Economia, un codice complesso che espone la lingua a errori e inganni

scritto da il 28 Ottobre 2019

Nel 1994, Tullio De Mauro, in un proprio contributo all’interno dell’opera di Bocciarelli e Ciocca, Scrittori italiani di economia, ha affermato che l’indice di leggibilità dei testi di economia è il più basso tra quelli delle lingue specialistiche e settoriali. Comunemente, d’istinto, si cerca un colpevole, qualcuno che abbia artatamente oscurato la storia e i suoi intrecci, cosicché si additano entità occulte d’ogni genere e specie e si finisce col concentrarsi sul dato, ignorando o dimenticando il processo di formazione. Si badi bene che per formazione s’intende non già il modo in cui la notizia è stata divulgata, ma come s’è generata realmente! La lingua è mobile, viva, plastica: ogni sua riduzione a un qualsivoglia meccanismo di causa ed effetto è un vero e proprio verbicidio, sebbene non si possa escludere che qualche autore, di tanto in tanto, si diletti coi garbugli e giochi col mistero per farsi bello. È vero: accusare qualcuno di qualcosa è un atto compensatorio, salva parecchie coscienze e, inoltre, fa parte di un rituale antico, quella della messa a morte, dell’eliminazione fisica del ‘diverso’.

Tra la designazione del presunto reo e l’utopia della trasparenza universale s’insinua spesso la voga della rieducazione, ormai sulla bocca di tutti, quasi fosse un mantra di liberazione. Tuttavia, non è sufficiente invocare l’alfabetizzazione finanziaria, che, se promossa sulla base dell’attuale lessicografia, non produrrebbe altro effetto, fuorché quello dell’estensione dei malintesi. Se prendiamo come primo esempio il sostantivo “costo”, comprendiamo immediatamente che, per il lettore comune, esso esiste unicamente in associazione con un’immagine e una ‘irrinunciabile’ azione: “ho acquistato un chilogrammo di pasta”, “è costato un euro”. Dunque, segno e predicato sono tangibili. Se invece trasferisco il significante “costo” nell’ambito economico-aziendale, il valore del segno diventa simbolico e, soprattutto, la sua tangibilità è rinviata perché “costo” è una voce di bilancio, fa parte dell’analisi di gestione e – cosa ancora più importante – della programmazione, del principio di competenza, non può, in definitiva, essere assimilato alla singola spesa di pagamento di un fornitore fatta in un giorno qualsiasi.

Pertanto, nella lingua dell’economia e della finanza, bisogna rilevare, anzitutto, la mancanza di una base pragmatica, almeno rispetto alla lingua della quotidianità. Tale deficit non consentirebbe all’educatore di alfabetizzare facilmente l’utente, tranne che si trovasse un nuovo codice di comunione. La lingua dell’economia e della finanza e il fruitore comune, infatti, in origine, hanno solo un legame d’assenza e, talora, un riscontro fonosimbolico. L’eventuale percorso di alfabetizzazione dovrebbe includere una sorta di ‘lingua di mezzo’ che, prima d’ogni cosa, proteggesse il cittadino dai pericoli che lo circondano.

A tal proposito, proponiamo la lettura di un prezioso frammento tratto da un articolo di Alfredo GigliobiancoCapo della divisione Storia economica del servizio studi della Banca d’Italia, pubblicato proprio dall’Accademia della Crusca.

Prendiamo l’esempio delle pensioni. Una volta, con il sistema a ripartizione, il trattamento di ciascuno dipendeva più che altro da equilibri politici, e, salvo eccezioni, non era poi fonte di spiacevoli sorprese; oggi, con il sempre più diffuso sistema ad accumulo, ognuno diviene responsabile del proprio piano pensionistico. Anche per questo l’analfabetismo economico è molto pericoloso: chi sbaglia paga.

La difesa dai pericoli è indubbiamente essenziale, specie se si considera la quantità di minacce disseminate nel web, come fossero mine anti-uomo. Con una banalissima attività di scrolling su un qualsivoglia social network, si rintracciano agevolmente messaggi come i seguenti:

“5 persone nuovi milionari”

“Capire quando entrare long o short”

“Come avere successo nel trading partendo da zero e con piccoli capitali”

“Come ottenere clienti in cinque mosse”

“Quando impari l’analisi tecnica, il trading è come un gioco”

In questi casi, come in tanti altri, si utilizzano l’iperbole, la metafora, la metonimia, l’analogia, la litote, l’eufemismo et similia, ovverosia figure dell’ordine e del significato che determinano il totale aggiramento dell’oggetto e della sua tangibilità. In pratica, tra l’esigenza di ‘toccare e vedere’ e quella specialistico-settoriale della conoscenza, s’impone una sorta di prolessi fantasmagorica, un’anticipazione emotiva d’eventi improbabili e con la quale, pure nell’irreale assenza di riscontri empirici, si mira ad ingannare l’utente. Qui, però, è appena il caso di porre fine alla cultura dominante in base alla quale il fruitore del messaggio è visto come una vittima sacrificale, giacché ciascuno di noi è libero di documentarsi adeguatamente. Il web, oggi, rappresenta uno dei più grandi equivoci della comunicazione. Si è pensato infatti che avrebbe ridotto le distanze, laddove le ha dilatate in modo patologico. Come s’è già detto, il lettore cerca la notizia, vuole il dato, ma trascura origine e formazione.

Un caso molto interessante – e che ci permette di eseguire una significativa traslazione semantica e pragmatica all’interno della lingua dell’economia – riguarda un tweet della Deputata del M5S Maria Laura Paxia.

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L’onorevole, mediante atti linguistici assertivo-rappresentativi e, per di più, adottando il plurale in rappresentanza della maggioranza parlamentare, dice “abbiamo scongiurato l’aumento dell’IVA, abbiamo salvato quota 100, abbiamo abolito il superticket sanitario” e così via. In realtà, non ci vuole un PhD all’Harvard University per sapere che la differenza tra la nota di aggiornamento del DEF e l’approvazione della Legge di Bilancio è notevole. Il tweet è stato fatto il 16 ottobre, cioè in un periodo in cui le misure devono ancora essere sottoposte al vaglio di Bruxelles, per così dire e per intenderci. Di conseguenza, parecchie cose potrebbero cambiare. Se lo ha fatto in buona fede, allora è talmente ignorante da farci disperare sulle sorti del paese; se lo ha fatto in cattiva fede, solo per strappare consensi, beh… in quest’ultimo caso, non c’è altro da dire, se non che si tratta di una menzogna bella e buona e il vittimismo sistemico non ha più basi d’appoggio.

È vero e inconfutabile: l’economia è astrusa, talora cabalistica, talaltra inesatta, ma la complessità non autorizza alcun interprete ad inventare un codice mediano per semplificare le cose. Spesso, la semplificazione, in economia, è un reato linguistico. Purtroppo, in materia di codice, esiste un problema la cui soluzione non è certamente a portata di mano: si tratta della polisemia complessa nella relazione tra la lingua economico-finanziaria e quella della quotidianità. Che intendiamo per polisemia complessa? Se usiamo la parola “cane”, sappiamo facilmente che essa può indicare un animale e, nello stesso tempo, un componente della pistola. Se invece usiamo il termine “bolla”, scopriamo che si tratta di una cavità sferoidale piena di gas, mentre, in economia, in genere, pensiamo subito a un aumento considerevole, eccessivo e ingiustificato del valore di un bene o un asset, aumento che potrebbe condurre gl’investitori al collasso.

A queste due aree semantiche se ne aggiunge una terza, proveniente dal sentire comune e che associa il termine “bolla” con un imprecisato reato, commettendo comunque un errore madornale, dato che le cosiddette bolle speculative, in sé, non presentano alcunché d’illecito. Se poi, all’origine, troviamo la frode, ciò non dipende dal concetto di bolla ed è naturale che qualsiasi evento economico possa essere falsato. Ciò che c’interessa, a questo punto, è il fatto che abbiamo a che fare con una tripartizione semantica e non sappiamo come ridurla a unità per offrire a chi non è addentro alla disciplina una valida mediazione di senso. E inoltre tutti e tre i significati sono scollegati tra di essi. Ci serve, dunque, un quarto significato, quello relazionale, d’insieme.

Economia, la nuvola delle parole

Economia, la nuvola delle parole

Quando si fosse risolta tale questione problematica, ci si dovrebbe poi occupare dei prestiti dall’inglese, che impongono due grossi grattacapi: quello interpretativo e quello fonetico.

L’aspetto interpretativo può essere esplicitato con un esempio piuttosto semplice. In linguistica, il termine swap può essere considerato un iperonimo, cioè come una parola il cui significato all’interno del discorso è ampio e imprecisato rispetto a un’altra che ne possiede uno specifico e determinato. Nella frase, “i pesci sono pericolosi”, non facciamo fatica a rilevare un uso erroneo del sostantivo plurale “pesci” (iperonimo), specie se lo valutiamo in relazione alla frase “gli squali son pericolosi”, il cui sostantivo plurale “squali”, in quanto iponimo, rivela caratteristiche biologiche e comportamentali precise e note.

Di conseguenza, ogni qual volta in cui il blogger di turno si erge a paladino della libertà economica dicendo, per esempio, che gli swap sono la causa del disagio finanziario globale, egli dice tutto e il contrario di tutto, giacché dovrebbe specificarne la tipologia. To swap, in inglese, vuol dire scambiare, pertanto, in modo sbrigativo, potremmo concludere che si tratta di contratti che determinano uno scambio. Considerando tuttavia che il contratto è l’istituto giuridico per eccellenza dei mercati, non si fa fatica a immaginare che un qualsivoglia contratto generi sempre una specie di scambio. Qualcuno aggiunge pure che gli swap sono caratterizzati dallo scambio di flussi di cassa. Anche in questo caso, il campo semantico è generico; la qual cosa non ci consente di comprenderne appieno la fenomenologia. Dunque: o diciamo credit default swap, commodity swap, interest rate swap et similia, specificandone, per l’appunto, la tipologia, oppure restiamo in debito di significati.

La questione fonetica è legata alla differenza tra isocronia accentuale, propria della lingua inglese, e isocronia sillabica, propria invece di quella italiana. In pratica, il ritmo del nostro discorso è molto più lento rispetto a quello inglese e si articola in scansioni sillabiche, mentre il ‘discorso inglese’, diversamente, può anche essere foneticamente strutturato addirittura in gruppi di parole e preposizioni; il che talora c’induce a pensare che il parlante angloamericano ‘si mangi’ le parole. Qual è la pertinenza dei tratti prosodici con la comprensione della lingua economico-finanziaria? È noto che la maggior parte dei termini proviene dalla lingua inglese ed è altrettanto noto che una conoscenza debole della lingua madre, che si manifesta anche in una pronuncia erronea, può allontanarci dalla piena comprensione dei fatti. Il modo in cui raccontiamo le cose modifica il contenuto della narrazione.

Per concludere questo contributo ‘sinottico’, è necessario fare una piccola incursione nel mondo dei media e, in particolare, nella tecnica con cui si compongono i titoli di pertinenza. Ne abbiamo scelti tre a caso e abbiamo escluso Il Sole 24 ore perché, essendo un quotidiano tecnico-settoriale, adotta dei criteri linguistici non comuni.

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I temi su cui è richiamata l’attenzione sono la “riduzione del debito”, il “rallentamento della Cina”, la “debolezza delle Borse”, la “Brexit”, le presunte richieste della “Germania” e i “contrasti politici” in seno all’UE, cioè suggestioni di categoria sociale – non economico-finanziaria, si badi bene! – basate ancora una volta sulla scia deduttiva dell’iperonimia; il che di certo non riduce le distanze tra fruitore e argomento. Qui, bisogna indubbiamente precisare che occorrerebbe fare un’analisi oculata dei testi corrispondenti per esprimere un giudizio compiuto e valido. Ci rendiamo conto, tra le altre cose, che un titolo richiede elevata capacità di sintesi simbolico-rappresentativa, tant’è che non intendiamo affatto bocciare la tecnica. Ci limitiamo tuttavia a descrivere empiricamente un certo fenomeno. Quando un “piano è credibile”? Che s’intende per “riduzione del debito”? Sappiamo bene che esistono diversi modi per ridurlo. È sufficiente registrare la perdita di un punto di PIL per parlare di rallentamento dell’economia cinese? Di fatto, no! Se usiamo il nome proprio “Merkel”, al posto di “Germania”, diamo luogo a una sineddoche, cioè all’inserimento di un termine di significato meno ampio – ma più ad effetto, in questo caso – in sostituzione del termine col significato proprio, cosicché il focus ne risulta fortemente ‘politicizzato’ e i litigi per il “bilancio comune” si fanno ancora più interessanti. Ma, da ultimo, di economia, in questi titoli, non si parla.

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