Spinte gentili e analisi di impatto, ecco la soft army contro la Babele del diritto

scritto da il 08 Dicembre 2015

Pubblichiamo un post di Vitalba Azzollini, autrice di paper e articoli in materia giuridica che lavora presso la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, Divisione Corporate Governance. Le opinioni espresse non riflettono il punto di vista dell’istituzione –

L’EVOLUZIONE DEL DIRITTO PASSA DALL’ANALISI DI IMPATTO 

di Vitalba Azzollini

Fatti ed esperienze costituiscono il presupposto e la spinta per l’evoluzione del diritto, in quanto è costante il mutamento della realtà sulla quale esso interviene. Negli ultimi anni, questa evoluzione ha riguardato non solo il “contenuto” degli strumenti di regolazione, ma altresì il “contenente”, vale a dire gli strumenti stessi, adattati e resi più funzionali al contesto di riferimento. Ciò è stato determinato da una serie di fattori differenti.

Da un lato, l’intensificarsi delle relazioni internazionali e la conseguente integrazione dei sistemi economici, finanziari e sociali, hanno comportato la necessità di mezzi di regolamentazione idonei a superare i confini dei singoli Stati. Dall’altro lato, il crescente utilizzo di nuove tecnologie ha determinato un maggiore ricorso alla “virtualità” che, per definizione, è oltre ogni categoria spaziale e temporale e, pertanto, richiede regole capaci di conformarsi alla velocità e ai cambiamenti di una realtà in costante sviluppo. Infine, la necessità di contenere i costi necessari alla politica e alla amministrazione per la composizione degli interessi fra parti contrapposte ha portato a soluzioni di tipo diverso dalla legislazione tradizionale, basate per lo più sulla meno onerosa autoregolazione consensuale. Tali fattori hanno reso palese il rischio di inadeguatezza delle leggi dello Stato e, di conseguenza, indotto all’elaborazione di nuovi strumenti, più flessibili e idonei.

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Dalle dinamiche descritte origina la multiformità e poliedricità delle espressioni dell’attuale diritto: tra queste, riveste un’importanza rilevante la cosiddetta soft law, vale a dire quel “complesso di strumenti, tecniche regolative e fonti di produzione contenenti regole di condotta che, pur assumendo forma scritta in documenti ufficiali privi di forza legale vincolante, sono comunque in grado di ottenere degli effetti pratici concreti, quali la capacità di indirizzare e orientare i comportamenti dei destinatari dei loro precetti”. Come dire, istruzioni per l’uso.

La soft law non scaturisce da un processo formale di produzione legislativa a opera di organi investiti della relativa funzione: vi rientrano codici di autodisciplina; linee guida; standard operativi e best practice; codici di associazioni professionali e di categoria; raccolte di principi e regole spontaneamente sorte o elaborate da determinati organismi allo scopo di introdurre discipline uniformi in particolari ambiti; provvedimenti di Autorità indipendenti; raccomandazioni, comunicazioni e atti di organismi sovranazionali ecc..

Mentre il rispetto delle norme giuridiche “rigide” (la cosiddetta hard law) è assistito da apposite sanzioni, quello delle regole “soft” è assicurato da altri meccanismi, che ne incentivano il rispetto da parte degli interessati: la partecipazione dei destinatari alla predisposizione dell’atto stesso e, quindi, la loro condivisione delle finalità perseguite; l’autorevolezza dei soggetti da cui le regole promanano; la capacità persuasiva che queste ultime posseggono. In sintesi, “le metodologie di adozione degli atti soft e le finalità sottese sono tali da ingenerare un elevato tasso di adesione spontanea. Questa circostanza permette agli strumenti in esame di svolgere la propria funzione regolatoria pur in assenza di meccanismi di coazione”.

Pertanto, alla “forza” della hard regulation, consistente nel suo essere rigida, vincolante, penetrante, munita di sanzioni, si contrappone quella della soft law che – a dispetto della qualificazione nella lingua inglese – è capace, comunque, di ottenere i risultati prefissati, ma in maniera meno costrittiva e gravosa. Appaiono, quindi, evidenti i benefici a quest’ultima connessi: non pesa eccessivamente sui destinatari, al contempo, non necessita di una impegnativa produzione istituzionale e, di conseguenza, i costi che essa comporta sono limitati per tutte le categorie di soggetti interessati.

Ciò è oltremodo importante, considerato che, in un contesto di globalizzazione e, quindi di concorrenza tra Paesi per l’attrazione di investimenti, una regolazione eccessivamente onerosa finisce per diminuire la competitività dell’economia nazionale.

Il ricorso a strumenti alternativi a quelli tradizionali, quali la soft law, è oggi favorito dall’ordinamento nazionale che, mediante una serie di criteri di better regulation – in particolare, l’analisi di impatto della regolamentazione (AIR), metodo volto a fornire motivazioni trasparenti a supporto della scelta del legislatore – persegue lo “snellimento, semplificazione e non sovrapposizione” delle norme. L’esigenza di evitare “unnecessary regulatory burdens”, un ulteriore carico di regole inutili e pesanti, induce a modulare la pervasività delle diverse forme di intervento – dalle più restrittive alle meno invasive – in relazione alla rilevanza dell’obiettivo perseguito, stimandone in maniera ragionata i costi e i benefici, al fine di individuare quella comparativamente meno onerosa (inclusa la c.d. opzione zero, che non muta le prescrizioni vigenti).

Da ciò discende che vengano preferite le ipotesi di regolazione sostanzialmente meno gravose, a parità di efficacia, come la soft law sopra descritta. In aggiunta a essa, alcuni Paesi hanno elaborato ulteriori soluzioni diverse dalla legislazione tipica, avvalendosi dell’AIR in modo più efficiente di quanto usino fare i regolatori nazionali. Infatti, l’analisi di impatto, oltre a fondarsi sulle scienze economiche e statistiche (per la misurazione degli effetti), dell’analisi economica del diritto (per formulare opzioni alternative e realizzabili), sulle scienze giuridiche (per rilevare i vincoli e le esigenze derivanti dagli ordinamenti giuridici interessati) ecc., utilizza le behavioral science per ottenere indicazioni circa le reazioni cognitive dei destinatari ed evitare fallimenti regolatori, valutando gli effetti delle varie ipotesi di intervento (“Le scienze comportamentali consentono di progettare politiche migliori … ottenere risultati a un costo più basso … incrementare l’efficienza e l’efficacia del governo” – Obama, Executive Order 15/9/2015).

L’uso delle behavioral science ha portato alcuni decisori all’elaborazione di nuovi strumenti cognitive-based, i quali consentono non solo “una risposta (regolatoria e no) più adeguata tra le varie possibili”, ma altresì un risparmio nei costi mediante il ricorso a mezzi alternativi, meno onerosi – quali, ad esempio, la “spinta gentile” ovvero il nudge – e più protettivi della libertà privata rispetto alla usuale legislazione paternalistica, fondata sul command and control. 

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Qualcuno potrebbe ritenere che gli strumenti innovativi sopra esposti siano tali da produrre una sorta di “Babele” del diritto.

Questa critica omette forse di considerare che la “Babele” già esistente è opera di un legislatore che tende a disinteressarsi dei costi della regolazione e a concepire la legge solo come una soluzione, mai come un problema;  che la offre “come una panacea” e la sfrutta “per ottenere consenso elettorale”; che la usa non solo per disciplinare i profili generali delle singole materie, ma per insinuarsi in ogni piega di una realtà sempre più complessa; che così produce una normativa sovrabbondante, mutevole, farraginosa e poco coerente. “Le regole giuridiche procurano agli uomini qualcosa come un paradiso artificiale, con tutte le illusioni e gli inconvenienti dei paradisi artificiali” (Carnelutti), determinando una sorta di “intossicazione”.

In definitiva,

– se il legislatore non opera analisi di impatto adeguate, reputandole solo un inutile adempimento, e pertanto, omette di motivare il ricorso alla legge, evitabile in molti casi, e di stimarne fondatamente l’idoneità a conseguire i risultati auspicati (“Una cultura giuridica disattenta ai risultati delle norme e dei provvedimenti è il nemico naturale di uno strumentario come l’analisi di impatto della regolazione”);

– se non compie la valutazione dei carichi burocratici che la normazione comporta, omettendo di operarne la riduzione prevista obbligatoriamente e così dimostrando “scarsa consapevolezza del ruolo cruciale degli strumenti della qualità della regolazione per superare il ritardo competitivo dell’Italia”;

– se continua ad appesantire le imprese di oneri informativi, amministrativi, fiscali ecc. sempre più rilevanti,

la “Babele” non può di certo essere imputata a forme di regolazione innovativa, in quanto non riconducibili a precetti imperativi.

“Elevare la qualità della regolazione significa rendere i processi decisionali che la producono sistematicamente capaci di orientarsi verso la scelta di opzioni efficaci ma relativamente meno onerose”. L’evoluzione del diritto, sia per “contenuto” che per “contenente”, mostra di tendere a tale risultato: chissà se i governanti sapranno coglierne il senso.

Twitter @vitalbaa