Il Monte Paschi, i derivati e il metodo Baffi

scritto da il 07 Maggio 2015

Dopo un periodo di calma, il Monte dei Paschi è tornato in prima pagina. Anche il Financial Times ha ritenuto opportuno dedicare alla banca della Rocca Salimbeni la Lex Column del 14 aprile scorso rilevando come il passato condizioni ancora oggi il presente.

Il Monte è un caso di cattiva gestione le cui responsabilità ricadono sul management. Gli ormai ex vertici della banca senese nascosero agli azionisti le operazioni sui derivati accesi nel passato. Per questo sono stati indagati per truffa, aggiotaggio, ostacolo agli organi di vigilanza e turbativa.

Nel decreto firmato dai pubblici ministeri si legge: «Dalla documentazione acquisita, le testimonianze, gli atti trasmessi dalla Banca d’Italia, emerge l’ostacolo alla vigilanza della stessa Bankitalia perché risulta che organi apicali di Mps e altri soggetti che hanno strutturato finanziariamente l’operazione con Nomura, occultavano il mandate agreement così determinando per Bankitalia l’impossibilità di analizzarlo e valutarlo». Allora torniamo a rivisitare il passato, in particolare la nota storia di Alexandria, derivato frutto di un contratto con la banca giapponese.

Tutto nasce il 15 dicembre 2005 – quindi ben prima della nefasta acquisizione di Banca Antonveneta – da un acquisto da parte di Mps di notes denominate Alexandria, il cui rendimento e rimborso era legato alla performance di altri titoli sottostanti (le notes Skylark, a loro volta collegate a un portafoglio di mutui ipotecari e ad alcune Collateralized debt obligations). La complessa operazione strutturata vedeva come parte venditrice Dresdner Bank.

A causa del calo del valore degli asset a cui erano collegate le Alexandria, nel 2009 sarebbe stato opportuno far emergere le minusvalenze. Viceversa, i vertici della banca hanno voluto creare una complessa operazione volta ad occultare le perdite. Mps – tenendo all’oscuro revisori contabili, collegio sindacale e Vigilanza – il 31 luglio 2009 firma un contratto “quadro” con Nomura volto a ristrutturare l’operazione Alexandria.

L’operazione prevede un finanziamento di Nomura per l’acquisto di 3 miliardi di euro di BTp aventi scadenza 2034 – realizzata tramite asset swap, con contestuale sottoscrizione di due repurchase transactions, nei quali è stato “translato” il valore negativo di Alexandria (un centesimo o basis point all’anno per trent’anni su 3 miliardi di euro consente di nascondere la perdita).

La minusvalenza di 220 milioni alla data del 22 settembre 2009 veniva assorbita da Nomura e in cambio veniva posta a carico di Mps una nuova passività il cui fair value iniziale – non rilevato a bilancio – era negativo per ben 308 milioni di euro. La Banca centrale europea ha imposto di chiudere l’operazione entro il 26 luglio. Secondo le stime circolate, il mark-to-market negativo oggi è nell’intorno di 900 milioni di euro: con i tassi in calo, Mps riceve flussi a indicizzati all’Euribor (a tre mesi, negativo!) e paga flussi a tasso fisso, perdendoci costantemente tutti i mesi.

Il meccanismo è sempre lo stesso: un’operazione di “salvataggio”, che ripiana le perdite dell’investimento pregresso, e una “operazione in perdita” che finanzia la precedente ed espone la banca a un rilevante danno economico e patrimoniale oltre che al rischio di ulteriori, consistenti minusvalenze.

E’ questa operazione derivata sintetica che rende inadempiente Mps sul fronte dei requisiti regolamentari: una singola esposizione verso una controparte, secondo le regole dettate da Bankitalia, non può superare il 25% del capitale della banca. L’esposizione verso Nomura è di 3,4 miliardi di euro, circa il 35% del capitale.

Come si legge nella relazione dei nuovi amministratori nel 2013: «Ancora una volta venivano posti in capo alla Banca rilevanti aggravi e rischi sotto l’apparenza di un’ordinata operazione di carry trade. E’ evidente come queste operazioni siano irrazionali, ingiustificabili e prive di qualsiasi ragione economica, avendo esse anche fortemente limitato la gestione della Banca».

E le autorità di vigilanza? La Banca d’Italia ha monitorato costantemente le attività di Mps aumentando l’intensità degli interventi nel corso del tempo. Se si vuole cercare un limite nella procedura di controllo, questo non va cercato in Banca d’Italia. Dopo che i magistrati – a cui Banca d’Italia ha trasmesso per tempo il rapporto ispettivo – hanno avviato una procedura nei confronti degli amministratori di Mps per ostacolo alla vigilanza, Bankitalia è parte lesa.

Da valutare con attenzione è invece la scarsa supervisione esercitata sulla fondazione Mps da parte del Ministero del Tesoro. Un vero regolatore non avrebbe autorizzato la Fondazione Mps a indebitarsi pur di partecipare – e non diluirsi – all’aumento di capitale della banca conferitaria, in occasione dell’acquisto di Antonveneta.

Banca d’Italia è stata criticata per non aver vigilato in modo adeguato su Monte dei Paschi. Io penso invece che la Banca d’Italia, grazie alla seria Vigilanza abbia individuato e interrotto comportamenti anomali a elevata rischiosità. Dobbiamo rendere grazie al governatore della Vigilanza (1975-1979) Paolo Baffi se la Vigilanza non è ispirata al soft touch anglosassone, bensì incisiva e intransigente quando trova il marcio. Integrità e stabilità devono essere facce della stessa medaglia. Per Baffi, l’indipendenza e il rigore sono pre-condizioni da cui non si può deflettere, ecco perché respinse con forza l’assalto di una banda di finanzieri (Calvi e Sindona) e politici senza scrupoli.

Il governatore Ignazio Visco segue la linea tracciata da Baffi: «Il soft touch, la vigilanza leggera adottata in altri Paesi, non funziona: bisogna essere severi. E trasparenti. Spesso noi siamo stati considerati un po’ troppo invasivi, ma data anche la percezione dello scarso rispetto delle regole nel nostro Paese, meglio così. La Banca d’Italia non è “catturata” dagli intermediari su cui vigila, questo è sicuro. E il mondo anglosassone della finanza non ci venga a insegnare nulla, perché non è il caso». Visco si riferisce agli aiuti – ingenti – ricevuti dallo Stato proprio dalle banche anglosassoni, che altrimenti sarebbero fallite durante la crisi. Il sistema creditizio italiano è stato quello meno aiutato.

Quando emergono dei problemi gravi in una banca, non bisogna stracciarsi le vesti. E’ opportuno che la verità emerga senza sconti, soprattutto nel caso di comportamenti scorretti. Vale la pena riflettere sul fatto che lo stile di Vigilanza della Banca d’Italia ha mostrato nel tempo la sua validità. Il Meccanismo di Vigilanza Unica della Bce avrà molto da imparare dal metodo impiantato a Palazzo Koch da Paolo Baffi e dal suo vice Mario Sarcinelli, galantuomini di rara competenza.

Twitter @beniapiccone