Retail apocalypse: i negozi si salveranno con phygital e dopamina

scritto da il 22 Ottobre 2019

Qualche mese fa scrissi di Retail Apocalypse all’italiana. Con la premessa che non voglio terrorizzare alcuno ho pensato di capire, con numerosi esperti sul campo, se c’è una speranza di sopravvivenza all’apocalisse del retail.

La risposta è . Ma non sarà una passeggiata di salute. È importante comprendere che più si aspetta a cambiare, sperando in un deus ex machina (che non arriverà mai, meglio dirlo chiaramente!), più vittime ci saranno: licenziamenti di massa, fondi che scaricano vecchi cubi di cemento, la filiera dei fornitori a pezzi etc.

Come la dopamina, che tutti conosciamo ovviamente, si combini con il Phygital è la chiave del successo per sopravvivere alla Retail Apocalypse.

Un riassunto della “puntata precedente”: il mondo del retail grasso, dove i consumatori sciamavano servaggi (con la “R di Ruspante”!) a comprare è finito. È finito in America, è finito in Regno Unito, è finito nel resto del mondo occidentale. La velocità con cui l’Apocalisse si diffonde è influenzata da vari fattori: maturità dei mercati (maturi o marci?), potere di spesa della classe media (che sta crollando ovunque), penetrazione dell’e-commerce etc..

Cominciamo con i miei ospiti.

Mario Resca, presidente di Confimprese. Per molti è conosciuto come il Mr McDonald’s. È lui che ha sdoganato il gruppo in Italia da un piccolo ristorante in corso Vercelli (il primo) sino al colosso del fast food che è oggi in Italia.

Mario Gasbarrino, lui è l’uomo retail. Una vita spesa nel mondo dei supermercati sino alla carica ultima di presidente di Unes.

Guido Carella, presidente di Manageritalia, la più grande associazione manageriale italiana che gestisce il contratto dei dirigenti della filiera retail. Questi signori sopra, messi insieme, fanno circa 150 anni di conoscenza ed esperienza sul campo nel mondo del retail (e l’intera filiera di fornitori ad  esso legata)

Pasquale Natuzzi Junior. Chief Creative and Marketing Officer di Natuzzi.

Monica Salvestrin, Direttore Marketing e Prodotto NAU! brand nel mondo dell’eyewear

Paolo Confortini Ceo di 7hype, che con il marketing automation, crea il phygital serio.

La rivoluzione in atto nel mondo del retail

Partiamo con Resca. “Il settore del commercio, in tutte le sue declinazioni, è investito oggi da cambiamenti che ci travolgeranno se non ci prepariamo a governarli. In Italia si parla ancora delle aperture domenicali, dei pagamenti elettronici e digitali, di quando fare i saldi mentre, appena fuori, casa sono in corso rivoluzioni. A dispetto della crisi, il comparto continua a crescere sullo scacchiere economico nazionale con un fatturato 2018 di quasi 1000 miliardi di euro stimato in crescita del 2,3% entro il 2020. Certo, negli ultimi anni è stato costretto a guardarsi all’interno, ripulire le proprie reti, selezionando con maggiore accuratezza i propri partner e fornendo ai partner stessi – diventati più esigenti – offerte più valide e meglio strutturate a un consumatore che sceglie, controlla, analizza, studia i prodotti e acquista non solo dove c’è un’offerta adeguata per le sue esigenze di portafoglio, ma anche dove c’è innovazione. È in questa direzione, nel cogliere cioè gli input che arrivano dal consumatore 4.0 e nel soddisfare le sue primarie necessità, che mercato e operatori si devono muovere e innovare. Ecco perché nel nostro settore assistiamo a un’evoluzione, che è anche innovazione, di nuovi canali e format di vendita”.

Sul tema conviene anche Gasbarrino. “Il massmarket come oggi non ci sarà più, inutile stare a piangerci addosso. Dobbiamo considerare che il cambiamento, soprattutto nelle città, è epocale. Consideriamo, solo per citare un esempio dirompente degli ultimi anni, lo smart-working. Si lavora da casa o da dove vogliamo. Questo porta un plus e un minus al mondo retail. Il minus è semplice. Lavoro da casa, magari son rilassato, chi me lo fa fare di andare al supermercato o in un negozio. Mi si rompe il tostapane vado su Amazon, lo compro, me lo consegnano a casa. Voglio mangiare sushi stasera? Non vado fuori, me lo faccio mandare a casa. La spesa me la portano qui. Ovviamente c’è anche il lato opposto. Se mi stufo di stare a casa potrei lavorare in una location dove ci sono altre persone, magari uno spazio polifunzionale dove sono presenti anche punti di ristori, oppure un supermercato locale. Sicuramente ci sarà una riduzione dei punti vendita. Tutta una serie di rotte percorse dai consumatori, anche parlando fisicamente, devono essere riviste e rimodulate. Nel mondo urbano, per esempio, vedo bene la crescita di una qualità dei servizi umani/commessi del settore retail (food e non-food)”.

Sul tema conviene anche Carella, che rincara la dose: ”La retail apocalypse, forse il termine un po’ esagerato dai media, ci pone tuttavia ad affrontare un cambiamento epocale senza precedenti. Anche il mondo del commercio non sta vivendo una transizione imposta solo dalla rivoluzione digitale, ma è nel mezzo di una vera metamorfosi che richiede nuove abilità nel decodificare i flussi e la capacità di gestire una serie numerosa di transizioni. Si pensi agli impatti sui modelli di consumo già in corso per il rovesciamento della piramide delle età: un terzo della popolazione over 65 di cui 8 milioni di over 80. Poi la consapevolezza sempre più diffusa sui temi etici, di sostenibilità, di responsabilità sociale e i modelli relazionali delle future generazioni. Solo innovazione, managerialità e investimenti permetteranno al nostro retail di non soccombere alle grandi piattaforme retail o diventarne semplicemente degli strumenti fisici per le loro attività digitali. Come Manageritalia stiamo supportando i dirigenti del mondo del retail in tanti modi. La formazione offerta da CFMT (la nostra business school contrattuale) punta da anni sulle sfide digitali. Il nostro contratto nazionale contiene numerose facilitazioni di costo per consentire alle piccole e medie imprese di dotarsi di presenza e cultura manageriale. Spingiamo, quindi, a livello culturale perché la managerialità si diffonda maggiormente in tante situazioni dove la distribuzione è in forte sinergia con aspetti legati al territorio e all’experience. L’experience è il faro verso il quale indirizzare e costruire innovazione e presenza on e off line”.

Ora, appurato che i grandi del retail convengono che siamo di fronte a una rivoluzione cerchiamo di mappare come il mondo retail potrebbe/dovrebbe cercare di cavalcarla. L’alternativa è, ovviamente, esserne vittima e fallire. Dato che il tema “innovazione digitale & retail fisico” (più comunemente chiamato Phygital, crasi di Physical + Digital) è piuttosto articolato, ho pensato di spezzettare il tema in vari scenari sinergici tra loro e le relative conseguenze sul punto di vendita fisico (e la sua eventuale trasformazione).

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Dopamina, la “droga” dello shopping

Partiamo dal “biologico”. Cosa c’entra il phygital con una sostanza naturale prodotta dal nostro corpo (un neuro-trasmettitore per la precisione)? La dopamina la creiamo noi quando siamo soddisfatti e felici. Un tipo di “felicità” che si può ottenere anche facendo acquisti (alcuni suggeriscono che una maggior produzione avvenga nelle donne, durante lo shopping). L’acquisto è un’esperienza che ci soddisfa, se abbiamo l’oggetto “subito”. Per quanto possa sembrare triviale questa sostanza autoprodotta è (sarebbe, meglio dire) alla base del (potenziale) successo della rinascita del retail fisico.

Il possesso immediato di un oggetto ci dà piacere, attiva la dopamina ed è alla base di questo bio-ciclo della felicità. Di qui, per esempio, la spasmodica necessità di Amazon di farti arrivare a casa quello che acquisti, quasi in tempo reale, cosi non hai un “Dopamina orgasmo interruptus”. Produrre dopamina è un percorso naturale, certo, ma una serie di accorgimenti potrebbe indurre una produzione più frequente. Nell’ambito dello shopping ci sono numerose analisi ma io riassumo molto semplicemente. Maggiore è l’esperienza positiva dello shopping (che implica, plausibilmente per il retailer, la vendita di un oggetto) maggiore sarà la produzione di dopamina del cliente che, contento, tornerà. Come si può ottenere questa “dipendenza” nel mondo del retail? Semplice: facendo di ogni esperienza di acquisto un’esperienza unica, o, se non unica, trattare il cliente come un re (o una regina). Il tutto passa da un percorso dove, la conoscenza del cliente è totale. Amazon ha tracciato la via ma Amazon, come tutti gli e-commerce puri, non possiede una cosa: l’immediatezza del possesso, che è l’apice della dopamina. Io compro, posseggo subito, quindi godo. Da questo concetto parte l’evoluzione (necessaria) di una fantastica esperienza da parte di ogni cliente. Una cosa che allo stato attuale gli e-commerce non possono offrire. Ma dagli e-commerce si possono estrarre le strategie positive per salvare il retail (certo, se i retailer e tutto il mondo ad esso collegato, vogliono spender soldi in formazione, tecnologie etc..).

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Digitalizzare il cliente partendo dal punto vendita (upstream)

Il percorso appena descritto richiede di “digitalizzare” il cliente, o meglio i suoi gusti, preferenze, desideri (espressi o inespressi). Per farlo ci si deve avvalere di un ulteriore aspetto del mondo digitale. “Conoscere il proprio cliente non è un suggerimento innovativo. È innovativo come si può conoscerlo” mi spiega Confortini, “viviamo in un momento unico nella storia. Pur in compliance con le leggi sul GDPR, possiamo oggi acquisire numerose informazioni su ogni nostro cliente. Lo scopo ultimo, per il cliente, è avere un servizio di supporto alla vendita sempre più efficiente e personalizzato; per il venditore avere una conversione di vendite maggiore. Tutto questo è possibile tramite una gestione dei dati sia in upstream (dal negozio fisico all’e-commerce di proprietà del brand) sia in downstream (dall’e-commerce al negozio fisico). Presidiare tutti i passaggi dell’esperienza di shopping del cliente è alla base del phygital. Perdere anche solo un anello della catena significa distruggere l’intera catena di dati, informazioni e qualità del servizio. Poniamo che il cliente entri in negozio e non trovi quello che cerca. Idealmente una commessa ben addestrata indicherà al cliente il sito internet, tuttavia per cominciare un percorso di tracciamento (del cliente, nds) potrebbe offrire un tag, un token, una qualunque soluzione per accedere al sito (pensiamo ai referrals di Instagram, nds). Una delle soluzioni più semplici è un biglietto da visita con un codice Qr (ormai tutti i cellulari hanno un lettore integrato, nds) che porta direttamente all’e-commerce di proprietà del brand, accreditando il visitatore nello slot della commessa. Per tentare il cliente, il visitatore avrà come vantaggio un piccolo sconto di benvenuto e comincerà ad essere tracciato tramite mobile. Di qui autenticandosi tramite profili terzi, come Facebook, Google etc. avremo modo di acquisire i dati del cliente dai social e generare una sua identità digitale. Nel tempo, mentre il cliente esplora il sito, potremmo generare offerte sempre più focalizzate per lui”.

Sul tema digitalizzazione, facciamo un balzo quantico con un approccio innovativo. Di realtà aumentata e virtuale si parla spesso ultimamente. La realtà aumentata è un’applicazione molto utile in “sistemi chiusi e controllabili”. Tuttavia il settore retail consumer, pur avendo caratteristiche di ambienti chiusi (il punto vendita), latita nell’adottarla. Cosa succede se portiamo i principi e le applicazioni della realtà aumentata in un negozio? Ipotizziamo di avere un cliente che vuol scegliere un grande oggetto (un mobile, un frigorifero etc..): attualmente il mondo retail dei grandi volumi è sotto stress. Grandi volumi implicano grandi spazi, e il costo di affitti, servizi e personale non aiuta. Con questi presupposti Natuzzi indica una via per i grandi volumi.

“Il Natuzzi Augmented Store è la nostra soluzione, un luogo dove mondo fisico e digitale si uniscono. Attualmente sono due i negozi, uno a New York e uno a Londra, dove abbiamo integrato con successo la realtà aumentata nell’esperienza di acquisto. Nel 2020 prevediamo di completare il roll-out ed implementare l’Augmented Store in tutte le maggiori location urbane. Parliamo di boutique, dove l’esperienza diventa multisensoriale: indossando i visori di realtà mista, il cliente s’immerge in uno spazio espositivo digitale con accesso all’intera gamma Natuzzi Italia, uno showroom virtuale in scala 1:1 in cui visualizzare i prodotti come se fossero reali. Questa soluzione ci permette di risparmiare sugli spazi, e relativi costi di location, a favore di un miglior processo di acquisizione di lead e dati. Grazie alla realtà aumentata la shopping experience si evolve in un momento di intrattenimento totalmente coinvolgente e personalizzato. Il passo successivo, che stiamo sperimentando con successo, è la creazione di uno spazio ibrido (fisico e virtuale) per permettere al cliente di visualizzare gli arredi scelti all’interno della propria casa, osservandoli da ogni punto di vista e testando tutta la gamma disponibile di versioni e materiali. Una vera e propria esperienza immersiva, dove è possibile camminare all’interno del progetto d’arredo, esplorarlo in scala reale, come se fosse già realizzato e rendersi conto dell’ingombro di divani e altri arredi voluminosi. La realtà aumentata ci ha permesso di rivoluzionare le abitudini del consumatore nel settore arredo, migliorando la relazione one-to-one e aggiungendo un tocco di gamification (che sicuramente funziona sulle generazioni Millennials e X, nds). Il vantaggio è duplice: da una parte vi è il miglioramento della conversione delle vendite negli store che utilizzando la realtà aumentata, dall’altra invece – più importante sul medio lungo termine – è l’acquisizione di dati utili per creare un algoritmo di previsione di gusti, idee e future progettazioni, in compliance con gli standard del GDPR europeo. Ciò significa che qualora l’acquisto non andasse a buon fine, possiamo comunque mappare la preferenza del potenziale cliente e, previa autorizzazione, rimanere in contatto con lui per suggerire nuove soluzioni d’arredo sulla base dei dati gestiti da un Crm interno”, conclude Natuzzi.

Dropship,  upselling e dopamina nel punto vendita (downstream)

Per parlare di dropship e upselling sono andato a scovare Salvestrin di NAU! Ammetto, a intervistarla ho rischiato la vita quando ho messo sul tavolo i miei occhiali (RayBan, disclaimer li uso ma non sono un loro influencer!, e li ho pure pagati a prezzo pieno!). Dopo lo sguardaccio brutto di Monica ai miei occhiali siamo andati sul serio. “Dropship e upselling sono due strategie strettamente collegate e sono grandi opportunità da saper cogliere. Abbiamo rilasciato una nuova piattaforma e non lo abbiamo detto a nessuno. I big data, l’anagrafica, database etc.. Abbiamo lavorato 7 mesi per sistemare un problema. Ma, oltre al mondo digitale scenari di upselling e dropship richiedono le persone. Anche nei negozi l’online ti aiuta a vendere. Non esiste una normativa commerciale per definire i rapporti commerciali di fee in questo caso con la forza vendita diretta o dei franchisee. Noi abbiamo deciso di riconoscere una fee/royalty ai nostri venditori o ai nostri franchisee. Sulla parte di upselling lavoriamo molto con la forza vendita: ogni vendita, (che sia digitale o fisica) viene conteggiata alla forza vendita del negozio, questo ci permette di mantenere un equilibrio con i nostri venditori che, nel mondo retail, sono la spina dorsale di ogni azione. Sul tema upselling abbiamo aumentato l’offerta a servizi aggiuntivi. Una cosa che proponiamo sempre è un controllo della vista gratuito. Quando un dropship non viene ritirato, l’occhiale non per forza deve tornare in magazzino. Eventualmente lo scontiamo e resta nel negozio. In questo modo ottimizziamo costi e logistica. Quello che conta per noi, e che stiamo implementando, è la possibilità per il venditore di conoscere il cliente quando entra, anche se è la prima volta, un passaggio vitale per integrare il mondo digitale e quello reale e dare un esperienza positiva al cliente, come farlo sentire a casa ogni volta”, conclude Salvestrin.

Sul tema dropship e upselling torna su anche Confortini. “Il tema dropship e upselling è un passaggio fondamentale per il mondo retail fisico. Come ho detto prima è importante che, sia in upstream (dal negozio all’e-commerce) che in downstream (dall’e-commerce al negozio), vi sia un percorso continuo e aggiornato sui dati del cliente. Se il sito e-commerce è gestito direttamente dal gruppo di retail, le opportunità di acquisizione dati sono immense. Di qui la possibilità di offrire un pacchetto di dati che la commessa/o può utilizzare nel momento del contatto con il cliente. Ricordiamo che l’esperienza della dopamina si scatena sicuramente nella fase finale dell’acquisto/possesso, tuttavia ha luogo anche nel percorso di esperienza del cliente. Avere un commesso/a che, pur non avendoci mai visti prima, ci accoglie come fossimo un vecchio cliente, conosce i nostri gusti etc., permette di creare un rapporto saldo e molto veloce con il cliente. Di qui il percorso di generare una, eventuale, vendita aggiuntiva (upselling, nds) grazie alla fiducia che si può creare con il cliente che è già in negozio a ritirare la merce comprata online (dropship, nds).”

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Omnicanalità e P&L ne abbiamo?

Sulla scorta di quanto spiegato prima dai contributori parliamo un attimo di P&L e ominicanalità. Sulla carta, tutti i retailer fisici sono omnicanali o multicanali. Tutto bello. La realtà è piuttosto differente. Descriviamo un “classico.” Ipotizziamo che il CFO (chiamiamolo Jean) dell’azienda che ha negozi fisici di abbigliamento (chiamiamola ABC Inc), debba fare il suo bel Profit & Loss (d’ora in poi P&L). Ai bei vecchi tempi il Jean era rilassato: aveva solo i negozi fisici diretti e al più i franchisee. Oggi? Beh, la ABC Inc ha di recente aperto un e-commerce on line. Fa figo (lo hanno tutti!), non va male, certo manca una lead generation (che costa) seria ma vabbè “tanto stiamo sperimentando”. Si ricordi che il Jean deve anche tenere i conti, e non vuole spendere moltissimo senza risultati concreti di guadagno dal sito. La ragione per cui Jean è braccino è semplice: se spende troppo senza risultati a trimestre il suo Ceo/padrone/signore supremo gli fa il mazzo. Come fa il Jean a mettere in linea il P&L digital e non digital? La maggioranza delle realtà di retail un P&L integrato non sanno nemmeno dove sta di casa. Brutto a dirsi (e infatti nessuno lo dirà) ma le cose, stan cosi. Per integrato intendo che digitale e fisico dialogano, che i magazzini sono condivisi, che in tempo reale io so quando un capo viene venduto on-line, oppure devo addebitarlo sul conto prodotti in uno dei negozi del centro città (che di fatto diventano cosi magazzini diffusi, con opzione di dropshipupselling). Il tutto, magari, con una piattaforma di P&L che integra tutto il flusso di dati continuo generato dagli interessi (espressi o percepiti) dei visitatori del sito e-commerce (lead, ma non ancora clienti) o dai visitatori del negozio fisico che non han comprato (il caso Natuzzi per dare un idea). Dal P&L atterriamo direttamente al real estate.

Piccolo negozio dentro, grande negozio fuori

Questo tema riguarda meno il cliente finale, e tuttavia, ne è “vittima”. Nel momento in cui la scelta si sposta verso digitalizzare un negozio, va da sé che alcuni spazi potranno essere rimodulati, ridefiniti e/o diminuiti. Parliamo di spazi vendita con ovviamente un vantaggio sull’impatto economico che i punti vendita generano (costo vs vendite) e il percorso di rivalutazione della forza vendita. I singoli passaggi per “montare” quest’ultimo scenario li abbiamo già elencati: upstream, downstream, dopamina e P&L. Vi sono due aspetti fondamentali sul tema spazi di vendita futuri. Quello umano e quello fisico. Umanamente parlando i retail del futuro (dai singoli negozi alle superfici aggregate come i centri commerciali) necessiteranno di meno personale. Dove un negozio di 1000 mq che vende grandi volumi (frigoriferi, tv, divani, etc..) richiedeva (poniamo) 15 commessi, su una superficie ridotta del 90% ne serviranno decisamente meno (ipotizziamo al massimo la metà). Tuttavia è sulla formazione che si dovrà investire. L’esperienza fisica in un negozio non sarà più “compro quindi sono” ma un più evoluto “posso permettermi di spendere il mio tempo prezioso a farmi coccolare dal commesso/a che mi stimola la dopamina, e, grazie al phygital sa già tutto di me, come se fossi un ricco che ogni giorno va a fare shopping da Bulgari (ok, un po’ lunga ma rende l’idea).”

“L’esperienza del cliente comune dovrà essere la stessa che oggi farebbe un ricco cliente che fa shopping in Monte Napoleone a Milano” spiega Confortini “una delle grande differenze tra un negozio del lusso e uno normale non è solo la formazione ma la conoscenza del cliente. Già oggi le commesse/i più abili, che hanno performance di vendita migliore, non si distinguono solo per l’abilità di vendere ma per l’intima conoscenza dei gusti del cliente. Oggi con le tecnologie di phygital, che implicano una conoscenza a monte del cliente (leggasi grazie al digitale, nds), i negozi possono accogliere ogni cliente fisico, anche se non lo si è mai incontrato prima, come se fosse un vecchio amico/a. Quel tipo di confidenza che a te, cliente, porta subito a fidarti del viso sorridente che ti viene incontro. Tutto questo percorso crea un aumento della dopamina, che dà piacere al cliente finale e lo invoglia a tornare e comprare”, conclude Confortini. Sul tema torna anche Gasbarrino. “Nella mia esperienza decennale ho compreso quanto l’attenzione per il cliente è vitale per vendere. Oggi il mondo digitale permette di avere strumenti per coinvolgere, comprendere e supportare il cliente in ogni passaggio. I piccoli spazi (supermercati di convenienza, nds) dove il cliente si sente coccolato, sono il futuro dello sviluppo del retail urbano. Similmente nello scenario di vendita dei negozi main-street o dei centri commerciali l’attenzione al cliente dovrà diventare sempre più omni-presente. Sicuramente la formazione della forza vendita è importante ma anche un approccio connotato da maggior presenza e valorizzazione dei dati è un passaggio obbligato per offrire, al cliente finale, un percorso di dopamina sempre più stimolante”, conclude Gasbarrino.

Ora resta un cosa sola da capire veramente. Il mondo del retail vuole spendere soldi, tempo, e risorse umane per salvarsi? Ai consumatori l’ardua sentenza.

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