L’Italia delle pensioni sembra l’isola di Pasqua

scritto da il 30 Aprile 2015

La distribuzione della ricchezza per classi di età fornita dal Servizio Studi della Banca d’Italia mostra come negli ultimi anni post crisi finanziaria la situazione dei giovani (fino a 34 anni e della fascia 35-44 anni) sia peggiorata sensibilmente. Quali sono le cause?

Gustavo Zagrebelsky nel suo volume Contro la dittatura del presente (Laterza-L’Espresso, 2014) racconta la storia di Pasqua, l’isola polinesiana a 3700 chilometri a est delle coste del Cile scoperta dagli europei nel 1722, celebre per i 397 megaliti, raffiguranti giganteschi tronchi umani: “L’enigma di Pasqua è un grandioso e minaccioso apologo su come le società possono distruggere da sé il proprio futuro per gigantismo e imprevidenza”.

Mentre per i polinesiani di Pasqua, l’imprevidenza fu deforestazione, cioè la dissipazione della principale risorsa naturale su cui si basava la vita nell’isola, nel caso italiano le classi dirigenti – le possiamo ancora chiamare tali? – hanno precluso ogni speranza alla generazione successiva, attraverso la creazione di un welfare quasi esclusivamente basato sulle pensioni.

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Come scrive Zagrebelsky, “Pasqua è un monito. Non parla soltanto di polinesiani d’un millennio fa. Parla di noi (…), per soddisfare appetiti di oggi, non si è fatto caso alle necessità di domani. Ogni generazione s’è comportata come se fosse l’ultima, trattando le risorse di cui disponeva come sue proprietà esclusive, di cui usare e abusare”. L’esempio ce l’abbiamo sotto i nostri occhi. Quando la demografia italiana ha iniziato a segnalare profondi mutamenti – natalità in forte calo, allungamento della vita media – i politici, supportati da una classe sindacale di bassissimo livello (aridatece Giuseppe Di Vittorio!), hanno impostato e mantenuto una politica pensionistica non sostenibile.

Il sistema retributivo avvantaggia le classi in pensione o prossime alla pensione. Sia lodata Elsa Fornero – e l’introduzione del sistema contributivo pro-rata per tutti – per aver fermato la deriva pensionistica. Detto ciò, rimane il fatto che ogni anno le pensioni calcolate con il sistema retributivo sono sussidiate dalla fiscalità generale per circa 30 miliardi di euro.

Come hanno sintetizzato Tito Boeri e Roberto Perotti, abbiamo bisogno di “Meno pensioni, più welfare” (il Mulino, 2002); la spesa sociale in Italia è oggi fortemente sbilanciata a favore delle pensioni (che pesano oltre il 16% del Pil) e a svantaggio di misure contro la povertà. Il paradosso, fa notare Giovanni Perazzoli in “Contro la miseria” (Laterza, 2014), è che le pensioni, oltre ad essere straordinariamente costose, sono anche inique, nel senso che se ne beneficia in alto nella scala sociale ma non in basso. Come può una repubblica fondata sul lavoro focalizzare gli ammortizzatori sociali sulle pensioni, che sono diventate anche un invito al lavoro nero?

Sono ancora valide le considerazioni di Nicola Rossi in “Meno ai padri, più ai figli” (il Mulino, 1997). Abbiamo assoluto bisogno di redifinire le politiche redistributive per assicurare a tutti una reale uguaglianza delle opportunità. Mentre all’estero – anche nei Paesi anglosassoni – esiste un sussidio universale di disoccupazione, in Italia non abbiamo le risorse per introdurlo poichè le risorse sono tutte impegnate nella previdenza.

L’Italia è il paese che dedica la maggior parte delle risorse destinate alla protezione sociale alle pensioni: 62,2% contro il 46,5% della media europea (fonte: Eurostat). E’ nelle ultime posizioni per risorse assegnate alle famiglie, ai disoccupati, agli esclusi.

Zagrebelsky ha ragione: “Gli abitanti di Pasqua vollero agire liberi da ogni debito nei confronti dei successori, per divorare la res publica”. Le classe dirigenti hanno creato un welfare zoppo che tutela solo i pensionati a retributivo. Gli altri si devono arrangiare con il welfare familiare. Ma chi non ha genitori o nonni con risorse a disposizione, non ha alcun supporto da uno Stato iniquo.

Twitter @beniapiccone