Il dollaro oltre la Fed: la nuova tentazione americana

scritto da il 16 Luglio 2025

Post di Giovanni Di Corato, Amministratore Delegato Amundi RE Italia SGR* –

Nel pieno di un nuovo ciclo speculativo che ha visto Bitcoin superare i 120.000 dollari, il dibattito sulle criptovalute sembra essere entrato in una fase diversa. Non più solo l’euforia dei piccoli investitori o le promesse di rivoluzioni tecnologiche, ma un confronto sempre più politico e istituzionale, incentrato sul potenziale sistemico di alcune innovazioni monetarie. Il Congresso americano si prepara a varare una normativa che legittima l’emissione di stablecoin da parte di soggetti bancari e privati, con un divieto esplicito alla Federal Reserve di emettere un proprio dollaro digitale.

Al centro del dibattito, il ruolo delle stablecoin non come strumento alternativo, ma come nuova infrastruttura di base per il sistema monetario statunitense e globale. L’aspetto più significativo è che questa architettura, apparentemente marginale, potrebbe riaprire in forme inedite la questione del rapporto tra Tesoro e banca centrale, chiudendo – almeno in parte – il ciclo avviato tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta con la separazione tra politica fiscale e politica monetaria.

L’aggressione cripto al cuore della moneta moderna

A ben vedere, tutto il mondo cripto – dalle valute algoritmiche come Bitcoin fino alle stablecoin come Tether o USDC – si fonda su una visione della moneta che, da un punto di vista teorico, è profondamente regressiva e anti-keynesiana. Il principio fondativo è quello della scarsità autoimposta: Bitcoin, ad esempio, nasce come moneta, sebbene molto volatile, deflattiva, con una quantità massima predeterminata, in piena coerenza con la tradizione hayekiana. Anche le stablecoin, pur più flessibili nelle modalità di creazione, si basano sull’idea che la fiducia derivi non dalla credibilità della banca centrale o dalla capacità fiscale dello Stato, ma dalla collateralizzazione integrale dell’unità monetaria: ogni token emesso è garantito da una riserva equivalente. In questa logica, viene di fatto aggredito il cuore della moneta moderna, che è invece creazione endogena, fiduciaria e pro-ciclica, capace di espandersi per sostenere la domanda e l’attività economica.

Separazione tra Tesoro e banca centrale?

Tuttavia, il diavolo sta nei dettagli. Perché se la collateralizzazione della stablecoin avviene semplicemente in valuta fiat, cioè con dollari parcheggiati su conti bancari, il carattere deflattivo e recessivo del sistema monetario alternativo resta intatto, se non aggravato dalla sua sterilità funzionale. Ma se, viceversa, la collateralizzazione avviene mediante titoli denominati in dollari – ad esempio T-bills – lo scenario cambia radicalmente. In quel caso, il meccanismo della stablecoin non è più un’imitazione passiva del dollaro, ma un canale attivo di creazione monetaria attraverso la valorizzazione del debito pubblico. Una piccola rivoluzione copernicana che potrebbe portare, di fatto, al superamento della separazione tra Tesoro e banca centrale, rendendo il primo nuovamente, se non protagonista, quantomeno coinvolto in modo autonomo nella creazione di base monetaria. A conti fatti, uno scenario che non dovrebbe dispiacere a chi evoca, oltre che la fine, l’insensatezza economica dell’austerità.

Non sorprende, allora, che questa possibilità abbia iniziato ad attrarre l’attenzione dell’amministrazione americana. Al netto del dibattito ideologico, l’uso di stablecoin collateralizzate su debito pubblico apre la strada a forme di finanziamento dell’economia potenzialmente espansive, non subordinate ai vincoli imposti dalla politica monetaria condotta dalla Fed. In prima battuta, il vero limite non è la tecnica, ma il grado di accettazione dello stablecoin da parte delle controparti del Tesoro. Se i soggetti privati – o pubblici – accettano di essere pagati in una moneta digitale collateralizzata su T-bills, la macchina può funzionare, ma qui si apre il vero snodo sistemico.

Se la creazione monetaria eccede la capacità reale dell’economia

Perché oltre alla fiducia dei singoli attori, esiste un vincolo macroeconomico strutturale: la capacità di un paese di sostenere la creazione monetaria senza generare inflazione distruttiva. Qui torna la macroeconomia di base: finché un paese ha capacità produttiva inutilizzata e mantiene l’equilibrio nei conti con l’estero, può creare moneta – anche attraverso canali non convenzionali – senza scatenare processi inflattivi, ma quando la creazione monetaria eccede la capacità reale dell’economia, scontrandosi contestualmente, con squilibri strutturali nella bilancia dei pagamenti, allora il meccanismo si rompe.

Da Weimar all’Argentina, passando per la Turchia, tutte le vere crisi iperinflattive sono nate non da un eccesso di spesa in sé, ma da una frattura strutturale nel rapporto tra moneta nazionale e capacità di procurarsi beni reali dall’estero. In questo contesto, anche la nota ossessione di Donald Trump per il deficit commerciale americano può essere riletta sotto una luce più articolata. Il riequilibrio dei conti esterni, lungi dall’essere solo un obiettivo protezionista, diventa una condizione necessaria per poter espandere la sovranità monetaria del Tesoro senza innescare dinamiche inflattive.

dollaro

Ma il dollaro gioca ancora un ruolo strategico

Si tratta, ovviamente, solo di una delle possibili motivazioni – accanto a molte altre, dichiarate o implicite – che guidano la postura economica e geopolitica della nuova destra americana, ma è una motivazione che, se ben compresa, aiuta a spiegare la posta in gioco reale della sfida sulle stablecoin.

Proprio la crescente rilevanza di queste ultime, nel contesto di una possibile riconfigurazione dei rapporti tra sovranità politica e monetaria, rende ancora più evidente il ruolo strategico che il dollaro, anche oltre la Fed, continua a giocare come asset globale. Non è un caso che oggi proprio le stablecoin – nel cuore stesso del mondo cripto – risultino di fatto interamente dollarizzate. Né un caso che i progetti di stablecoin in euro stentino a decollare, schiacciati da una governance monetaria europea fondata sul tabù del rischio.

Il riflesso di una struttura monetaria nuova

Questa dollarizzazione non è solo un dato geopolitico, legato al ruolo comunque ancora centrale del dollaro, bensì anche il riflesso di una struttura monetaria nuova, in cui soggetti privati tutti statunitensi (come Tether o Circle), ma potenzialmente anche corporate (domani Amazon?), potrebbero operare come creatori di base monetaria ancorata non alla banca centrale, ma direttamente al debito pubblico e, in un futuro non troppo lontano, eventualmente anche sulla base di un collaterale privato dotato di elevato merito di credito. In uno scenario del genere, la linea di confine tra sovranità monetaria pubblica e potere finanziario privato diventa sempre più sfumata, e la funzione stessa della banca centrale rischia di essere davvero ridisegnata e derubricata da quella di regista a quella del semplice attore nelle dinamiche del governo della moneta.

A ben vedere, il meccanismo sottostante alla stablecoin collateralizzata su “carta pubblica” è in tutto simile – nella sua architettura – a quello auspicato dai sostenitori della Modern Monetary Theory. La differenza è tutta nella titolarità del potere monetario: se il collaterale è gestito dallo Stato, abbiamo una versione esplicita della MMT; se è gestito da privati, siamo già nel futuro distopico in cui Amazon o BlackRock battono moneta, ma in entrambi i casi, la posta in gioco è la stessa: chi decide quanta moneta creare, per fare cosa, e per conto di chi.

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