L’impatto economico del coronavirus, ecco le province più a rischio

scritto da il 08 Maggio 2020

Gli autori del post sono Mario Lorenzo Janiri, policy analyst presso il Joint Research Center, Commissione Europea, e Marco Buzzonetti, cofondatore presso la start-up Ticinsect –

L’emergenza sanitaria dovuta al coronavirus resta al centro della discussione mediatica. Dopo l’escalation in Cina a Gennaio 2020 e la successiva esplosione a livello mondiale, ci troviamo tuttora a combattere questa pandemia. L’Italia, fra i primi tre paesi più colpiti, ha visto crescere il proprio numero di contagiati prima ancora degli altri paesi occidentali. Solo in questi giorni stiamo gradualmente uscendo da uno stato di quarantena durato due mesi.

Ad oggi, il dibattito pubblico si divide tra varie questioni, tra cui le modalità di riapertura delle attività, i prezzi delle mascherine, la riapertura scolastica e lo spostamento fra le regioni. Tuttavia, strettamente legato alla cosiddetta “fase 2”, c’è il delicato ed importantissimo tema della ripartenza economica. Il capo della task force per la ripartenza, Vittorio Colao, insieme alla sua squadra di esperti, si vedrà a fronteggiare una crisi economica senza precedenti, con il fiato sul collo di un’eventuale ricaduta sanitaria. Tra le prime misure, la divisione delle attività produttive in “classi di sicurezza” a determinare le gerarchie di riapertura. Tuttavia, saranno i prossimi mesi quelli decisivi per mettere in atto le giuste politiche per far ripartire consumi, fiducia e investimenti.

È proprio in questo contesto che ha senso analizzare e prevedere quali saranno i settori maggiormente colpiti dalla crisi, oltre che i territori che subiranno un maggiore impatto economico.

L’obiettivo di questo contributo è proprio quello di utilizzare una lista di settori considerati a maggior incertezza economica per stimare quali province, sul territorio italiano, siano più esposte al rischio di ricaduta occupazionale. Simili analisi sono già state condotte negli Stati Uniti e in Spagna, ma risulterebbero di grande utilità e novità nel contesto italiano. Il nostro paese, infatti, presenta un enorme squilibrio economico territoriale, tra Nord e Sud. Ma non solo, l’Italia è un paese piuttosto diversificato e le differenti aree si caratterizzano per differenti attività economiche principali (i cosiddetti distretti industriali).

Metodologia e risultati

Per analizzare il fenomeno abbiamo utilizzato una lista redatta dal capo economista di Moody’s, Mark Zandi, in cui vengono identificati 5 settori industriali maggiormente suscettibili all’impatto del Covid-19. Per adattare questi settori alla realtà italiana abbiamo eseguito una serie di raggruppamenti di codici ATECO, come mostrato nella Tabella 1. Non abbiamo ritenuto di dover escludere l’ATECO H53 (“Servizi postali e attività di corriere”), in linea con la metodologia in questione, in quanto l’incremento degli acquisti online registrato nei primi mesi di quarantena potrebbe comunque essere controbilanciato da un crollo di domanda a livello aggregato.

Tabella 1: industrie a elevato rischio Covid-19

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Utilizzando gli ultimi dati ISTAT disponibili (2017), riguardanti il “numero di addetti delle unità locali delle imprese attive (valori medi annui) ”, abbiamo analizzato l’incidenza territoriale dei vari settori ad alto rischio da Covid-19 a livello di provincia. La scelta di utilizzare la categoria degli “addetti” e non “occupati” è stata dettata dalla disponibilità di dati a livello provinciale. Tuttavia, le due categorie sono assimilabili, rappresentando due medesime facce della stessa medaglia, il lavoro.

Mappa interattiva:

 

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Ciò che si evince dall’analisi è un’Italia ancora una volta frammentata, nella quale i numeri degli impiegati nei settori a rischio recessione sono diversi da provincia a provincia. Dando un rapido sguardo alla figura 1 (in rosso le province maggiormente a rischio, in blu le più sicure) si può evidenziare una chiara disparità tra il Nord e il Sud del paese. Una buona parte delle province in Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e Marche presentano una bassa percentuale di lavoratori nei settori considerati a rischio. Mentre al Centro-Sud, la situazione peggiora. In particolare a causa dei trasporti e del settore turistico.

Tre le province più critiche ci sono quelle liguri, prime fra tutte Genova, che vede oltre il 30% della popolazione impiegata nei settori a rischio. In particolare, nel settore dei trasporti, marittimo in primis, Genova primeggia con oltre il triplo dei lavoratori rispetto alla media nazionale.

Discorso diverso, invece, per quelle province che vedranno la propria fetta di lavoratori a maggior rischio a causa delle limitazioni al turismo. Venezia, ad esempio, è al secondo posto per posti di lavoro a rischio in numeri assoluti. Rimini, che ha oltre il 20% dei lavoratori impiegati nell’alloggio e ristorazione, rischia di dover fare i conti con uno shock economico non da poco conto. Infine Livorno, quarta in questa “classifica”, e le province della Sardegna (Sassari in testa), che unitamente costituiscono una buona parte delle province critiche.

Una menzione particolare va ad Aosta e Bolzano, dove il 28% della popolazione è impiegato nei settori a rischio, in particolare nel settore turistico. Tuttavia, bisogna considerare che la tipologia di turismo interessata è prettamente invernale, e quindi potrebbe reggere all’impatto di breve termine con minori contraccolpi in tal senso.

È inoltre utile analizzare la prospettiva in numeri assoluti (totale di lavoratori a rischio, a prescindere dalla grandezza della provincia). In questo senso spicca Roma, dove la percentuale dei lavoratori a rischio è moderatamente più alta della media (23,28%), ma il totale dei lavoratori interessati supera i 300mila. Un numero addirittura più elevato delle prime sei province considerate a rischio messe insieme. E quindi da considerare attentamente per qualsiasi risposta di politica economica a tal riguardo.

Tirando le somme

L’analisi in questione ha quindi evidenziato l’impatto disomogeneo che potrebbe avere sul mercato del lavoro (e, più in generale, sull’economia) l’impasse cui stiamo assistendo in Italia e può essere utilizzato per comprendere e gestire gli effetti economici causati dal coronavirus. Tuttavia, lo studio è soggetto ad alcune ovvie limitazioni: i dati ISTAT utilizzati risalgono al 2017, non può fornire una visione completa del panorama economico italiano e non tiene conto di una pletora di fattori di trasmissione che possono fungere da mediatori sull’impatto finale (ad esempio: la tipologia di turismo e la stagionalità nelle varie aree colpite).

Speriamo, però, che possa fornire uno spunto di discussione riguardo alla prioritizzazione degli ambiti d’intervento (in ottica territoriale e industriale) delle istituzioni pubbliche che saranno chiamate a disegnare un piano di risposta alla crisi nel breve periodo. Di particolare rilevanza saranno le politiche di sostegno e stimolo al turismo locale. Ad esempio, si potrebbero implementare campagne di comunicazione atte a promuovere non solo la bellezza del nostro patrimonio artistico/culturale, ma anche le misure sanitarie implementate al fine di aumentare la percezione di sicurezza dei potenziali visitatori (nel breve termine, italiani, nel medio chissà).

Il settore dei trasporti, inoltre, appare particolarmente ostico, in quanto la maggior parte dei vettori adibiti a passeggeri saranno sottoposti a vincoli di capienza (specificamente rilevante per la sostenibilità economica dell’operatività in questo settore) e il trasporto merci sarà vincolato al sostenimento della domanda sia interna che di import/export.

Sostenere l’occupazione attraverso un impiego mirato di risorse pubbliche nelle province maggiormente a rischio sarà fondamentale, oltre a mantenere in vita tutta una serie di piccole attività legate al turismo locale. Senza dimenticare del sostegno economico di cui avranno bisogni gli impiegati nel settore dei trasporti, che vedrà il proprio spazio operativo diminuire sensibilmente nei prossimi mesi.

Twitter @MJaniri