COVID-19, il Nord come ai tempi della peste del 1630

scritto da il 12 Marzo 2020

Le analogie sono sorprendenti; forse, per certi aspetti, anche sinistre e inesplicabili. Tuttavia, la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna, che oggi sono le regioni più colpite dal COVID-19, sono i simboli d’una schiacciante memoria storico-epidemica: negli anni Trenta del XVII secolo, furono devastate dalla peste e le città di Milano, Bergamo, Como, Venezia, Padova, Verona, Bologna, Parma, Modena e Firenze ne furono spopolate. Certo, quello era un contesto igienico-sanitario di estrema precarietà, cui si sovrapponevano in modo preoccupante povertà e ignoranza, ma i fatti sembrano ripetersi, con parecchi elementi di affinità.

La maggior parte di noi ne ha fatto la conoscenza sui banchi di scuola, grazie all’illuminante narrazione che Manzoni ne fa nei Promessi sposi, sebbene lo stesso autore si avvalga di fonti autorevoli: egli stesso cita Giuseppe Ripamonti, un sacerdote e cronista dell’epoca, che scrisse il De peste quae fuit anno 1630, anche se non si può tralasciare il Raguaglio dell’origine et giornali successi della gran peste contagiosa, venefica, & malefica seguita nella città di Milano di Alessandro Tadino, membro del Tribunale di Sanità della città di Milano. Sulla base di questi studi, Alessandro Manzoni giunse a ipotizzare che il contagio nei territori di Lombardia, Veneto, Piemonte, Toscana e Romagna, nel terribile 1630, causò circa un milione di morti.

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All’origine dei mali e della devastazione rileviamo una crisi economica, una carestia e dei tumulti, che nella narrativa manzoniana trovano ampia descrizione. In particolare: allo shock dell’offerta di frumento e, di conseguenza, di pane fecero seguito il rincaro dei prezzi e l’inevitabile speculazione. È universalmente nota, per esempio, la scena dei disordini del XII capitolo dei Promessi sposi in cui è coinvolto lo stesso Renzo: in quella circostanza, il gran cancelliere Antonio Ferrer impone proprio il calmiere dei prezzi del pane, ma non prevede la corsa ai forni e la successiva ressa, cosicché la popolazione si riversa per le strade e provoca veri e propri tumulti. Secondo Manzoni, il biennio 1627-1628 fu decisivo: l’eccessiva pressione fiscale a supporto delle spese di guerra e le cattive condizioni meteo misero in ginocchio l’economia. Si registrò, nel frattempo, un calo nelle esportazioni tessili e, ovviamente, nella produzione di manifatture italiane, che negli anni a venire furono sostituite da quelle delle fiandre.

I disagi condussero presto alla discesa dei Lanzichenecchi, le truppe del Sacro Romano Impero chiamate a riportare l’ordine nelle principali città. Bisogna ricordare infatti che il Ducato di Milano, in quegli anni, era una ‘proprietà’ della monarchia asburgica. Ebbene? Tutti gli autori sono concordi nel credere che la peste sia stata portata proprio da questi soldati dell’impero germanico, i quali, nel dirigersi a Mantova, attraversarono Milano. Sebbene l’indagine epidemiologica del tempo non fosse basata sulle stesse risorse di cui ci avvaliamo oggi, anche allora ci si impegnò nella ricerca del paziente zero. Secondo alcuni, si trattò del soldato Pietro Antonio Lovato, sul cui cadavere sarebbe stato rinvenuto un bubbone ascellare, ma non si hanno certezze.

Nei Promessi Sposi (cap XXXI), a tal proposito:

Sia come si sia, entrò questo fante sventurato e portator di sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni; andò a fermarsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di porta orientale, vicino ai cappuccini; appena arrivato, s’ammalò; fu portato allo spedale; dove un bubbone che gli si scoprì sotto un’ascella, mise chi lo curava in sospetto di ciò ch’era infatti; il quarto giorno morì. Il tribunale della sanità fece segregare e sequestrare in casa la di lui famiglia; i suoi vestiti e il letto in cui era stato allo spedale, furon bruciati. Due serventi che l’avevano avuto in cura, e un buon frate che l’aveva assistito, caddero anch’essi ammalati in pochi giorni, tutt’e tre di peste. Il dubbio che in quel luogo s’era avuto, fin da principio, della natura del male, e le cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non vi si propagasse di più. Ma il soldato ne aveva lasciato di fuori un seminìo che non tardò a germogliare. Il primo a cui s’attaccò, fu il padrone della casa dove quello aveva alloggiato, un Carlo Colonna sonator di liuto. Allora tutti i pigionali di quella casa furono, d’ordine della Sanità, condotti al lazzeretto, dove la più parte s’ammalarono; alcuni morirono, dopo poco tempo, di manifesto contagio.

Sulle prime, le autorità, a quanto pare, sottovalutarono il rischio di contagio e la pericolosità della malattia, tant’è che, in piena crisi epidemica, non solo si celebrò pubblicamente la nascita del primo genito di Filippo IV, naturalmente senza badare agli assembramenti, ma, l’11 giorno del 1630, si concesse addirittura una processione religiosa, cui tanta gente prese parte nella speranza di un miracolo, per invocare l’intervento divino di San Carlo. A nulla valse l’iniziale rifiuto del Cardinal Borromeo. E non ci volle molto perché questi eventi si trasformassero in veicoli di diffusione della peste. Alessandro Tadino, già citato membro del Tribunale di Sanità, oltre che fisico, aveva più volte fatto notare la pressante esigenza di adottare misure di sicurezza, ma la negligenza di don Gonzalo Fernandez de Cordoba, prima, e quella di Ambrogio Spinola, poi, entrambi governatori della città, prevalsero sulle previsioni di medici e scienziati. Si narra che, nel primo periodo, le persone, contravvenendo sia alle norme del buon senso sia alle indicazioni dei medici, nascondevano i malati in casa, incuranti delle conseguenze.

Ecco cosa scrive Manzoni sempre nel capitolo XXXI:

Il tribunale della sanità chiedeva, implorava cooperazione, ma otteneva poco o niente. E nel tribunale stesso, la premura era ben lontana da uguagliare l’urgenza: erano, come afferma più volte il Tadino, e come appare ancor meglio da tutto il contesto della sua relazione, i due fisici che, persuasi della gravità e dell’imminenza del pericolo, stimolavan quel corpo, il quale aveva poi a stimolare gli altri. Abbiam già veduto come, al primo annunzio della peste, andasse freddo nell’operare, anzi nell’informarsi: ecco ora un altro fatto di lentezza non men portentosa, se però non era forzata, per ostacoli frapposti da magistrati superiori. Quella grida per le bullette, risoluta il 30 d’ottobre, non fu stesa che il dì 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il 29. La peste era già entrata in Milano.

I tentativi di fuga dalle zone protette, il rifiuto di isolamento e la conseguente esigenza, per lo più giovanile, di aggregazione, la superficialità nel trattare una materia che comunemente s’ignora e, nello stesso tempo, la presunzione d’invulnerabilità molto probabilmente costituiscono un archetipo della coscienza collettiva, un’inclinazione atavica a disobbedire, a non rispettare le regole e a credere che vengano sempre imposte a discapito di qualcuno.

E non si pensi che la credulità sia un’attitudine bell’e superata! Non lo si può pensare perché, nel 2020, pure davanti a un resoconto di laboratorio, le tesi del complotto si moltiplicano a dismisura: “Il coronavirus fa parte di un piano di controllo del mondo”, “Il coronavirus è stato introdotto dagli americani”, “Il coronavirus è un’arma biologica” et similia. Quattrocento anni fa, si era sviluppata la caccia agli untori, cioè a persone che, a detta dei complottisti secenteschi, andavano in giro con unguenti venefici a infettare le persone, cosicché chi veniva sospettato d’essere un untore o semplicemente aveva atteggiamenti sospetti, veniva immediatamente linciato.

Nel 1630, Milano salì presto in cima alla classifica di morti e contagi, seguita da Venezia e Verona. Nella sola Milano, probabilmente, i morti di peste oscillarono tra 140.000 e 160.000. In poco tempo, le città principali arrivarono a perdere anche il 50% o addirittura il 60% dei propri abitanti: tutto ciò avvenne nel quadro socio-economico di un paese già afflitto da altri gravissime epidemie con le quali si era chiuso il Cinquecento: vaiolo, malaria, tifo. Le immagini di strade e piazze spettrali che oggi occupano i TG, nel XVII secolo, erano sostituite da quelle di monatti e apparitori, i quali circolavano, rispettivamente, per trasportare i cadaveri e per avvertire la gente del passaggio.

Edificio simbolo del periodo fu il Lazzaretto, una struttura in cui i malati venivano isolati, che Milano aveva già fatto costruire a metà del XV secolo, istituendo nello stesso tempo un ufficio di sanità permanente, ma che, com’è noto, non fu sufficiente a impedire la devastante avanzata dei secoli successivi.

Ancora una volta, la lettura di un frammento del capitolo XXXI si rivela utilissima:

Nel lazzeretto, dove la popolazione, quantunque decimata ogni giorno, andava ogni giorno crescendo, era un’altra ardua impresa quella d’assicurare il servizio e la subordinazione, di conservar le separazioni prescritte, di mantenervi in somma o, per dir meglio, di stabilirvi il governo ordinato dal tribunale della sanità: chè, fin da’ primi momenti, c’era stata ogni cosa in confusione, per la sfrenatezza di molti rinchiusi, per la trascuratezza e per la connivenza de’ serventi.

A distanza di quasi quattrocento anni, il problema più discusso o – più correttamente – il peggiore dei timori è quello del collasso del sistema sanitario nazionale: l’eventuale mancanza di strumenti per la respirazione assistita sembra rappresentare il focus della prevenzione. Qualcuno ha pure ironizzato sulla differenza tra la prontezza delle autorità cinesi, che hanno fatto costruire ospedali d’emergenza in due settimane, e quelle italiane, che hanno ripiegato sulle tende per il pre-triage all’esterno dei pronto soccorso. Forse, l’ironia è un po’ macabra, ma dà spunti di riflessione.

L’accostamento tra la peste e il coronavirus – si badi bene! – non costituisce affatto un paragone scientifico né mira a circoscrivere una sorta di paura collettiva. Diversamente, serve a riflettere sull’imporsi di alcuni cicli storici, il cui svolgimento è stato sapientemente trattato, per esempio, da Giambattista Vico e Oswald Spengler, ma di certo non trascurato dagli stoici, i quali introdussero il concetto di ekpýrosis, termine rigenerato dagli astrofisici moderni con l’ekpyrotic universe o modello di Steinhardt-Turok. Qui, naturalmente, ci limitiamo a degli spunti, ma vogliamo ricordare che pure gli economisti si sono spesso cimentati nella definizione dei cicli. Tra le opere più famose sicuramente quella di Schumpeter, intitolata per l’appunto Cicli economici e dedicata ai cicli di Kitchin, Juglar e Kondratiev. Ci permettiamo inoltre di aggiungere una nota: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, oggi, come allora, sono le regioni più ‘produttive’ d’Italia ed entro le quali si ottiene più del 40% del PIL nazionale; di conseguenza, sono soggette a un numero di scambi superiore che nel resto del paese e in ogni ciclo, economico o storico, diventano giocoforza protagoniste.

Nell’ambito dei piani letterari di confronto, non possiamo esimerci dal menzionare colui che per primo narrò un’epidemia di peste, lo storico Tucidide, il quale, nel II libro delle Storie o Guerra del Peloponneso, non si limita ad elencare i fatti, ma ne cerca le cause, li approfondisce con acume e, pur non individuando il cosiddetto paziente zero, per così dire, indaga pure sulla provenienza della malattia ipotizzando che sia giunta attraverso il Pireo. Ancora una volta, una guerra, quella del Peloponneso (430 a.C.) rappresenta lo sfondo socio-economico della patologia.

(…) Nessuna tradizione serba memoria, in nessun luogo, di un così selvaggio male e di una messe tanto ampia di morti. I medici nulla potevano, per fronteggiare questo morbo ignoto, che tentavano di curare per la prima volta. Ne erano anzi le vittime più frequenti, poiché con maggiore facilità si trovavano esposti ai contatti con i malati. Ogni altra scienza o arte umana non poteva lottare contro il contagio. Le suppliche rivolte agli altari, il ricorso agli oracoli e ad altri simili rimedi riuscirono completamente inefficaci: desistettero infine da ogni tentativo e giacquero, soverchiati dal male. A quanto si dice, comparve per la prima volta in Etiopia al di là dell’Egitto, calò poi nell’Egitto e in Libia e si diffuse in quasi tutti i domini del re. Su Atene si abbatté fulmineo, attaccando per primi gli abitanti del Pireo.

Molto probabilmente, ogni ciclo storico-economico e ogni fenomeno a impatto così dirompente possono essere inscritti nella campana di Gauss e reinterpretati con la sua metodologia, com’è già stato fatto, d’altronde, da autorevoli esponenti delle scienze sociali. Nella sezione di sinistra della curva, che, non a caso, è simmetrica, si potrebbe collocare la superficialità della gente, la parte centrale sarebbe occupata dall’ansia generale e dalla frenesia, mentre nella parte di destra l’assoggettamento coatto alle regole e il tentativo di ‘remissione’ sarebbe l’elemento costitutivo.

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Anche in questo caso, il Manzoni del XXXI capitolo era stato lungimirante e, forse, profetico:

Anche nel pubblico, quella caparbietà di negar la peste andava naturalmente cedendo e perdendosi, di mano in mano che il morbo si diffondeva, e si diffondeva per via del contatto e della pratica; e tanto più quando, dopo esser qualche tempo rimasto solamente tra’ poveri, cominciò a toccar persone più conosciute.

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