La cura contro la crisi dei giornali esiste: si chiama “Digital Transformation”

scritto da il 20 Maggio 2018

La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere ‘superato’.

— Albert Einstein

Premessa

Sono felice di cominciare questa mia collaborazione con Econopoly, parlandovi di come, a mio modesto parere, si può provare a tirar fuori la stampa da questa perenne crisi finanziaria (e non solo). Sono un dirigente e Business Unit Manager, di una società hi-tech, che fa parte di un importante gruppo italiano: il nostro scopo è quello di aiutare le medie e grandi imprese a fare leva sulla cosiddetta “Digital Transformation” al fine di snellire, semplificare, automatizzare i propri processi aziendali, solitamente per trarne un doppio beneficio: migliorare la vita dell’utente, cittadino, paziente, consumatore e contestualmente ottenere un importante ritorno economico. Con questo articolo cercherò di spiegare come l’editoria, tramite la Digital Transformation, possa scoprire nuovi modelli di business che gli permettano di ritrovare gli antichi splendori.

Stato attuale dell’editoria

Non vi voglio tediare con i numeri, le percentuali, i report e le discese vertiginose che l’editoria sta subendo, da almeno 20 anni, sulle sue classiche fonti di guadagno: vendita dei giornali e pubblicità. Basta una veloce ricerca su Google per essere inondati da impietose pie charts, tabelle di confronto tra gli anni d’oro dello scorso millennio e quelli bui attuali. Insomma, qualcosa del genere:

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(Fonte: “Focus sull’Editoria 2012-2017” realizzato da R&S Mediobanca)

Riguardo le cause, è inutile girarci attorno: la rete ha distrutto l’editoria attraverso la doppia minaccia che non solo chiedeva ai giornali di essere online, pena la scomparsa totale dal mercato, ma pretendeva anche che lo facessero gratuitamente. Poi le grandi aziende come Google e Facebook hanno fatto il resto, dando all’editoria il colpo di grazia: la prima ha monopolizzato la pubblicità online, la seconda ha dato a tutti la falsa percezione di poter essere non solo fruitori, ma anche autori delle notizie. Una vera e propria tempesta perfetta che ha lasciato un deserto pieno di detriti:

Le fake news, a volte amplificate anche dagli stessi giornali, si confondono con le vere notizie
Molti giornali pur di racimolare qualche click in più, propongono spesso degli indecenti clickbait
Per ridurre i costi, a causa dei minori ricavi, i giornali licenziano la propria forza lavoro, preferendo i freelance che pagano 20,83 euro a pezzo (quando va bene)
Per recuperare i mancati introiti, i giornali nella loro versione online, caricano le proprie pagine web e mobile con pubblicità talmente invasive da impedire la lettura dell’articolo stesso

Tutto questo ha generato una involuzione, una sorta di circolo vizioso: più il contenuto è scadente, più il giornale perde autorevolezza, e più è costretto a ridurre gli investimenti, fino ad implodere del tutto. Insomma la stampa, snaturando sé stessa e adottando lo stesso approccio poco serio di molte realtà presenti nei social networks e nella rete in generale, fatto di clickbait e fakenews, si confonde con loro, non aggiunge alcun valore, e danneggia -irrimediabilmente – la propria preziosa Brand Identity.

La soluzione è in fondo all’oceano blu

Nel 2005 i professori W. Chan Kim e Renée Mauborgne scrivono un libro (“La strategia Oceano Blu“, Rizzoli editore, 349 pagg.), diventato poi famosissimo, dove spiegano, con più di 150 testimonianze reali, che le aziende possono avere successo non battendo i rivali ma, piuttosto, creando “oceani blu“. L’oceano blu rappresenta uno spazio di mercato inesplorato, che si distingue dall’ “oceano rosso“, per il sangue degli squali della concorrenza che si feriscono a vicenda. Per trovare un modello di business vincente, ovvero un oceano blu, bisogna saper ragionare fuori dalla scatola, vedere le cose da prospettive diverse, saper trasformare il problema in opportunità, con modelli di business innovativi e ad alto valore aggiunto.

Pensate a Google, Facebook, Twitter, Instagram, Whatsapp quando – per primi – hanno capito, che avrebbero dovuto offrire gratuitamente agli utenti la capacità di cercare contenuti e comunicare tra di loro. Non hanno fatto pagare questi servizi, si sono sforzati di trovare altrove il business, monetizzando i dati privati che l’utente ha concesso loro (in maniera più o meno implicita).

Operazione che è ancora più difficile per chi il business lo ha già e deve solo rinnovarlo, visto che in questi casi l’oceano blu si nasconde dietro una dolorosa, quanto necessaria, cannibalizzazione dei propri prodotti. Volete qualche esempio? Nel 2000, la Blockbuster rifiutò l’opportunità di comprarsi la Netflix per soli 50 milioni di dollari, perché aveva paura di cannibalizzare i propri DVD (ora la Netflix vale più di 100 miliardi);  nel 1989 la Kodak aveva nel proprio centro di ricerca e sviluppo quella che sarebbe stata la prima reflex digitale, ma l’azienda si rifiutò di portarla alla luce per non voler cannibalizzare i propri negativi. Ma per non andare troppo lontano, in Italia, nel 1965 la Olivetti aveva in casa, grazie al genio e alla determinazione di sole quattro persone, il primo personal computer della storia, la Programma 101, ma nonostante questo la dirigenza di Ivrea decise di non scommettere sull’elettronica, per paura di cannibalizzare le proprie calcolatrici elettriche. Devo ricordarvi la fine che hanno fatto queste aziende poco coraggiose? Tutte queste lezioni possono riassumersi in una celebre frase di Steve Jobs:

“se non cannibalizzi la tua azienda, lo faranno gli altri”

Tornando all’editoria, quali potrebbero essere i suoi possibili oceani blu, vista la dichiarata morte della carta stampata e della pubblicità? Come possono cannibalizzare la carta stampata per trovare nuovi business ancora più redditizi?

I modelli di business per l’editoria

Cominciamo dall’esistente. Ad oggi i modelli di business dell’editoria sono principalmente tre:

1. Vendita di giornali cartacei e digitali
2. Sezione premium (a pagamento) all’interno della propria offerta digitale
3. La pubblicità su carta e online

Mentre per il primo, c’è poco altro da aggiungere, forse vale la pena spendere qualche parola sugli altri due.

Per promuovere la sezione premium, a pagamento, si adottano i cosiddetti paywall, ovvero si permette all’utente di visionare sul web un numero massimo di articoli per poi chiedergli di accedere ad un’area privata a pagamento per poterne continuare la lettura. I paywall sono un artificio facilmente aggirabile per un utente minimamente smart, pertanto è difficile pensare di costruirci un intero modello di business e poi comunque rimarrebbe molto difficile convertire il lettore da non pagante a pagante se non veramente interessato.

Per quanto riguarda il terzo punto, diversi giornali, soprattutto stranieri, hanno provato ad adottare il cosiddetto native advertising che è molto semplice: la pubblicità non viene più divisa dal contenuto in maniera netta, perché è nel contenuto stesso, ne è in qualche modo parte integrante. Questo da un lato aiuta il lettore a non distogliersi troppo da ciò che sta leggendo, ma dall’altro rende la pubblicità  più “subdola” poiché non vi sarebbe più la distinzione netta tra contenuto e pubblicità. Nonostante questo rischio, credo che sia un percorso assolutamente fattibile che i giornali dovrebbero sperimentare di più, anche perché l’utente medio è già abituato a questo tipo di approccio: basti pensare ai risultati sponsored, dei motori di ricerca, che assomigliano tanto agli altri risultati, se non per un colore leggermente diverso.

Il ruolo della Digital Transformation

La Digital Transformation, che qui proveremo a descrivere con degli esempi concreti, ci permette di vedere il business da diverse prospettive imprenditoriali, fino a questo momento inedite. In Europa, abbiamo un importante caso di successo, che è necessario conoscere per gli interessanti spunti che ci regala, quando si parla di nuovi modelli di business per l’editoria. Sto parlando della Axel Springer (proprietaria, tra gli altri, di Die Welt, Bild, Auto Bild, Computer Bild, Sport Bild, Business Insider), che  grazie al suo CEO, Mathias Döpfner, ha portato avanti una trasformazione digitale senza precedenti, surfando l’onda digitale, senza rimanerne succube. I dati economici del gruppo tedesco sembrano dargli ragione: il suo fatturato, da sempre in crescita, nel solo 2017 è di 3,5 miliardi e più del 70% è proveniente dal mondo digitale.

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Studiando attentamente il caso di successo della Axel Springer, ma anche quello molto simile della svedese Schibsted, senza tralasciare la miracolosa rinascita del Washington Post, dopo l’acquisizione da parte del CEO di Amazon, Jeff Bezos, sono emersi dei fatti importanti che vado qui ad elencare:

1. Il tempo necessario. La Digital Transformation è un processo complesso e articolato: l’Axel springer, ad esempio, l’ha ideata ed eseguita in un arco temporale di ben dodici anni.
2. Cura delle persone. La Digital Transformation parte dalle persone, dal cosiddetto “capitale umano” che la deve implementare, altrimenti ogni tecnologia, anche la più avanzata, è destinata a fallire miserabilmente. Nel nostro caso è importante integrare chi è nativo digitale, con chi è nato e cresciuto con la carta stampata, soprattutto per permettere a quest’ultimi  di uscire dalla comfort zone del “conosciuto”. Questo si può ottenere, ad esempio, unificando la redazione del canale digitale e della carta, sotto una unica direzione, magari proveniente da quest’ultima.
3. Nuovi modelli di business tramite acquisizioni. Il modo più intelligente per alzare i profitti, cominciare ad educare il proprio personale al digitale e provare ad esplorare nuovi modelli di business è quello di acquisire asset digitali dal mercato. Sempre la Axel Springer, ad esempio, ha acquisito IDEALO, che è la piattaforma online che confronta i prezzi dei vari prodotti presenti nel mercato consumer; in seguito ha acquisito la KaufDA che è un portale che permette agli utenti di cercare coupon e promozioni nelle proprie vicinanze; mentre la svedese Schibsted si è comprata subito.it, il noto portale di compravendita dell’usato.
4 Una cultura da start-up. C’è una caratteristica che accomuna Jeff Bezos (Washington Post) a Mathias Döpfner (Axel Springer): un approccio, una cultura, una visione del business da start-up che ha permesso a loro di sperimentare, prendere veloci decisioni, soprattutto quelle di tipo 2, magari fallendo, ma velocemente, per poi riprovarci. Per far questo, Mathias Döpfner ad esempio, ha importato dalla California una startup chiamata “Plug and Play Tech Center”, creando di fatto il primo incubatore, basato a Berlino.
5 Content is king. Per poter considerare la Digital Transformation veramente applicata, all’interno di una società editoriale, probabilmente il risultato più importante è quello di arrivare a considerare il contenuto, l’unico vero re indiscusso. Questo vuol dire soltanto una cosa: avere una unica redazione per tutti i canali (carta, sito, social media, mobile, etc), e magari posizionandola al centro nella newsroom, come hanno fatto Jeff Bezos e Mathias Döpfner, al fine di far contaminare il mondo dei developers con i giornalisti.

Volete sapere cosa è diventata, ad esempio, la Axel Springer dopo la sua Trasformazione Rivoluzione Digitale? La risposta è ben sintetizzata nelle due seguenti figure. La prima mostra tutte le acquisizioni e le aziende da loro stessi costruite, sempre 100% digitali.

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(Fonte: “Axel Springer”)

La seconda spiega come, dopo ben 12 anni dal suo inizio, la Digital Transformation applicata al gruppo, abbia permesso di ridefinire completamente i suoi modelli di business.

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(Fonte: “Axel Springer”)

Infatti oltre al classico Paid Model (contenuti a pagamento tramite membership), grazie all’acquisizione e allo sviluppo di centinaia di assets digitali, si sono create due enormi nuove fonti di guadagno: quelle basate sul Marketing model (ad esempio, il già citato, IDEALO) e quelle basate sui Classified AD model (ad esempio subito.it). Insomma, possiamo affermare, senza il timore di essere smentiti che:

Il business dell’editoria va cercato altrove. La vendita dei giornali e la relativa pubblicità, non bastano più: è necessario cannibalizzare il cartaceo per prendersi i soldi dal mercato digitale, fornendo quei servizi che l’utente prima cercava nei giornali (pensate, ad esempio, agli annunci di compravendita dell’usato, ricerca del lavoro, coupon, etc) ma che ora ottiene dalla rete, con molta più facilità e convenienza.

Interessante, in tal senso, anche come Jeff Bezos sia riuscito a trovare una delle fonti di guadagno più importanti per il Washington Post: prima ha fatto sviluppare in casa il software per la pubblicazione e la delivery dei contenuti del proprio giornale e poi lo ha rivenduto agli altri giornali.

Altre possibili idee di business 

Ed ora, visto che avete avuto la pazienza di seguirmi fin qui, permettetemi di proporre altre idee, che potrebbero aggiungere del valore all’offerta di un giornale (o ancora meglio di un gruppo editoriale) e che non vedo attualmente applicate da nessuna parte.

Una prima idea potrebbe essere quella di unire il mondo digitale alla carta stampata, tramite un link tecnologico. Penso, per esempio, ad un servizio semplicissimo che inquadrando con la telecamera dello smartphone, la pubblicità di un prodotto, stampata su un giornale, porti l’utente direttamente al sito e-commerce che lo vende.

Un’altra idea potrebbe essere quella di cambiare completamente l’approccio con lettori, vedendoli più nella loro veste di cittadini che, come tali, hanno ancora molti bisogni non soddisfatti e per i quali, molto probabilmente, sarebbero anche disposti a pagare una minima subscription. Ad esempio, attraverso un app mobile, ovviamente geolocalizzata, i cittadini potrebbero accedere a tutta una serie di importanti informazioni del proprio quartiere, a partire dalle notizie che potrebbero essere scritte da loro stessi (user generated content). Con questo ritorno al quartiere, oltre a far crescere – fisiologicamente – il senso civico della nostra comunità (effetto secondario di cui abbiamo un gran bisogno) si aprirebbe un mondo di opportunità: pensate al valore aggiunto che darebbe la localizzazione a tutti gli annunci di compravendita dell’usato (Classified Ad Model), o anche per cercare  lavoro, trovare l’idraulico o l’elettricista (che magari scopro essere un mio amico), etc etc. Banalmente, io la macchina la comprerei molto più volentieri da un mio vicino, non fosse altro perché saprei dove abita. Pensate anche alle opportunità di local marketing che si aprirebbero per i commercianti, che avrebbero così modo di proporre offerte e promozioni direttamente ai cittadini del proprio quartiere.

Il fatto che la pubblicità sia uguale per tutti e che non sia personalizzata per ognuno di noi era una esigenza del giornale cartaceo, non di quello online. Ora avremmo la possibilità di fornire un servizio utile al consumatore, fornendo solo inserzioni che possano interessarlo, esplorando anche il business delle piccole realtà locali, e contestualmente fornire all’azienda che pubblicizza il prodotto, un riscontro più consistente con la sua campagna di marketing.

Così, mentre una persona legge – attraverso l’app del suo giornale – le notizie di politica internazionale, potrebbe essere interrotto dalla pubblicità del negozio del suo quartiere, che gli propone uno sconto del 30% su tutti i suoi prodotti, qualora si presentasse fisicamente da lui entro due ore. O altrimenti potrebbe comprare i prodotti del negozio che ha sotto casa, in tutta comodità dal suo divano, sempre attraverso l’app del suo giornale, per poi andarli a ritirare con calma di persona, quando va a prendere suo figlio da scuola. È in questo modo che si compete, finalmente ad armi pari, contro l’e-commerce di Amazon, contro la pubblicità di Google, e contro Facebook, che sta già tentando di appropriarsi di questo settore, promuovendo e supportando, con la sua piattaforma, i vari gruppi locali.

Conclusioni

Per poter mettere in pratica tutto questo, bisogna pensare in grande come una multinazionale e agire velocemente come una start-up. Bisogna acquisire società dal mercato o costruirsele in casa, assumendo persone motivate e abbastanza giovani da essere nativi digitali.

Ma prima di tutto, è bene ribadirlo, la prima preoccupazione di un giornale deve continuare ad essere quella di fornire un prodotto di qualità, fatto di inchieste, notizie verificate e documentate, che serva a chi è governato e non a chi governa (cit); un giornalismo con la schiena dritta, che conquistandosi – giorno dopo giorno – la fiducia dei lettori, andrà ad alimentare la propria Brand Identity, che sarà poi monetizzabile tramite nuovi modelli di business, che la Digital Transformation saprà far emergere.

 

— Emiliano Pecis su Linkedin