Edilizia pubblica: a che punto siamo, cosa possiamo fare

scritto da il 24 Giugno 2019

La protesta scoppiata lo scorso maggio a Casal Bruciato (Roma), causata dall’assegnazione di un alloggio popolare a una famiglia bosniaca, è l’ultimo di una serie di episodi che segnalano la rilevanza del problema abitativo presente in Italia. C’è un disagio strutturale legato alla disponibilità di alloggi a un prezzo accessibile e all’edilizia popolare.

Le persone senza fissa dimora e gli individui in condizione di povertà assoluta, che di norma sono coloro in una situazione di emergenza abitativa, sono aumentati negli ultimi anni, a segnalare la necessità di un aumento importante dell’offerta residenziale pubblica. Anche il numero di famiglie in affitto in situazione di disagio economico è aumentato considerevolmente negli anni. Sono le grandi aree urbane del nord a essere prevalentemente colpite dall’emergenza abitativa, ma tensioni e difficoltà abitative sono presenti anche in comuni di dimensioni medie, mentre quelli di piccole dimensioni sembrano essere sostanzialmente risparmiati dal fenomeno.

Negli anni sono emerse nuove forme di supporto per le fasce più deboli della popolazione, come il social housing, cioè interventi immobiliari in cui l’emergenza abitativa, le pratiche di inclusione sociale e la creazione di spazi condivisi vengono affrontate in maniera integrata. In questo campo il privato gioca un ruolo importante, segnando un importante cambiamento, visto che fino a poco tempo fa era rimasto sostanzialmente escluso dall’offerta residenziale verso le categorie in una situazione svantaggiata. Nonostante ciò, l’Italia rimane molto indietro rispetto al Nord Europa in termini di standard qualitativi e di struttura dell’offerta di edilizia residenziale rivolta alle categorie economicamente svantaggiate.

L’Edilizia residenziale pubblica

In Italia le famiglie residenti in complessi di edilizia residenziale pubblica (Erp), immobili messi a disposizione dagli enti pubblici a prezzi ridotti per le persone meno abbienti non in grado di permettersi un alloggio a prezzo di mercato, sono circa 700mila: circa il 15% del totale dei nuclei familiari in affitto. L’emergenza abitativa riguarda però anche una vasta fascia di chi la casa in affitto la ha, ma è in difficoltà con i pagamenti. I dati di Banca d’Italia ed elaborati da Nomisma mostrano infatti come quasi la metà delle famiglie in affitto siano in una condizione di disagio reale, ossia pagano un canone di affitto annuo pari ad almeno il 30% del reddito familiare annuo, soprattutto a causa di redditi bassi.

Le persone senza fissa dimora e gli individui e famiglie in condizione di povertà assoluta, che di norma sono coloro in una situazione di emergenza abitativa, sono aumentati negli ultimi anni, a segnalare la necessità di un incremento importante dell’offerta residenziale pubblica. Anche il numero di famiglie in affitto in situazione di disagio economico è aumentato considerevolmente negli anni. Sono le grandi aree urbane del nord a essere prevalentemente colpite dall’emergenza abitativa, dove hanno luogo anche importanti flussi in uscita verso i comuni vicini, in cui gli affitti sono in media più a buon mercato. Tensioni e difficoltà abitative sono presenti anche in comuni di dimensioni medie, mentre quelli di piccole dimensioni sembrano essere sostanzialmente risparmiati dal fenomeno.

Guardando i dati riguardo alla domanda di edilizia residenziale pubblica soddisfatta si nota una evoluzione nel tempo delle tipologie di utenti che ne fanno uso: mentre fino a pochi decenni fa il fenomeno era limitato a nuclei familiari di piccola dimensione (1-2 componenti), spesso composti da pensionati, la domanda soddisfatta è oggi divenuta più eterogenea, sia nel numero di componenti del nucleo familiare che nella condizione professionale e nello stato civile di chi ne fa parte. Si tratta per lo più di famiglie in condizione di disagio economico, caratterizzate da basso reddito (di norma inferiore a 10mila euro annui) e un canone di affitto oneroso. La domanda soddisfatta è anche molto diversa da quella accolta ma in attesa di disponibilità di alloggi: tra i nuclei in graduatoria si trovano infatti molte più persone extracomunitarie rispetto a quelle che occupano già un alloggio (circa il 37% contro il 10% attualmente nel sistema Erp). Un’altra importante differenza è l’età, sensibilmente minore tra le persone in lista di attesa per un alloggio pubblico rispetto agli attuali inquilini.

Nonostante esistano programmi volti a contrastare il disagio abitativo, la dimensione del fenomeno descritta dai dati sembra essere decisamente più vasta della portata delle politiche messe in atto. Queste potrebbero diventare più efficaci se riformate e accompagnate da soluzioni parallele a complemento, come una maggiore integrazione con il sistema del social housing, il cui il privato gioca un ruolo importante.

Social housing all’italiana

Il social housing in Italia è introdotto nel 2008, con il cosiddetto “Piano Casa”, che riconosce per la prima volta un ruolo sostanziale del capitale privato nel contributo all’offerta residenziale rivolta alle categorie economicamente svantaggiate. Fino ad allora, infatti, il compito era stato svolto dal settore pubblico, divenuto però incapace di rispondere al crescente disagio abitativo. Il piano normò dunque la possibilità di costituire fondi immobiliari innovativi, composti da capitali pubblici e privati, e articolati in un sistema integrato nazionale e locale (Sistema integrato di fondi, o Sif).

Attualmente, il fondo nazionale del Sif è il Fondo investimenti per l’abitare (Fia) gestito da Cassa depositi e prestiti, che vi partecipa insieme al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e a privati (gruppi bancari, assicurativi e casse di previdenza privata). Alla dotazione iniziale di circa 2 miliardi si è sommato il co-investimento di circa 1 miliardo di euro da parte di fondi locali, promossi anche in questo caso da fondazioni, casse di previdenza privata, gruppi bancari e assicurativi.

L’utenza a cui il Sif si rivolge comprende nuclei familiari che da una parte non sono in grado di accedere ad alloggi nel libero mercato, e dall’altra non hanno neppure i requisiti necessari per beneficiare dell’edilizia residenziale pubblica, cioè un reddito annuale compreso tra i 15 e i 55 mila euro. La locazione è offerta a canone calmierato: i prezzi, concordati tra diverse associazioni di rappresentanza, sono generalmente più bassi di quelli di mercato e sono previste specifiche agevolazioni fiscali.

Figura 1 – Interventi del Fia (2018)

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Fonte: Cdp;

Lo stato delle case

Secondo i dati diffusi dalla Fondazione housing sociale alla fine del 2018, il Fia aveva sottoscritto il patrimonio disponibile in 30 fondi locali.

Dei 255 progetti deliberati, circa la metà è stata portata a termine, mentre la restante è in corso di realizzazione, avvio o sviluppo. Al termine, fissato al 2020, si stima che il bilancio degli alloggi sociali realizzati si attesterà intorno alle 18.500 unità. A queste vanno aggiunti circa 10mila posti letto in residenze temporanee e studentesche, oltre che servizi locali e negozi di vicinato.

La ripartizione degli investimenti del Fia è però tutt’altro che omogenea a livello territoriale: secondo gli ultimi dati disponibili, a nord Italia, centro e sud sono destinatari rispettivamente del 68%, 20% e 7% del totale delle risorse. Come spiega Cassa depositi e prestiti, la ragione è la diversa disponibilità di enti presenti sul territorio in grado di presentare progetti coerenti sotto il profilo realizzativo e al contempo remunerativi.

Infine, va segnalato che l’attenzione dell’alleanza pubblico-privata si sta spostando dal social housing allo smart housing. Si tratta di un modello di offerta abitativa caratterizzato dall’integrazione con servizi di nuova generazione, che rispondano alle emergenti esigenze individuali e collettive. In questo contesto è nato il Fia 2, che promuove l’investimento in strutture come postazioni di lavoro, centri sportivi, strutture a supporto di ricerca, innovazione e formazione. In questo senso, le soluzioni offerte dal social housing sono certamente più innovative rispetto a quelle proprie dell’Erp.

Figura 2 – Ripartizione degli alloggi sul territorio nazionale

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Fonte: Cdp

Per una politica più integrata

Le nuove iniziative promosse con il Piano Casa del 2008 (e i nuovi fondi stanziati nel 2014) segnalano quindi dei passi avanti nel contrasto all’emergenza abitativa, ma la separazione tra i due sistemi – social housing ed edilizia residenziale pubblica – rischia di creare o esacerbare alcuni problemi. In uno studio del 2017, Poggio e Boreiko segnalano come i due interventi sopracitati agiscano quasi esclusivamente come misure d’emergenza ex-post, mentre manca un piano unitario per soddisfare quella fetta crescente di italiani esclusi da entrambi i tipi di servizi. In particolare, gli autori discutono del bisogno di riformare sostanzialmente l’edilizia pubblica, che oggi è bloccata da condizioni fiscali avverse, con scarsi incentivi fiscali per gli attori pubblici (sottoposti ad aliquote addirittura più alte rispetto ai proprietari privati), ed è limitata nel suo raggio d’azione, senza riuscire a favorire l’inclusione sociale e il miglioramento del benessere dei beneficiari. Nel rapporto per Federcasa stilato da Nomisma nel 2014, emerge che solo la metà delle aziende casa (cioè gli enti responsabili per la gestione sociale dell’edilizia pubblica) svolge mediazioni sociali di base come la presenza in loco dell’azienda o l’esistenza di un servizio sportelli.

Dall’altro lato le iniziative di social housing, nonostante il loro impatto ancora limitato, mostrano una maggiore attenzione all’inclusione sociale e una gestione più sostenibile, ispirandosi ai modelli ormai consolidati di altri paesi europei. In questo senso, iniziative come Parma Social House o gli interventi di Fondazione Housing Sociale mostrano come all’offerta di alloggi sociali si possa (e si debba) affiancare progetti di integrazione, che favoriscano anche la riqualificazione dell’area urbana.

Uno sviluppo separato di questi due tipi di iniziative ha quindi il rischio di peggiorare le disuguaglianze: il social housing, più efficace e integrato con progetti di inclusione, agisce sulla fascia della popolazione con un reddito più elevato rispetto ai beneficiari dell’edilizia pubblica, concentrandosi inoltre sulle regioni del nord Italia, con pochissimo spazio (finora) per gli interventi nel Meridione. Come suggerito dalla ricerca di Poggio e Boreiko, un’integrazione tra i sistemi di social housing ed edilizia pubblica sarebbe auspicabile, migliorando l’efficacia della seconda e fornendo una risposta adeguata alla crescente emergenza abitativa a cui stiamo assistendo in tempi recenti.

Twitter @Tortugaecon