I trend del mercato del lavoro. Prospettive per scongiurare un cortocircuito

scritto da il 06 Luglio 2020

Post di Elisabetta Calise, HR business partner. Avvocato. Fa parte del board esecutivo della Scuola di Politiche –

Secondo il Fondo monetario internazionale l’Italia sarà fra i Paesi più colpiti dallo shock economico post Coronavirus, con un crollo del PIL del 12,8% nel 2020. Leggermente più ottimistici, ma non di certo rassicuranti, i dati Istat, secondo cui nell’anno corrente registreremo una contrazione del PIL dell’8,3% che, sempre a quanto sostiene l’Istituto di statistica, si accompagnerà a una brusca riduzione dell’occupazione (- 9,3%) misurata in termini di ULA (unità di lavoro equivalenti a tempo pieno).

Una decisa redistribuzione del numero di disoccupati e inattivi è il filtro attraverso cui leggere i trend del mercato del lavoro oggi: il tasso di disoccupazione è cresciuto meno che altrove anche per l’aumento degli inattivi (+290 mila nel primo trimestre dell’anno, rispetto allo stesso trimestre 2019) e ciò non fa sperare in una sua contrazione nel 2021 quando, in concomitanza con la ripresa, più persone cercheranno un impiego e si verificherà una ricomposizione del numero delle due categorie menzionate.

La causa della crescita del tasso di inattività pare si annidi in motivi di ordine sociologico ed economico che interessano il mercato dei “lavori” entro cui si muove l’attuale società.
L’ultimo rapporto INAPP riferisce come hanno trovato lavoro gli italiani negli ultimi anni: il 33,1% attraverso reti di amici e parenti; il 20,4% grazie ad autocandidature su portali e social specializzati, il 9,9% tramite l’attivazione dei propri contatti professionali. Le ragioni del distanziamento sociale si sono ovviamente mal conciliate con la prima e la terza voce, dimostrando ex post che da remoto è possibile lavorare, meno probabile cambiare o accedere per la prima volta ad una professione.

I limiti dello smart working
Proprio lo smart working, improntato su un modello di esecuzione flessibile della prestazione lavorativa, costringerebbe, infatti, a una paradossale rigidità delle relazioni, in un sostanziale continuo movimento solo sui binari dei task e obiettivi eterodiretti e comunque nell’impossibilità oggettiva di allargare la propria rete di conoscenze, anche funzionale agli obiettivi di cui al rapporto INAPP.

Il rischio connesso al paradosso della rigidità dei network è che vada ad arricchirsi un altro bacino di individui che un contratto di lavoro non ce l’hanno e non l’hanno mai avuto, gli inoccupati.

Satya Nadella, CEO di Microsoft, si è espresso negativamente rispetto al modello di smart working permanente che hanno deciso di adottare companies come Twitter, asserendo proprio la deleteria sterilità delle relazioni sociali, malnutrite pur con l’ausilio di strumentazioni tecnologiche.

L’aumento degli inattivi apparirebbe riferibile, tuttavia, non solo all’intermediazione intesa come punto di snodo della meccanica della ricerca di lavoro (searching e matching), ma anche al sistema di protezione sociale adottato in tempi di Covid-19, diverso da quello della precedente crisi economica del 2008: una più estesa e generalizzata allocazione pubblica di reddito potrebbe aver limitato l’esigenza di ricercarne immediatamente uno sostitutivo nei settori occupazionali attivi.

Due non misure per la ripresa
Drenare risorse e vietare i licenziamenti sembrano essere due non misure per la ripresa dell’occupazione e conseguentemente dell’economia. Lo spiega Pietro Ichino in una recente intervista in cui sostiene che «in molti casi l’integrazione salariale quasi automatica genera un incentivo perverso all’inerzia» e che quindi il ricorso ai sussidi, seppur indispensabile nel breve termine, rischia di essere inutile senza un piano di formazione e reinserimento dei lavoratori disoccupati.

Mettere in comunicazione la domanda e l’offerta di lavoro: è questo il mantra più volte richiamato anche dalle recenti misure di sostegno all’occupabilità, una fra tutte il Reddito di Cittadinanza.

Quattro milioni di precari
A dispetto, però, di queste dichiarazioni di intenti, nel nostro Paese sono quasi quattro milioni i precari e i sottopagati e un milione e duecentomila le situazioni di skill shortage, cioè posti di lavoro permanentemente scoperti perché le imprese non trovano persone adatte per ricoprirli.

Le politiche attive da più parti auspicate dovrebbero innestarsi sul terreno della coscienza delle mutate esigenze che non solo l’ultima crisi sanitaria ma anche la crescente flessibilità dei modelli organizzativi del lavoro hanno messo in luce.

La gig economy ha trovato un nervo scoperto proprio nella deregulation, che ha lasciato uno spazio inedito alla posizione di dominanza dei datori di lavoro.

L’algoritmo delle piattaforme digitali smista turni e consegne, somministrando lavoro a colpi di cottimo, rating e ranking. Più velocità e pochi errori si traducono in turni più comodi o in cui si guadagna di più, non abbiamo bisogno di asserire retoricamente il contrario per immaginare cosa invece accade a chi dovesse avere un incidente di percorso. Dietro l’enfasi della flessibilità, dell’autoimprenditoria, della volontà individuale si annidano oggettivamente precarietà e povertà.

Il D.L. 101/2019 e una recente sentenza della Cassazione hanno introdotto livelli minimi di tutela in tema di licenziamento e trattamenti retributivi per gli occupati in questi settori. Pur lodevoli, queste risoluzioni non sono che le puntate precedenti di un adeguamento auspicabilmente più organico del contesto normativo alle sfide odierne, anche considerato che le forme contrattuali attualmente in uso appaiono molto vulnerabili agli shock economici.
Per rispondere alla crisi del mercato del lavoro, interessante è la chiave di volta che individua la Commissione Europea, che mette in una fruttuosa correlazione i mutamenti demografici degli Stati dell’Unione con i punti nevralgici delle prossime politiche di settore.

Partendo dall’assunto che la popolazione europea avrà un’età media sempre più avanzata e che il numero di cittadini in età da lavoro tenderà a diminuire – avendo raggiunto il suo picco massimo proprio nel 2020 – le situazioni di skill shortage richiamate sopra potranno notevolmente ridursi solo se il mercato sarà in grado di farsi accogliente verso fasce di popolazione solitamente escluse, a titolo non esaustivo donne e individui provenienti da paesi extraeuropei.

Nuove figure professionali
Uno studio del McKinsey Global Institute, intitolato Il futuro del lavoro in Europa, afferma che il combinato disposto dell’automazione e del congelamento dell’economia dovuto al Covid-19 brucerà alcuni posti di lavoro e contemporaneamente accelererà il processo di creazione di nuove figure professionali.

Ambiziose e pragmatiche politiche industriali, dell’istruzione e del lavoro devono trovarci sin da ora pronti a sfruttare le potenzialità di sviluppo legate alla riqualificazione di alcune professioni, al migliore settaggio dei percorsi formativi e all’inclusione di fasce della popolazione ancora ai margini, solo così saremo nella condizione di ovviare al cortocircuito tra gli opposti estremi della disoccupazione e degli ammortizzatori sociali perpetui e, nel mezzo, recupereremo una tensione evolutiva.

Twitter @Eli_Calise