tangibile dai fondi di investimento e da capitale di rischio. Ci è voluta iniziativa individuale di natura imprenditoriale, risorse finanziarie adeguate e tempo sufficiente (quello che si definisce ‘capitale paziente’), e alla fine una risposta è arrivata. Molti paesi occidentali confidano in questo modello e sulla sua pervasività e adattabilità a tutti i contesti socio-economici, e lo ripropongono anche di fronte alle sfide poste dal cambiamento climatico.

Esiste oggi un vibrante ecosistema globale di fondi specializzati, imprese nascenti e reti interprofessionali che è animato dal proposito di trovare risposta ai molti problemi della transizione e di farlo coniugando l’obiettivo di lungo periodo con ritorni finanziari in grado di remunerare in modo commisurato i propri investitori.

Le politiche pubbliche e l’errore delle risposte basate sulle regole

Rispetto a questo secondo modello, gli stati si pongono non necessariamente come pianificatori, ma come facilitatori o coordinatori di partenariati pubblico-privati, cercando di creare le migliori condizioni al contorno del sistema, anche con il supporto di strumenti regolatori e incentivi economico-fiscali, fino al tentare di favorire la domanda di prodotti e servizi innovativi.

I vari Green Deal che si sono alternati in questi anni rappresentano declinazioni diverse di questa convinzione, nel presupposto che l’intelligenza collettiva degli attori del mercato sia qualitativamente superiore alla capacità di indirizzo dirigista del decisore pubblico.

Tuttavia, scontano spesso il fatto che una risposta che si dia soltanto sul piano delle regole non è sufficiente, perché nuove piattaforme tecnologico-industriali si affermano, come si diceva sopra, anche grazie a fattori geografici e naturali (per non parlare del gap tra macro-regioni determinato dall’assenza di vincoli normativi, un “laissez faire” che viene utilizzato come arma competitiva di matrice geopolitica in modo unilaterale e asimmetrico). Dunque, quando si è svantaggiati rispetto ad altre nazioni e gli interessi in gioco sono fondamentali, il livello di coerenza e incisività richiesto alle politiche pubbliche è maggiore e più urgente.

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Nella transizione verde oggi si misurano due modelli, non necessariamente contrapposti, benché originariamente sostenuti da concezioni politiche molto diverse tra loro. (Designed by Freepik)

Transizione ecologica: serviranno molti anni e non sarà indolore

La transizione ecologica richiederà molti anni; rifare il mondo per come questo si è organizzato a partire dalla seconda rivoluzione industriale non sarà un passaggio breve, né indolore. L’obiettivo finale non può essere esposto ai cicli elettorali e ai sistemi di avvicendamento del potere politico. Le agende – come dimostra la Cina – devono essere programmate sul lungo periodo, in modo da avere obiettivi chiari e autenticamente condivisi, e rimanere ad essi coerenti per evitare sconvolgimenti nei presupposti sui quali si basano le scelte individuali di investimento e l’allocazione del capitale privato. Ma la barra va tenuta dritta, e la bussola orientata senza esitazioni verso il nord della storia.

Il rischio dei continui cambi di vento

Il modello che fa affidamento sull’iniziativa imprenditoriale ha un indubbio vantaggio, come dimostrato nei decenni attraverso le successive ondate che tecnologicamente hanno segnato per il mondo industriale un “prima” e un “dopo” (dai semiconduttori degli anni Settanta, alla rivoluzione biotecnologica, a internet, all’intelligenza artificiale). Basandosi su una pluralità dinamica di tentativi in competizione tra loro, e muovendo dell’assunzione individuale del rischio d’impresa, ha maggiore capacità di adattamento e di autocorrezione, perché non risponde ad un programma prestabilito, ma alla ricerca di un optimum di sistema. Certo, continui cambi di vento generano dissipazione di risorse, frammentazione di approcci e risultati più miseri, spesso oltre il tempo massimo.

Chi investe (come chi scrive) sposa senza riserve il modello occidentale, all’interno del quale è cresciuto. Chiede tuttavia all’architetto di sistema certezza e pragmatismo delle regole, stabilità nel tempo e grande libertà di manovra – non solo per sé, ma per il prosperare delle società nelle quali opera, e per vincere la competizione globale sulla quale ha accettato di misurarsi.