Credetemi, la MMT non è voodoo e non dice che basta stampare moneta

scritto da il 05 Dicembre 2019

L’autore di questo post è Domenico Viola, laurea magistrale in teoria e politica economica presso il Levy Economics Institute del Bard College – 

Il 26 ottobre scorso su Econopoly è stato pubblicato un articolo fortemente critico della Modern Money Theory (MMT d’ora in poi), dal titolo “Perché la MMT di Mosler più che una teoria è un albero della cuccagna”. In questa sede, in qualità di studente appassionato di e laureato in teoria e politica economica (presso il Levy Economics Institute), nonché anche di studente molto interessato alla MMT, desidero fornire una replica all’articolo appena menzionato.

IL POST SU ECONOPOLY
Perché la MMT di Mosler più che una teoria è un albero della cuccagna

Nello specifico, lo scopo della replica sarà principalmente quello di fare un po’ di chiarezza sulla MMT fornendo al contempo risposta ad alcune di quelle che ritengo essere delle inesattezze riguardo alla MMT.

Il mio approccio metodologico sarà quello che mi è stato insegnato sin dai primi anni di università, sia negli anni trascorsi in patria che all’estero negli USA presso il Levy Institute. In particolare, andrò a fornire i vari necessitati riferimenti bibliografici di autori della MMT, ma non solo, evitando così di correre il rischio di attribuire impropriamente frasi, concetti e idee a teorie e ad autori.

MMT: politiche monetarie o politiche fiscali?

Accade non di rado che si confondano concetti quali “quantità (od “offerta) di moneta” e spesa, nonché la politica monetaria con la politica fiscale. Già dall’incipit del testo in questione si può notare, per esempio, che si attribuiscono alla MMT approcci alla politica macroeconomica volti a privilegiare l’adozione di – cito – “Politiche monetarie particolarmente aggressive”, proposte quali spesa pubblica in “deficit senza limiti”, con l’idea, attribuita sempre alla MMT, che così facendo “l’economia guarirà da sola”.

Ebbene, o alla MMT si attribuisce l’idea di essere una teoria economica e quindi, una guida alla prassi legislativa e politica che predilige l’utilizzo della politica monetaria (“aggressiva”), al posto della politica fiscale (espansiva) oppure la si considera come una teoria economica che antepone la politica fiscale alla politica monetaria come strumento di policy ai fini della stabilizzazione del ciclo economico e ai fini, anche ma non solo, della crescita del Pil, dell’occupazione e della stabilità del livello generale dei prezzi del prodotto corrente (“stabilità dei prezzi”).

La MMT non preferisce, in tal senso, la politica monetaria (tassi d’interesse e rifinanziamenti della banca centrale al sistema bancario contro garanzie collaterali) alla politica fiscale (spesa pubblica e tasse), con particolare riferimento all’uso del QE (acquisti della banca centrale sul mercato secondario di titoli finanziari esistenti sui bilanci delle istituzioni finanziarie).

L’INTERVISTA AL SOLE 24 ORE 
L’euro-ricetta di Mosler: «Tassi a 0 per sempre, via lo spread e più deficit»

IL CONFRONTO CON MICHELE BOLDRIN

Ritengo sia fuori luogo associare alla MMT proposte quali “politiche monetarie particolarmente aggressive” o equivalenze del tipo “QE=stampa=MMT”. Chiunque abbia avuto modo anche solo di seguire il dibattito almeno degli ultimi 1 o 2 anni sa benissimo che la MMT è una teoria che di per sé predilige l’utilizzo della politica fiscale, anziché di quella monetaria, come strumento relativamente di gran lunga più efficace nello stabilizzare il ciclo economico [1] e più efficace ai fini del raggiungimento e del mantenimento nel tempo della piena e buona occupazione e della “stabilità dei prezzi”, i due principali obiettivi politico-economici (insieme alla stabilità finanziaria sistemica e al “capital development” di lungo termine dell’economia), che la MMT intende perseguire. La MMT riconosce anche che, in generale e specie in seguito ad una recessione (o anche ad un rallentamento della crescita economica), la politica fiscale è di gran lunga più efficace di quella monetaria nel perseguire obiettivi politico-economici prossimi e ultimi quali:

i) la crescita della domanda e offerta di credito bancario all’attività produttiva, quindi ii) la crescita degli investimenti (e, a catena, dei consumi) privati e dunque, iii) la crescita della componente privata domestica della domanda/spesa aggregata, dunque iv) la crescita della produzione e del reddito nazionali (Pil), v) l’abbattimento della disoccupazione, la riduzione delle disuguaglianze distributive e quindi, vi) l’eliminazione della povertà in un’economia monetaria di produzione, nonché vii) l’incremento del tasso d’inflazione (e/o la scongiura di spinte deflattive).

E questo semplicemente per via dell’impatto diretto e determinato che la politica fiscale ha, al contrario di quella monetaria, sul livello della domanda aggregata e sulle aspettative degli imprenditori e i “finanziatori” circa i profitti futuri derivanti da investimenti fatti nel tempo presente (e quindi anche sulle variabili appena elencate).

Leggere che la MMT predilige l’utilizzo della politica monetaria e del Quantitative Easing (uno strumento cd. “non-convenzionale” della “cassetta degli attrezzi” della politica monetaria), è indicativo di quanto ancora magra sia la conoscenza della teoria da parte di tanti che intendono pur legittimamente criticarla.

Ma poi, a pensarci bene, se al pari dell’attuale teoria economica dominante la MMT prediligesse l’uso della politica monetaria a quella fiscale e un approccio alla politica monetaria basato su operazioni espansive di mercato aperto (QE), allora non si capisce quale sarebbe la necessità di parlare della MMT e di presentarla come alternativa al mainstream e (per aspetti non legati alla scelta se preferire la politica fiscale a quella monetaria) come anche una novità radicale nella teoria economica.[2]

Con ciò ovviamente non si vuole dire che la MMT non attribuisca alcun ruolo o un ruolo del tutto marginale alla politica monetaria. Anzi. Ma anche lì, l’approccio della MMT alla politica monetaria è un approccio istituzionalista-post-keynesiano che attribuisce ad essa strumenti da prediligere, funzioni e obiettivi del tutto diversi da quelli assegnateli dalla visione neoclassica (mainstream) dell’economia (si veda, ad esempio, Wray 2003, 2005, 2007a, Fullwiler e Wray 2010, Fullwiler, Kelton e Wray 2012, Tymoigne 2006).

MMT: Basta “stampare moneta” e tutto si risolve?

Inoltre, la MMT, secondo il post citato, affermerebbe che “basta stampare [moneta] e tassare q.b. e saremo tutti più istruiti, produttivi, con leggi e istituzioni migliori e probabilmente anche più alti e belli.” Ora, se gli economisti della MMT dicessero e affermassero che “basta stampare- moneta-come-se-non-ci-fosse-un-domani-e-tutto-si-risolverà-per-il-meglio-sempre-e-comunque”, penso sarebbe molto difficile per loro essere presi in seria considerazione e la teoria non sarebbe apprezzata negli ambienti di molte banche centrali, né da economisti “eterodossi” (tra i più rilevanti penso al professore Jan Kregel del Levy Economics Institute), giuristi, antropologi, sociologi, rappresentanti politici del Partito Democratico americano (quali Bernie Sanders e l’astro nascente Alexandra Ocasio-Cortez), da gestori di istituzioni finanziarie private, giornalisti e commentatori economici, nonché da Mario Draghi (!), il quale di recente ha aperto alla MMT indicandola come uno di quegli approcci eterodossi alla teoria e politica economica che bisognerebbe prendere in considerazione! Così come sarebbe stato improbabile che il sottoscritto avesse sentito l’esigenza di scrivere questo articolo e di continuare a studiare la teoria stessa.

Quella della “stampa-di-moneta-senza-limiti-come-se-non-ci-fosse-un-domani-e-tutto-si-risolve-per-il-meglio” è una banalizzazione della teoria della moneta moderna che non le appartiene e che necessiterebbe solo di essere totalmente ignorata.

A tal proposito, inviterei chiunque a fornire le dovute citazioni e riferimenti bibliografici degli economisti della MMT in cui si sostiene che la soluzione a problemi socio-economici (quali la disoccupazione, la povertà, l’elevata disuguaglianza distributiva, la bassa o stagnante crescita economica, la deflazione eccetera), sia quella di stampare moneta (QE o fare deficit?) “senza limiti”, con l’idea che la “stampa di moneta a discrezione della politica e senza limiti” rappresenti così una panacea. Così come inviterei a riprendere testi o altre fonti in cui gli economisti MMT dicono che bisogna “uscire dall’euro” col fine prossimo di svalutare il cambio nominale verso i principali competitor commerciali [3].

Il teorico della MMT, Warren Mosler

Il teorico della MMT, Warren Mosler

Il che mi porta, quindi, a pensare che l’autore ritenga che la MMT propone, assieme alla stampa di moneta (QE o deficit spending?) “senza limiti”, anche la “ricetta” della svalutazione competitiva come una delle principali politiche macroeconomiche da perseguire. Nel caso, bisognerebbe, come detto, fornire dei precisi riscontri bibliografici. O ancora, invito a fornire i vari riferimenti letterari in cui gli economisti della MMT dicono che “le tasse sono funzionali solo a ‘raffreddare’ un’economia troppo vibrante, ad evitare inflazione a doppia cifra o peggio”. (mia enfasi), o che “se il Governo non fa deficit, nessuna crescita economica [è] possibile”.

Tutte quelle appena elencate sono inesattezze attribuite gratuitamente alla MMT che non trovano alcun riscontro nei testi scritti, nei convegni, nelle conferenze e/o in interviste redatti e tenuti rispettivamente dagli economisti della MMT.

Tra l’altro non solo nell’articolo si presenta la MMT come una teoria unicamente monetaria, ma si associa implicitamente ad essa una visione della moneta e dei processi di creazione e distruzione di moneta in un’economia capitalista che è tipica del pensiero economico mainstream e di quella “teoria quantitativa delle moneta” (nella sua versione pseudo-scientifica friedmaniana), che la MMT (e non solo la MMT) rigetta totalmente senza mezzi termini! Ossia, al fine di criticare la MMT, si attribuiscono alla stessa delle prospettive teoriche e dei concetti che appartengono alle teorie economiche mainstream, che sono totalmente opposte alla tradizione economica “istituzionalista-post keynesiana finanziaria” nella quale anche la MMT rientra.

Non a caso, l’autore del post afferma che la MMT sarebbe quella teoria che proporrebbe di affidare alla politica (governo e parlamento), anziché alla banca centrale, il compito di – cito – “decidere l’optimum monetario”.

Ora, il problema in tutto ciò risiede nell’idea che le autorità pubbliche centrali, che sia una banca centrale o un governo, siano in grado effettivamente di controllare la quantità od “offerta di moneta”. Innanzitutto, per quanto riguarda la banca centrale, in un mondo dominato da innovazioni istituzionali e finanziarie, è semplicemente impossibile che questa sia in grado di controllare l’andamento della “quantità di moneta”, nonché di definire concettualmente e giuridicamente in modo accurato ed universale cosa componga l’ “offerta di moneta”.

L’idea che la banca centrale sia in grado di determinare e controllare (direttamente o indirettamente) l’ “offerta di moneta” rappresenta uno di quei “mostri concettuali” della teoria economica mainstream che tutta una serie di evidenze empiriche e di autori legati a quella che si definisce come teoria della moneta endogena [4] hanno da tempo rigettato e smentito, così come ha sin dall’inizio fatto la MMT (per approfondimenti si veda,ad esempio, Minsky 1972, 1977, 1986, 1991; Kaldor 1985, Moore 1988, 1991, Fullwiler 2006, 2008, 2013; Mosler 1995 e 1997; Wray 1990, 1992, 1998, 2001, 2007b, 2015). Così come sono state da sempre rigettate l’idea che la quantità od offerta di moneta “in circolazione” sia perfettamente proporzionale al flusso di spesa totale o al livello totale della spesa/domanda in un’economia, in aggiunta all’idea, parimenti rigettata, secondo la quale “l’inflazione è sempre e comunque un fenomeno monetario” (legata cioè alla “stampa di moneta” o “quantità di moneta in circolazione”, qualsiasi cosa questo voglia dire).

Molto brevemente, in un sistema a cambi flessibili, una banca centrale è in grado solamente di controllare il tasso d’interesse interbancario giornaliero (e gli altri tassi d’interesse ufficiali) [5], mentre non può far altro – anche in virtù proprio dei suoi compiti istituzionali di preservare la stabilità finanziaria e la stabilità dei sistemi dei pagamenti – che accomodare la domanda di moneta (riserve o “liquidità”) da parte delle istituzioni finanziarie monetarie (“banche”) membri (del rispettivo sistema della banca centrale), lasciando che la “quantità di moneta” sia determinata dal “mercato”. Detto in “economichese”: il prezzo (“tasso d’interesse”) è esogeno (ovvero fissato e controllabile dalla politica monetaria), la quantità (di “moneta”) è endogena (determinata dalla domanda di credito da parte prima di tutto delle imprese e anche da parte delle famiglie).

Tanto per fare un esempio, uno dei massimi esponenti accademici della MMT e docente al Levy Economics Institute, Randall Wray, ha, sin dagli anni ’90, scritto libri e saggi accademici nei quali forniva sostegno teorico alla teoria della moneta endogena, così com’è stato da sempre fatto da tutti gli accademici MMT e da Mosler nei suoi principali scritti (e questo per sottolineare che la MMT non è quella teoria la quale non considera affatto e non dà importanza alla moneta/passività emessa/e da istituzioni bancarie e finanziarie private!). (Wray 1990, 1992, 1998, 2001; e anche Mosler 1995, 1997 e Tymoigne 2016).

Partendo poi da un’analisi storica, sociologica e antropologica della genesi della moneta e dei sistemi monetari, il professor Wray e gli altri economisti MMT hanno esteso la teoria della moneta endogena integrandola con gli altri due approcci “eterodossi” alla moneta, ossia con la teoria della moneta di Stato (o approccio cartalista della moneta) e con la teoria della moneta credito la quale si ricollega anch’essa all’approccio della moneta endogena (Wray 2004, Tymoigne 2016).

L’analisi derivante da quest’integrazione ha consentito parimenti di porre in evidenza il ruolo cruciale che le autorità pubbliche (gli “Stati”) hanno avuto nella storia dell’umanità circa la nascita e lo sviluppo dei sistemi monetari, nonché a porre in evidenza il ruolo centrale e superiore a qualsiasi istituzione finanziaria privata goduto dallo Stato all’interno dei sistemi monetari stessi.

Se, al contrario e come menzionato poc’anzi, per definizione e controllo dell’ “ottimo monetario” si intende che è il governo, tramite le leve di politica fiscale (spesa pubblica e tasse), a poter controllare l’ “offerta di moneta”, anche in tal caso la MMT riconosce che un governo è in grado, in fase di definizione della “legge finanziaria”, di decidere il quantum della spesa pubblica (e non dell’ “offerta di moneta”), così come il livello delle aliquote fiscali.

Tuttavia, la MMT riconosce che, alla fine dell’anno di esercizio, il saldo finale del conto economico del governo è in ultimo determinato prevalentemente per via endogena, specie per via della natura pro-ciclica delle tasse, ossia è determinato in ultimo dalla performance macroeconomica nazionale, sulla quale la politica fiscale, come detto, ha un impatto diretto e determinato e un impatto notevole negli attuali assetti istituzionali delle società ed economie capitaliste. Inoltre, è bene sapere che così come per la banca centrale e quindi, per la politica monetaria, anche nel caso di un governo e quindi della politica fiscale la MMT propone di adottare un approccio di definizione esogena dei prezzi, lasciando che la quantità di spesa pubblica (in deficit) fluttui endogenamente (seguendo, quindi, la dinamica della performance dell’economia nazionale).

Infatti, la MMT propone di fissare il prezzo minimo di un’ora di lavoro nella giurisdizione nazionale come salario orario che funga da standard minimo nazionale effettivo, mentre la quantità di spesa pubblica in disavanzo viene lasciata fluttuare in via anti-ciclica accomodando la dinamica della performance dell’ “economia reale”. In buona sostanza, nell’ambito della politica fiscale, la MMT propone di seguire un “price approach” contro un “quantitative approach”; quantitative approach alla politica fiscale che appartiene, invece, alla vecchia sintesi neoclassica (teoria economica mainstream durante tutto il secondo dopo-guerra fino all’avvento del monetarismo di Friedman, il quale ricordiamo che, parafrasando Minsky, non durò neppure il tempo di un’intera generazione per via delle sue fallacie logiche e della sua totale irrilevanza (e dannosità) per la realtà di economie monetarie di produzione caratterizzate da istituzioni e relazioni finanziarie complesse e sofisticate).

Quanto appena detto smentisce l’affermazione secondo la quale la MMT è quella teoria economica che, presumibilmente, attribuirebbe alla politica il compito di decidere un “quantum monetario” ottimale.

Nello specifico e in estrema sintesi, la MMT propone che il monopolista della moneta, ossia lo Stato, fissi – pagandolo – il prezzo minimo effettivo di un’ora lavorata a livello nazionale mediante l’adozione di programmi di lavoro universali. In estrema sintesi, i programmi di lavoro universali rappresentano degli stabilizzatori automatici del ciclo economico anti-inflazionistici tramite i quali garantire la piena e buona occupazione (quindi, si stabilizza il ciclo economico senza sacrificare l’occupazione e la stabilità dei prezzi), nonché come uno di quegli strumenti essenziali mediante il quale promuovere lo sviluppo economico socialmente inclusivo ed “eco-sostenibile” di un Paese (si vedano, ad esempio, Mosler 1997, Mitchel 1998, Wray 1998, Wray 2000, Forstater 1999, 2001, 2006, Mitchell e Mosler 2001).

Twitter @DomenicoViola15


PRO E CONTRO PER APPROFONDIRE:

Modern monetary theory takes on Wall Street and Washington

 

NOTE

[1] Al contrario dell’attuale teoria economica mainstream (di matrice neoclassica) denominata “nuovo consenso monetario” che predilige l’uso della politica monetaria a quella fiscale e al pari di altre teorie economiche “eterodosse” (istituzionaliste e post-keynesiane) e anche neoclassiche ex-mainstream (e.g. “vecchia sintesi neoclassica”), che preferiscono, in tal senso, la politica fiscale a quella monetaria.

[2] A prediligere tali vie di policy ci ha già pensato la teoria economica ad oggi dominante e, poi, nei fatti, le principali istituzioni monetarie centrali le quali, visto il fallimento della politica monetaria (espansiva) e di politiche monetarie cd. “non-convenzionali” quali il QE a generare gli effetti positivi sperati (in termini di crescita del credito bancario, degli investimenti e consumi privati, del Pil e del tasso d’inflazione), invocano ora a gran voce l’adozione di politiche fiscali espansive.

[3] E, quindi, aggiungerei io, col fine ultimo di continuare a puntare, per vie differenti, ad un modello di crescita economica trainato dalla domanda estera netta dei beni e servizi nazionali, ossia trainato dalle esportazioni nette; ovvero, il tipico modello economico neo-mercantilista di marca teutonica e su cui si basa l’euro-zona e che ha già palesato tutti i suoi limiti logici, politici, di stabilità geo-politica, i suoi limiti economici e sociali nel momento in cui più Paesi contemporaneamente decidono di puntarvi. Nell’articolo si legge ““cambiamo moneta e svalutiamo”, come frase attribuita alla MMT ricalcante l’idea che bisognerebbe cambiare moneta (“uscire dall’euro”) al fine prossimo di svalutare.

[4] In breve, la teoria della moneta endogena – appartenente al pensiero economico post-keynesiano e all’approccio circuitista – alla quale la MMT in buonissima parte s’ispira, spiega che le autorità monetarie centrali quali le banche centrali non sono in grado di controllare – per via esogena – il livello e l’andamento della “quantità di moneta” in un’ economia e che l’ “offerta di moneta” non influisce affatto in modo diretto e certo (come fa intendere la teoria mainstream), sul livello generale dei prezzi dei beni e servizi di consumo (sul tasso d’inflazione). La “quantità di moneta” è invece una variabile residuale la quale è determinata – per via endogena- come risultante dei processi di business, ovvero è determinata dalla domanda di credito bancario da parte degli imprenditori i quali desiderano finanziare la produzione di beni d’investimento (e/o l’acquisto di questi ultimi), date le loro aspettative positive sui profitti futuri ottenibili da un investimento fatto oggi, domanda di credito che viene poi accomodata dal sistema bancario (laddove, in genere, sussistano determinate condizioni “positive e favorevoli” di merito creditizio del debitore). Di conseguenza, anche il nesso causale del cd. “moltiplicatore dei depositi” viene ribaltato rispetto a come concepito dalla teoria mainstream, ovvero si va dai prestiti ai depositi bancari e dai depositi alle riserve della banca centrale e non da queste ultime ai prestiti e poi ai depositi. Non è l’ammontare o la quantità di riserve che influenza la dinamica del credito bancario, ma è piuttosto il loro prezzo (il tasso d’interesse interbancario), ad essere una delle principali variabili che ne determina l’andamento.

[5] Il tasso d’interesse interbancario giornaliero è il tasso d’interesse a breve termine di riferimento per il sistema finanziario e per l’economia fissato (e in ultimo controllabile) dalla banca centrale (in un sistema a cambi flessibili). E’ il tasso d’interesse al quale le banche si prestano le riserve tra di loro, nonché il tasso d’interesse di riferimento per le banche ed istituzioni finanziarie ai fini della rispettiva definizione dei vari tassi d’interesse applicati sui contratti di finanziamento e ri-finanziamento ad imprese e famiglie. Gli altri due tassi d’interesse ufficiali fissati da una banca centrale e anche molto importanti sono il tasso di sconto applicato, ad esempio, nel momento in cui il settore bancario membro si rifinanzia (solitamente in ultima istanza in seguito allo scoppio di una crisi finanziaria) presso la finestra di sconto della propria banca centrale; l’altro è il tasso d’interesse pagato sui conti riserve delle banche (che a volte è previsto, altre volte no). Mentre le riserve o i conti riserve non sono altro che dei conti correnti che le “banche” hanno presso la propria banca, ossia presso la propria banca centrale. Le banche possono utilizzare e devono utilizzare le riserve (questi loro “conti correnti”) a tali scopi operativi ed istituzionali: saldare le proprie posizioni debitorie nettenei confronti di altre “banche”, saldare i conti col governo nel momento in cui le famiglie e imprese pagano le tasse, acquistare titoli obbligazionari (ad esempio titoli di Stato), acquistare riserve valutarie straniere e/o banconote dalla propria banca centrale e, laddove previsti, soddisfare i requisiti di riserve obbligatorie minime.

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