L’egoismo dei Frugali e il caro vecchio vittimismo italiano

scritto da il 19 Luglio 2020

Post di Fabrizio Ferrari, laureato magistrale in Economics presso l’Università Cattolica di Milano – 

A latere del Consiglio Europeo straordinario iniziato venerdì, in Italia è ripartita la litania vittimistica contro il presunto egoismo dei cosiddetti frugal four (Svezia, Austria, Danimarca e Olanda), che recalcitrano all’idea di trasferire e/o prestare risorse all’Italia.

Ma, assumendo un punto di vista obiettivo e distaccato (“wertfrei”), possiamo davvero sostenere—con cieco slancio patriottico—che i quattro frugali siano così sadicamente meschini e taccagni? A ben vedere, no: hanno le loro ragioni, perfettamente razionali dal punto di vista economico.

Per iniziare, tanto vale smentire la narrazione secondo cui, in realtà, l’Italia sarebbe una sorta di “quinto frugale”—dal momento che, a detta di alcuni, avrebbe notevolmente ridotto la propria spesa pubblica e si sarebbe encomiabilmente sforzata di riequilibrare le proprie finanze pubbliche. Per smentire tale mistificazione, bastano tre considerazioni.

La prima: come ci mostra la Figura 1, non si può dire che l’Italia, negli ultimi 20 anni, si sia particolarmente distinta in quanto a riduzione del peso dello Stato sull’economia. Al contrario, l’incidenza della spesa pubblica sul reddito nazionale è andata aumentando (dal 46,6% del 2000 al 48,8% del 2019), mentre, nel medesimo lasso di tempo, tale rapporto andava riducendosi in Svezia (dal 52,2% al 48,4%), Austria (dal 50,7% al 47,9%) e Danimarca (dal 52,7% al 51,5%). Solo in Olanda si è avuto un aumento (dal 41,4% al 42,8%), ma rimanendo su livelli di gran lunga inferiori a quelli italiani. Quindi, possiamo trarre una prima conclusione: negli ultimi 20 anni, l’Italia non si è di certo particolarmente distinta in quanto a “frugalità” o “austerità”.

Figura 1. Fonte: IMF, World Economic Outlook Database, October 2019.

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La seconda: ai quattro frugali, giustamente, interessa quanto credibilmente il nostro Paese può impegnarsi a restituire i soldi presi a prestito, nonché a contribuire agli incrementi del bilancio comunitario previsti a partire dal settennato 2028 – 2034. La ragione di questa preoccupazione, a ben guardare, è evidente: l’Italia ha un elevatissimo debito pubblico già esistente, e ha già abbondantemente dimostrato di non saperlo né ridurre—come richiesto dal Trattato di Maastricht e dal Patto di Stabilità e Crescita—né controllare. Su questo, la Figura 2 è eloquente e non richiede molti commenti. Tra il 2000 e il 2019, il nostro debito pubblico è passato dal 105% del PIL al 133%, mentre quello austriaco dal 66% al 71%, quello danese dal 52% al 33%, quello olandese dal 51% al 49% e quello svedese dal 51% al 37%.

In poche parole, tutti e quattro i Paesi presentano, contrariamente all’Italia, debiti pubblici perfettamente sostenibili—Danimarca, Svezia e Olanda sono addirittura abbondantemente al di sotto della soglia del 60% prevista dal Trattato Maastricht e dal Patto di Stabilità e Crescita. Quindi, possiamo trarre una seconda conclusione: l’Italia ha dimostrato di essere molto meno affidabile nella gestione della propria finanza pubblica rispetto ai quattro frugali.

Figura 2. Fonte: IMF, World Economic Outlook Database, October 2019.

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La terza: il disastro della finanza pubblica italiana non è imputabile, contrariamente a quanto alcuni sostengono, unicamente ad una crescita del reddito nazionale al di sotto del proprio potenziale. Anche qui, sono sufficienti poche parole nel confrontare l’Italia con i frugal four.

Come mostra la Figura 3, l’Italia ha gestito prodigalmente le proprie finanze pubbliche anche tenendo conto della correzione per il ciclo economico—cioè, considerando il saldo di bilancio pubblico al netto delle uscite una tantum, degli interventi di stabilizzazione macroeconomica e del minor gettito fiscale derivante da un livello inferiore di reddito nazionale. Dopo la disastrosa prima metà degli anni ’90, l’Italia ha negli ultimi 20 anni riportato livelli di deficit pubblico strutturale quasi sempre peggiori rispetto agli altri quattro Paesi considerati—ciò va a rinforzare la conclusione del secondo punto circa la nostra scarsa affidabilità nella gestione delle finanze pubbliche.

Figura 3. Fonte: IMF, World Economic Outlook Database, October 2019.

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Quindi, sgombrato il campo dall’equivoco (come risulta evidente, non siamo annoverabili tra i frugali d’Europa… al contrario, siamo prodighi al limite dell’interdizione), possiamo analizzare brevemente il convitato di pietra di ogni discussione sulla finanza pubblica italiana: le pensioni.

Come mostra la Figura 4 (i dati non sono ancora disponibili per gli anni successivi al 2015), l’Italia—che pure, in media, non presenta livelli di spesa pubblica eccessivi rispetto ai quattro frugali (Figura 1)—si discosta nettamente da Olanda, Svezia e Danimarca—e, in misura minore, anche dall’Austria—in quanto a spesa pensionistica.

Figura 4. Fonte: OECD (2020), Pension spending (Accessed on 18 July 2020).

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Ma da cosa è causato questo divario? Sicuramente, la demografia non è una spiegazione sufficiente: difatti, nazioni dalla struttura demografica simile alla nostra (Germania), o addirittura molto più svantaggiosa (Giappone), presentano livelli di spesa pensionistica di gran lunga inferiori a quelli italiani (ne ho scritto qui).

Ma, se la demografia non è sufficiente a fornire una spiegazione, dove ne possiamo trovare altre più cogenti? Senz’altro, è di aiuto comparare i cinque Paesi in oggetto sotto due aspetti: il tasso netto di copertura della pensione (cioè, quanto—mediamente—l’assegno pensionistico copre dell’ammontare dello stipendio—mediamente—percepito in età lavorativa) e l’età effettiva di uscita dal mercato del lavoro.

Per quanto concerne il tasso netto di copertura della pensione [1], al 2018 (ultimi dati disponibili), il pensionato maschio medio italiano percepiva—mediamente—una pensione pari al 92% del reddito medio netto guadagnato durante il proprio percorso lavorativo. Tale dato non è scandalosamente alto se confrontato con quello austriaco (90%) o olandese (80%), mentre è decisamente eccessivo se confrontato con quello danese (71%) e svedese (53%). Chiediamoci: quanto incline potrebbe essere un pensionato (o pensionando) olandese, danese o svedese a prestare soldi che, alla fine dei conti, finirebbero col privilegiare i suoi—già privilegiati—omologhi italiani?

Infine, per quanto attiene all’età effettiva di uscita dal mercato del lavoro [2] (al 2018, ultimi dati disponibili), mentre l’uomo medio italiano si ritira a 63,3 anni, il suo omologo danese si ritira a 65,1 anni, quello olandese a 65,2, quello austriaco a 65,3 e quello svedese a 66,4. In tutti e quattro i Paesi, inoltre, è bene ricordare che l’aspettativa di vita a 65 anni è inferiore a quella italiana [3]. Quindi, di nuovo, un pensionato (o pensionando) olandese, svedese, austriaco o danese potrebbe legittimamente chiedersi: perché i miei soldi devono essere impiegati per soccorrere un Paese i cui pensionati (e pensionandi) possono ritirarsi prima dal lavoro, nonché godersi la pensione per più tempo?

Conclusione
In fin dei conti, i frugal four non solo non sono da biasimare, ma dimostrano di agire con estrema razionalità economica, nonché di essere i nostri veri alleati di lungo periodo—gli unici che possono salvarci da noi stessi. Il fallimento della gestione della finanza pubblica italiana è evidente sotto ogni punto di vista lo si voglia esaminare—raccomando comunque, in quanto molto istruttivo, il confronto col Belgio—ed è comprensibile che i contribuenti di altre nazioni non vogliano prestarsi a questo scempio.
Non resta che una speranza: che i frugal four resistano sulle loro posizioni e ci costringano, finalmente, a fare i conti con i nodi che troppo a lungo abbiamo allontanato dal pettine.

Twitter @Fabriziofer1994

NOTE

[1] Fonte: OECD (2020), Net pension replacement rates (Accessed on 18 July 2020). 

[2] Fonte: OECD, Pension at a Glance, 2019, pag. 179. 

[3] Fonte: OECD, Pension at a Glance, 2019, pag. 173.