Il Made in Italy è frutto del genio individuale ma quanto può durare ancora?

scritto da il 14 Luglio 2019

L’autore di questo post è Roberto D’Incau, ceo & founder Lang & Partners Younique Human Solutions –

Il nostro Paese ha, tra le tante sue bellezze, anche la capacità di essere assolutamente contraddittorio.

Lo sappiamo benissimo tutti, abbiamo uno stile di vita che il mondo ci invidia, l’arte, la bellezza, la storia, il design, il cibo: appena, ovunque nel mondo, dici che sei italiano alla gente brillano gli occhi. Mi è capitato più volte, su un ascensore a New York, in viaggio in Asia, persino in spiaggia in Messico, di sentirmi chiedere “You are Italian, aren’t you?”, e alla mia richiesta di spiegazioni di sentirmi dire che avevo, senza aprire bocca, un touch assolutamente italiano, “italianissime”, come mi ha definito una volta una rivista francese. Siamo tutti “italianissime”, che ci piaccia o no, ce ne accorgiamo appena viaggiamo, e la nostra moda, il nostro design, le nostre lampade, il nostro cibo si vendono per due motivi: perché hanno un touch inconfondibilmente italiano, e perché dietro c’è il genio di un imprenditore del made in Italy, capace di fare innovazione individuale in modo eccelso.

La lampada Eclisse di Vico Magistretti

La lampada Eclisse di Vico Magistretti

Faccio degli esempi? Le splendide lampade di design di Magistretti e Caccia Dominioni, i mobili di B&B Italia, le scarpe di Ferragamo, i cashmere di Brunello Cucinelli, gli oggetti di plastica di Kartell, i gioielli di Pomellato, le giacche di Armani, gli abiti di Valentino, gli accessori di Pucci. Tutte cose che hanno fatto la storia del made in Italy, che tutti ci invidiano, che hanno riempito le case e gli armadi di mezzo mondo, e che alle spalle hanno avuto un imprenditore geniale, visionario, capace di innovare nella sua azienda, e di portare il gusto italiano nel mondo, iconicamente, come style setter.

Secondo Guilford, iniziatore degli studi sull’intelligenza creativa, la creatività è caratterizzata da 9 fattori principali: particolare sensibilità ai problemi, capacità di produrre idee, flessibilità di principi, originalità nell’ideare, capacità di sintesi, capacità di analisi, capacità di definire e strutturare in modo nuovo le proprie esperienze e conoscenze, ampiezza del settore ideativo, capacità di valutazione. Soprattutto, a mio avviso creatività non significa dare risposte nuove, ma fare emergere esigenze davvero nuove, e convincere il consumatore del bisogno di avere questo o quell’oggetto nuovo: ad esempio, a suo tempo, gioielli minimal, alla moda, come quelli di Pomellato, quando tutti ancora pensavano al valore intrinseco delle pietre e non al contenuto di design. Ci si poteva finalmente ingioiellare in modo chic senza sembrare un’ereditiera americana o la moglie del cumenda brianzolo.

Il successo paradossale del Made in Italy sta nel fatto che, in un contesto come il nostro, che non aiuta i creativi a crescere (non a caso le scuole di moda più quotate e creative stanno in città come Londra e Anversa), che si sciacqua la bocca con espressioni trite e ritrite come “portiamo le eccellenze italiane nel mondo” (frase banale, molto usata dal politichese), la creatività italiana fluisce malgrado il contesto, grazie al genio individuale.

La creatività è sempre nata, infatti, da eccellenze individuali, da un Armani che mette in piedi un impero a partire dal nulla, un Valentino che crea un gusto internazionalmente riconosciuto, un Gio Ponti o un Renzo Piano che realizzano le case più belle del mondo, senza un contesto che li aiuti davvero.

Il Belvedere al 31° piano del Grattacielo Pirelli, progettato da Gio Ponti

Il Belvedere al 31° piano del Grattacielo Pirelli, progettato da Gio Ponti

Il paradosso del Made in Italy è che questa estrema individualità creativa tutta italiana oggi contrasta però con un contesto internazionale così complicato e competitivo che se non hai alle spalle un sistema e mezzi finanziari importanti, non emergi. Non a caso purtroppo vedo durare i giovani fashion designer italiani l’espace d’un matin, pochissimi di loro sfondano davvero, perché sono ancora troppo individualisti e perché il sistema, che un tempo non era cosi importante ma oggi sì, non li supporta abbastanza. Insomma, oggi un Guccio Gucci o un Sotirio Bulgari senza avere alle spalle delle conglomerate come Kering e LVMH non andrebbero da nessuna parte. E di questo il Made in Italy deve purtroppo tenere assolutamente conto, pena la demolizione della sua importanza tempo qualche decennio. Il buongusto e la creatività intuitiva, che ancora qualche decennio fa bastavano e avanzavano, oggi sono condizione sempre necessaria, ma tutt’altro che sufficiente ahimè: serve un sistema Italia forte e solido, che valorizzi quello che di più importante abbiamo.