Le ragioni poco liberali degli euroscettici

scritto da il 25 Giugno 2016

La maggioranza dei commentatori – non solo italiani – ritiene che l’Ue debba cambiare, a prescindere dai punti di partenza che possono essere favorevoli a un’eventuale remain o ad una exit. Le divergenze si notano invece sul come si debba cambiare, che è molto più complicato.

Non sono in pochi a sostenere che vi siano ragioni liberali per un’uscita dall’Ue e che queste motivazioni abbiano giocato un ruolo importante anche nella Brexit. Quali sarebbero? Principalmente viene da pensare all’eccessiva burocratizzazione delle istituzioni europee ed alla regolamentazione eccessiva. Argomentazioni sicuramente valide, ma sono pienamente condivise dagli euroscettici?

Le ragioni del Leave

Sono molte le ragioni utilizzate dai sostenitori della Brexit. Alcune convincenti, altre meno.

Ci sono profonde differenze all’interno dei 28 Membri (oramai 27). Il Regno Unito, da molti punti di vista, rappresenta un modello di governance. Prendiamo il tema molto sentito dell’eccessiva regolamentazione ad esempio. Nella classifica del doing business stilata dalla World Bank il Regno Unito è al sesto posto, dalle nostre parti diremmo un paradiso (Italia 45° posto).

Un altro argomento usato nella campagna per il Leave è la spesa per i contributi al budget dell’Ue, non del tutto convincente per il caso britannico. Il tema della spesa pubblica, grazie alla cura Thatcher, è molto sentito in Uk, ma stiamo parlando – al netto di quanto ritorna sotto forma di finanziamento – dell’1% della spesa governativa,

Ci sono però due macro-motivazioni, secondo gli analisti, che hanno fatto oscillare il pendolo verso le ragioni del Leave, scuotendo la sfera emotiva del popolo. Una è sicuramente legata all’immigrazione, vero demone e spauracchio, alimentato anche da un timore molto prematuro di un ingresso della Turchia nell’Ue. Limitare il tutto alle posizioni dei vari Farage (o dei suoi alter ego continentali) è riduttivo e distorsivo. Un’immigrazione mal gestita provoca problemi alla classe media ed ai meno abbienti. Proprio il Regno Unito però ha conosciuto più di altri Paesi alcuni vantaggi dell’immigrazione per la crescita culturale ed economica nel lungo periodo. Tra l’altro, anche il fallace argomento dell’immigrato che ruba il lavoro al nativo non trova riscontro nel caso Uk, dove il tasso di disoccupazione è molto più basso rispetto alla media Ue (sussiste invece un problema vero dell’immigrazione per il welfare e non per il lavoro che merita la giusta attenzione, non solo in Uk).

La seconda macro-motivazione è legata alla nostalgia per lo “splendido isolamento” inglese dalle vicende continentali, correlato a un periodo di grande espansione e prosperità dell’impero britannico durante il 1800. Uno splendido isolamento che mal si concilia con le cessioni di sovranità previste dai Trattati Ue. Una motivazione importante, ovviamente. Ma su questo aspetto è interessante notare le analisi voto/età anagrafica che tanto stanno facendo discutere. Perché i giovani hanno votato in maggioranza per il remain?

In primo luogo perché le nuove generazioni hanno avuto l’opportunità di toccare con mano la parte più bella dell’Europa unita: la piena mobilità infra-Ue. La possibilità di studiare all’estero – anche per i membri di famiglie più povere grazie alle borse di studio – ha inciso e incide sulla forma mentis delle nuove leve. Trovarsi a convivere con francesi o spagnoli, fare un internship in Germania o in Italia o una vacanza studio in Lituania, significa proiettarsi in una dimensione che supera le diffidenze pregiudizievoli dei confini nazionali, significa sentire l’appartenenza a un popolo europeo. Questo bagaglio di esperienze difficilmente può appartenere a un over 50 del Nord dell’Inghilterra ad esempio, che non può però essere biasimato per il suo voto, condizionato probabilmente dai suoi problemi quotidiani e dalla sua percezione su quale sia la causa degli stessi (l’Ue, nella fattispecie).

In secondo luogo gli elettori più giovani – così come quelli cittadini – hanno una cognizione più precisa del mondo attuale e dei fenomeni globali. Sanno bene che lo splendido isolamento è molto più complicato da attuare e sostenere nella nostra epoca, dove tutto è interconnesso. Ed hanno capito per tempo che il mercato unico europeo aumenta le possibilità di crescita professionale, in un periodo che regala sempre meno certezze locali. La paura di non trovare un lavoro o di non riuscire a fare quello che piace o per cui si è studiato diminuisce quando si è consci di poter giocare su un terreno più grande, che offra maggiori opportunità. Quante professioni hanno trovato nuovi sbocchi grazie al mercato unico e ad una maggiore integrazione normativa? Pensate solo ai consulenti economici, finanziari o legali che possono sfruttare le loro conoscenze su un mercato molto più vasto di quello nazionale. Per non parlare degli effetti positivi per le imprese che importano ed esportano, abbastanza noti.

Ma quindi i britannici hanno sbagliato tutto scegliendo il Leave? No, il voto popolare merita rispetto e l’ardua sentenza sulle conseguenze è consegnata ai posteri.

Le ragioni di un’ipotetica ItaLeave

Si può ragionevolmente supporre che l’Uk resterà una grande potenza economica. D’altronde i britannici sono riemersi dall’ultima crisi abbassando la spesa pubblica improduttiva e riducendo le tasse (invidia). Ma cosa succederebbe in caso di altre uscite? Qualcuno simpaticamente già scrive di ItaLeave. Un’uscita del Belpaese sarebbe auspicabile? E su quali motivazioni si basa chi auspica ciò? (Eviterò di menzionare le ovvie e conosciute conseguenze economiche e finanziarie di un’uscita unilaterale del nostro Paese dall’Euro e dall’Ue).

Il caso italiano è molto diverso da quello del Regno Unito, non solo per la differente moneta, ma simile ad altri Paesi del continente. Prendiamo ad esempio il nostro problema nella gestione dei flussi migratori, che non riguarda la mobilità infra-europea, ma gli accessi extra-Ue (dal mare). Si può rimproverare all’Unione un disinteresse o una politica di azione comune sbagliata, ma di certo il problema resterebbe tale anche in  caso di uscita e dovremmo risolverlo comunque da soli.

L’anomalia nel dibattito italiano (ma non solo) risiede nel fatto che sia chi vuole uscire, sia la maggioranza di chi vuole restare ma chiede all’Ue di cambiare, trovano reciprocamente argomenti comuni ma contraddittori. Ad esempio, il tema della regolamentazione eccessiva è utilizzato spesso proprio da chi invoca continuamente nuove leggi e regolamenti (pensate solo a tutte le richieste di nuove regole per la sharing economy) o sul versante burocratizzazione chiede ad ogni occasione nuove authority o commissioni speciali.

Il paradosso è evidente nell’osservare che da un lato ci si lamenta (giustamente) su regole europee particolarmente penetranti (tutti si divertono a fare esempi sulle dimensioni degli asciugacapelli o dei sanitari imposte da Bruxelles), dall’altro spesso si chiedono regole ancor più stringenti a difesa di un concetto molto esteso di Made in Italy. Il nostro Paese ha infatti ottenuto garanzie certificate a livello europeo per ben 924 prodotti di food&drinks (la Spagna si è “fermata” per ora a 361), e le regole che seguono queste forme di protezionismo riguardano dettagli minuscoli e particolarissimi (gli stessi per cui si accusa l’Ue). Questa idea malsana di protezione dei prodotti italiani ci ha condotti a pensare che la difesa del nostro brand passi dall’impossibilità di imitarci o dall’ostacolare il business altrui. Non c’è da stupirsi del perché mentre noi ragioniamo di centimetri e di tempi di cottura gli altri si espandono a dismisura con le nostre specialità e ci ritroviamo Pizza Hut e Starburcks in ogni angolo del globo.

Il caso inglese non è quindi paragonabile, perché oltremanica non hanno necessitato dell’Ue per avviare politiche di liberalizzazioni o di riduzione della presenza dello stato nell’economia. Noi sì, e tutto ciò ci risulta ancora indigesto. Così come ci costa non poco tenere conto della politica europea sugli aiuti di stato.

Restano poi i classici argomenti, quelli dell’Europa delle lobby e dei banchieri. Non entrando nel merito di quanto accade a livello europeo, un ripasso sul precario stato di salute delle banche e sulle cause che hanno portato a ciò dovrebbe far seriamente riflettere prima di parlare di quello che accade a Bruxelles o Francoforte (l’Unione Bancaria europea è stata da poco introdotta e non può ancora essere giudicata). Per quanto riguarda i vincoli di bilancio, il debito pubblico resterebbe (e forse aumenterebbe) anche in caso di uscita, mentre la possibilità di fare maggiore deficit non sembra proprio un argomento liberale.

Ci sono ragioni liberali per criticare l’attuale sistema dell’Unione Europea? Sì, e non sono poche. Ma si tratta di critiche poco condivise. Infatti, sia i principali euroscettici italiani (ma il fenomeno è analogo in molti altri Stati Membri) che dicono di voler restare ma chiedono un cambiamento, sia quelli che vorrebbero uscire (la maggioranza dell’elettorato italiano, pare), di liberale hanno davvero poco ed hanno invece in mente un social-statalismo dai connotati protezionistici: i primi lo vorrebbero di livello europeo, i secondi solo italiano.

Quella “leggerezza” auspicata da Leonardo Baggiani su questi pixel sembra ancora molto lontana, purtroppo. Ma possiamo sempre emigrare negli Usa. O no?

Twitter @frabruno88