La privacy è un diritto o un bene economico?

scritto da il 25 Maggio 2018

Dopo gli entusiasmi degli anni ’90, il crack dei primi anni 2000, la nascita dei social network nello scorso decennio e la loro diffusione capillare nella quotidianità di miliardi di persone, internet sta pian piano svelando un volto che forse non avremmo voluto conoscere. Un volto fatto di grandi giganti del web e di sfruttamento, di acquisizione a volte anche indebita di dati e di un loro utilizzo sicuramente non trasparente. Sembrava il paradiso, invece era il far west. E come nel far west, i cittadini hanno bisogno di protezione contro i soprusi che vengono loro perpetrati nella realtà virtuale. La protezione dei propri dati e la tutela della privacy non a caso sono diventati tra i temi più caldi dell’ultimo anno. In un simile contesto si pongono varie domande da un punto di vista economico: cosa è la privacy? Può essere considerata come un bene economico? Può esistere un mercato funzionante della privacy?

Proteggersi nella realtà virtuale non è di certo una esigenza nata negli ultimi anni: sin da quando i primi internauti hanno cominciato a navigare in rete hanno avvertito il bisogno di acquistare protezione, comprando antivirus e altri software utili a tale scopo. Un processo classico: in un nuovo contesto nasce una nuova esigenza nei consumatori e le aziende si attrezzano per soddisfarla. Nasce così un nuovo mercato, in cui si incontrano domanda e offerta. Questa prima fase di internet è stata caratterizzata dai benefici privati che la protezione apportava agli utenti, benefici privati che erano ripagati (solitamente) con il denaro speso per l’acquisto del software. La privacy, intesa come protezione del proprio dispositivo e dei propri dati durante la navigazione nella rete, era dunque un normale bene privato, rivale ed escludibile. L’utilizzo da parte di un utente di un antivirus acquistato (o, meglio, di un codice di licenza) impediva l’utilizzo dello stesso da parte di un altro utente.

schermata-2018-05-25-alle-10-45-10La seconda fase di internet, in cui siamo entrati recentemente, caratterizzata dai social network e dai big data, presenta una connotazione differente. Non a caso i normali antivirus non bastano più, il dibattito si è ampliato e da più parti viene invocato un forte intervento pubblico, cosa che di per sé non avrebbe senso in un funzionante mercato di beni privati. La causa principale di questa evoluzione è la differente minaccia alla privacy degli utenti, ulteriore rispetto a quelle della prima fase: non si tratta di più di un rischio esplicito, di una chiara violazione e di un chiaro furto dei propri dati. Si tratta invece di un rischio più celato ovvero di una raccolta massiccia e di un utilizzo sistematico e scientifico dei dati raccolti mentre gli utenti navigano. In un simile contesto la privacy può ancora essere considerata come un semplice bene privato?  Probabilmente no.

Esistono già dei contributi in letteratura che cercano di caratterizzare la privacy come un bene pubblico, che comporta, in quanto tale, un fallimento del mercato in condizioni di concorrenza perfetta. Tuttavia, ad una più attenta analisi, la privacy non può essere definita un bene pubblico secondo la tradizionale visione microeconomica di stampo samuelsoniano: pur essendo non rivale infatti (il consumo da parte di un utente non impedisce quello da parte di un altro) si tratta di un bene escludibile (i consumatori possono essere esclusi dalla fruizione di quel bene). In questo senso la privacy sembra più un bene tariffabile, o bene pubblico impuro, simile, ma non uguale, alla protezione offerta dagli antivirus tipica della prima fase dell’era di internet.

Il caso della privacy nella seconda fase di internet sembra più somigliare ad un’altra delle condizioni di fallimento di mercato, ovvero quella della presenza di esternalità. Si genera una esternalità se il profitto di un produttore o l’utilità di un consumatore sono direttamente influenzati dalla decisione di produzione o di consumo di un altro soggetto e tale effetto non è valutato o compensato (ossia non ha un prezzo di mercato). Nel nostro caso l’esternalità negativa che si genera è di tipo consumatore-consumatore: la decisione di un utente di proteggere o meno la propria privacy non influenza soltanto la sua condizione ma anche quella di altri utenti, dal momento che i dati raccolti su un determinato soggetto possono fornire informazioni anche su altri, a lui vicini. A prova di questa considerazione, vi è il fatto che il valore economico dei dati acquisiti dalle grandi piattaforme del web non aumenta in maniera proporzionale al crescere del numero degli utenti, ma in maniera esponenziale. Se il valore dei dati di un utente è pari a x, il valore dei dati di dieci utenti sarà superiore a 10x, a causa delle maggiori informazioni e della migliore qualità delle informazioni desumibili dall’incrocio e dall’interazione dei dati raccolti. Risultato: gli utenti potrebbero domandare un compenso per la parte di valore estratta dai propri dati, ma nessuno domanderebbe un compenso per quella parte di valore estratta dall’interazione dei propri dati con quelli degli altri. In termini economici il risultato della presenza di esternalità negativa è una produzione non ottimale del bene in questione, nel nostro caso la privacy, e una conseguente giustificazione dell’intervento pubblico per ripristinare l’efficienza.

schermata-2018-05-25-alle-10-43-24Un altro classico caso di fallimento del mercato considerato in letteratura è quello del monopolio. Il caso dei social network è particolare perché potremmo considerare le piattaforme come contemporaneamente fornitrici del bene “social network” e del bene “protezione dei propri dati”. Nella realtà di tutti i giorni l’utente non può scegliere la quantità desiderata di protezione a causa della posizione monopolistica che detengono le piattaforme dei social network. Si crea quindi una situazione in cui, nuovamente, la quantità prodotta del bene privacy è inferiore a quella ottimale e ciò permette alle piattaforme di estrarre un ulteriore surplus dallo scambio che effettuano con i consumatori in condizione di monopolio.

Un ulteriore elemento che caratterizza il mercato della privacy è una marcata asimmetria informativa tra utenti e piattaforme, ovvero tra consumatori e produttori. I primi infatti pensano di acquistare gratuitamente un servizio (ad esempio Facebook, o Gmail) ma stanno in realtà cedendo in cambio, senza accorgersene, i loro dati. Una sorta di baratto in cui proprio l’assenza della moneta (una delle cui funzioni principali è proprio quella di essere unità di conto del valore economico dei beni scambiati) provoca la mancata consapevolezza per i consumatori del valore delle proprie informazioni. In un simile contesto dunque è difficile che si generi uno scambio efficiente tra gli operatori di mercato.

L’ultimo problema che si configura rientra nel tema dell’azione collettiva: nonostante il consumatore si trovi in una situazione in cui subisce un danno economico, agire individualmente per cambiare la situazione avrebbe un costo maggiore dei benefici che egli potrebbe ottenere. In questi casi si crea una situazione di blocco e di inefficienza. Effettivamente spesso la differenza tra il valore dei propri dati concessi con leggerezza (il valore quindi del bene privacy) e quello del servizio di cui si usufruisce non è tale da spingere il consumatore ad agire. Se è vero, come diceva Adam Smith, che a spingere le azioni dei consumatori siano la concorrenza e l’abitudine, di certo la seconda ha un peso tale da rendere ancora più improbabile l’azione dei singoli in materia di privacy.

In conclusione, la privacy nell’era dei social network e dei big data non può più essere considerata come un semplice bene privato. In un simile contesto è necessario l’intervento del decisore pubblico, che ristabilisca le condizioni di efficienza del mercato. Interventi come il nuovo regolamento europeo GDPR che entra in vigore da oggi, 25 maggio, vanno proprio in questa direzione. Allo stesso tempo occorre ricordare che la regolamentazione non è l’unica delle strade percorribili in casi di fallimento del mercato: tassazione, frammentazione dei monopoli, aumento delle informazioni disponibili sono altre vie percorribili. Perché la privacy non è solo un diritto, ma a tutti gli effetti soggetta ad inefficienza del mercato.

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