Produttività: tutto quel che deve sapere un ministro dello Sviluppo

scritto da il 21 Ottobre 2019

Malgrado la sua stagnazione pluridecennale, la produttività è un tema poco trattato in Italia, sebbene se ne sia discusso fugacemente di recente, quando, in occasione della nomina di Stefano Patuanelli a ministro dello Sviluppo economico, è stata ripescata una sua vecchia dichiarazione. In un passaggio di una puntata di Omnibus su La7 (17/01/19, minuto 28), il ministro sosteneva che un aumento della produttività fosse pericoloso per il mercato del lavoro italiano, poiché avrebbe potuto diminuire la domanda di lavoro delle imprese.

Non è questo che ci si aspetta da un ministro dello Sviluppo – anzi, la crescita della produttività dovrebbe essere proprio al centro della sua agenda. Vediamo il perché, incominciando dal dirimere i dubbi che legittimamente possono essere presenti nel dibattito economico, fin dalla definizione.

Che cos’è la produttività?

La produttività fa in generale riferimento all’efficienza con cui le imprese producono beni e offrono servizi, a partire da materie prime o beni intermedi, impiegando capitale e forza lavoro. Pensiamo a una impresa come una scatola nera in cui inserire materiali e mezzi di produzione, dalla quale poi otteniamo dei prodotti finiti: se ve ne è una da cui se ne ricava una quantità maggiore a parità di input, allora questa è più produttiva. A livello paese, la produttività aggregata è quindi la misura dell’efficienza della nostra economia. Di conseguenza, è indubbiamente un obiettivo da perseguire come essenza del progresso economico.

Per quanto all’apparenza un concetto semplice, il problema della sua definizione e misurazione risulta complesso. Una misura diffusa fa riferimento alla produttività di un mezzo di produzione (lavoro o capitale), data dal rapporto tra il valore aggiunto e il fattore impiegato. Questa definizione tuttavia risente di limiti oggettivi, in quanto è artificialmente legata all’utilizzo degli input nel processo produttivo: un uso maggiore di capitale, ad esempio, aumenta il valore aggiunto a parità di ore lavorate, aumentando la produttività del lavoro – qualcosa di leggermente diverso dall’idea di uso efficiente delle risorse menzionata in precedenza.

La produttività in senso stretto (Tfp, Total Factor Productivity) si misura infatti a parità di risorse: è la quantità di valore aggiunto ottenuto dati certi livelli di capitale e lavoro. È una componente residuale, specifica di ogni impresa e causata da una moltitudine di possibili fattori: dal capitale umano all’innovazione tecnologica, dalle pratiche manageriali alla disponibilità di credito. Un residuo chiave quindi, ma difficile da identificare, tanto che Robert Solow lo definì “la misura della nostra ignoranza” – un’ignoranza degli economisti che, tuttavia, merita di essere approfondita con attenzione.

Il ruolo della distruzione creativa

Una caratteristica intrinseca ai sistemi economici è l’enorme dispersione della produttività. Negli stessi mercati, infatti, convivono imprese che hanno livelli di efficienza molto differenti. Tali differenze costituiscono problemi di allocazione delle risorse: se, infatti, alle imprese più produttive venissero dirette più risorse, la produzione totale crescerebbe. Entra quindi in gioco la cosiddetta efficienza allocativa, da tenere in considerazione al pari dell’efficienza produttiva.

Collegato al tema dell’allocazione è il concetto di distruzione creativa, cioè il processo con cui la chiusura di imprese inefficienti lascia lo spazio a nuove imprese più innovative, aumentando la produttività aggregata. Questa capacità del mercato di evolversi e adattarsi è indispensabile per la crescita: le imprese infatti hanno un ciclo vitale, che può esaurirsi in mancanza di innovazioni di processo o di prodotto. Osteggiare il fallimento di imprese inefficienti può dunque rivelarsi una scelta miope. D’altra parte, però, specie per le grandi aziende che offrono numerosi posti di lavoro, è opportuno domandarsi se una crisi industriale derivi dallo scarso potenziale dell’impresa o da fattori distorsivi, come la concorrenza fiscale o il dumping salariale e ambientale. Infatti, il meccanismo di riallocazione dei lavoratori da un’azienda in chiusura a un’altra non è affatto immune da costi, economici e sociali. La disamina delle ragioni di una crisi è quindi un passaggio fondamentale per gli interventi di politica industriale, insieme alla capacità di offrire sostegno alle fasce sociali più esposte alle fasi di transizione del mercato.

Senza produttività non si cresce

Nonostante l’oggettiva complessità nel definirla e nel misurarla, la letteratura economica è saldamente concorde sugli effetti positivi della produttività. Sia nelle rilevazioni empiriche che nei modelli teorici, essa è infatti il principale motore della crescita. Proprio grazie alla sua teoria sul ruolo della conoscenza tecnologica come fattore chiave della produttività e quindi della crescita economica, Paul Romer (New York University) ha vinto il Nobel nel 2018.

Ancora più evidente, se prendiamo una prospettiva storica di lungo periodo, è come lo sviluppo tecnologico e organizzativo della produzione economica abbiano permesso di raggiungere livelli di benessere un tempo impensabili. Un esempio riguarda i computer: il primo Macintosh di Apple, il primo vero computer con interfaccia, fu messo in vendita nel 1984 per 2.945 dollari, un valore che aggiustato per l’inflazione corrisponde oggi a 6.160 dollari. Se ci possiamo permettere computer largamente più potenti ed efficienti a prezzi decisamente inferiori, è proprio perché lo sviluppo tecnologico ci ha permesso di ottenere beni di maggiore qualità con risorse sempre più contenute, un aumento di produttività.

Produttività e lavoro: conflitto o sinergia?

In virtù di quanto detto su produttività e crescita, le parole del ministro Patuanelli citate in precedenza rivelano un punto di vista paradossale: se una maggiore produttività spingesse le imprese a ridurre le risorse tagliando i posti di lavoro, le speranze di crescita sarebbero davvero vanificate. Ogni impresa punterebbe a mantenere una quantità di produzione costante minimizzando le risorse. Ma è vero il contrario: le imprese cercano di crescere e aumentare le proprie quote di mercato, ma perché ciò avvenga devono migliorare in produttività.

Al di là delle relazioni di breve periodo e dei tempi di aggiustamento, la crescita della produttività potrebbe effettivamente essere un ostacolo all’occupazione qualora fossero richieste nuove competenze che la forza lavoro non può offrire (il cosiddetto technological displacement). La politica sarebbe quindi chiamata a garantire i posti di lavoro in imprese inefficienti, per evitare che l’evoluzione delle competenze tagli fuori i lavoratori meno qualificati. Ma fino a che punto vale la pena di rinunciare alla crescita per garantire mansioni superate? Non è forse più opportuno investire nel capitale umano, cioè nelle competenze dei lavoratori, affinché divengano protagonisti della crescita anziché vittime? Forse è proprio la redistribuzione della conoscenza la strada maestra per intervenire simultaneamente su produttività e disuguaglianze, affinché le competenze tecniche non siano prerogativa di una nicchia in grado di estrapolare tutti i benefici dell’innovazione, ma diventino piuttosto il motore condiviso di una crescita inclusiva.

Inoltre, la crescita della produttività è condizione necessaria per la crescita dei salari. Un aumento di questi ultimi senza che aumenti la produttività, infatti, aumenta il costo relativo del lavoro riducendo l’occupazione nel lungo periodo. Ovviamente questo non garantisce che più produttività comporti maggiori salari, i quali dipendono anche del potere contrattuale dei lavoratori, su cui è possibile intervenire attraverso politiche dei minimi e sussidi di disoccupazione. Tuttavia, numerosi interventi a sostegno dei lavoratori richiedono una produttività in crescita per essere efficaci.

Infine, in un’economia largamente globalizzata, giova riflettere sul ruolo dell’integrazione internazionale. Se la produttività delle imprese è modesta, infatti, si pagano i costi del commercio internazionale senza sfruttarne i vantaggi: le esportazioni sono precluse, in quanto è necessario un discreto livello di efficienza per sopportare i costi dell’internazionalizzazione e guadagnare quote di mercato all’estero, mentre le importazioni divengono una concorrenza insopportabile per le imprese nazionali, costrette a chiudere e a licenziare. Imprese efficienti, invece, non solo reggono la concorrenza internazionale e creano occupazione per soddisfare la domanda estera, ma si integrano in catene del valore globale, ad esempio utilizzando beni intermedi importati a prezzi più convenienti. Risulta quindi di particolare importanza comprendere che è proprio la crescita della produttività la condizione necessaria perché la globalizzazione crei posti di lavoro invece di sottrarne.

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Ci auguriamo quindi che il ministro e tutto il governo insieme si adoperino per mettere la produttività al centro dell’agenda programmatica per rilanciare la crescita, anziché guardarla con sospetto.

Autori dell’articolo sono Giorgio Pietrabissa e Bernardo Mottironi, soci di Tortuga tramite cui pubblicano questo contributo. Giorgio, classe 1994, è milanese di origini toscane. Frequenta il dottorato in Economics presso il Cemfi di Madrid, dopo la laurea in Bocconi e un anno di ricerca presso la fondazione Debenedetti. Bernardo è nato nel 1994 a Roma. Frequenta il PhD in Economics alla Lse, dopo essersi laureato in Bocconi ed essere stato assistente di ricerca presso la Bce.