Spread, Bce, lavoro e reddito. Seguite il dialogo tra Monti e Brancaccio

scritto da il 23 Novembre 2020

Pubblichiamo stralci di un dibattito tra Emiliano Brancaccio e Mario Monti su euro, austerity e spread, il cui testo integrale è stato appena pubblicato nel nuovo libro di Emiliano Brancaccio: “Non sarà un pranzo di gala”, edito da Meltemi –

Emiliano Brancaccio. [..] Sulla storia e i destini del processo di unificazione europea, l’esperienza del governo Monti ha rappresentato un fondamentale caso di studio. In particolare, c’è un episodio che reputo rilevantissimo dal punto di vista scientifico. Dopo l’approvazione della imponente manovra di finanza pubblica contenuta nel cosiddetto decreto “Salva Italia”, è importante ricordare un fatto: i tassi d’interesse declinarono temporaneamente ma poi esplosero di nuovo. Quale fu la ragione di questa nuova risalita, nonostante la durezza della restrizione imposta al deficit pubblico? Come la ricerca scientifica indica, il motivo è che i tassi d’interesse e gli spread non necessariamente diminuiscono al ridursi del deficit pubblico, anzi possono persino aumentare se la riduzione del deficit alimenta la recessione. La capacità del “risparmio pubblico” di ridurre i tassi d’interesse è una tesi tipica della teoria neoclassica, ma quella teoria è logicamente sbagliata e non trova riscontri empirici, come vediamo.

Dobbiamo allora riconoscere che i tassi d’interesse scaturiscono da una combinazione di fattori molto più articolata e complessa, tra i quali, nel caso specifico, risultano decisivi l’andamento del reddito, il saldo estero e la disponibilità della politica monetaria a eliminare il rischio di cambio, ossia il rischio di una rottura dell’unione monetaria. La restrizione fiscale può magari ridurre il deficit estero ma ciò accade proprio perché viene depresso il reddito, e in ogni caso questo processo contraddittorio non garantisce il controllo dei tassi d’interesse a meno di una decisa azione da parte del banchiere centrale europeo. È chiaro che su questo punto Monti potrebbe subito rimarcare che senza l’azione del suo governo probabilmente non ci sarebbe stata la svolta di politica monetaria iniziata nel luglio 2012. Ma se questa fosse la replica, io sarei pienamente d’accordo.

Possiamo cioè perfettamente convenire sul fatto che, forse più di chiunque altro, Monti fu “demiurgo del whatever it takes” di Draghi. Ossia, sul piano politico, nessuna svolta da parte dell’autorità monetaria si sarebbe data senza la contropartita delle restrizioni di bilancio e delle riforme strutturali e del lavoro. Ma sul piano scientifico, bisogna aver chiaro che fu la svolta di politica monetaria a metter sotto controllo i tassi d’interesse, non la contropartita delle restrizioni fiscali e delle riforme del lavoro, che presa a sé stante avrebbe potuto persino accentuare l’instabilità dei mercati finanziari. In altre parole, io qui sto dicendo che le restrizioni fiscali e le riforme del lavoro non rilanciano lo sviluppo e non stabilizzano il mercato finanziario, ma possono addirittura scatenare una deflazione da debiti e per questa via possono accentuare le divergenze tra i tassi e, più in generale, tra i paesi. Quindi, tali restrizioni e riforme devono avere motivazioni diverse dalla stabilizzazione finanziaria. Se oggi abbiamo messo le briglie al mercato, lo dobbiamo al banchiere centrale. È questo il punto su cui insisto, che ovviamente ha grandi ricadute sull’interpretazione di quella fase storica. [..]
Mario Monti. [..] Vengo al punto che mi sta più a cuore, e cioè l’altro tema che ha sollevato il professor Brancaccio: la relazione tra tassi d’interesse, politiche di disciplina di bilancio e politica monetaria. Empiricamente non sono d’accordo, almeno con riferimento a quella fase che anche tu [Brancaccio, N.d.R.] hai menzionato. Tu hai detto che poco dopo il “Salva Italia” di fine novembre-inizio dicembre 2011 i tassi d’interesse esplosero nuovamente. Verissimo. Ma tra giugno 2011 – con lo spread italiano a 180/200 – e novembre 2011 – quando arrivò a 574 – il nostro spread era ben al di sopra di quello spagnolo. Questo andamento era ricollegabile alla politica monetaria? Neanche per idea, perché in quella fase la Banca Centrale Europea, sulla base del Securities Markets Programme, acquistava titoli spagnoli e soprattutto titoli italiani. Quindi, malgrado il forte acquisto di titoli italiani, i tassi d’interesse sul debito pubblico italiano si impennavano. Poi sarà successo qualcosa che non ha niente a che vedere con la politica monetaria se in un giorno di novembre del 2011, arrivato a quota 574, invece di proseguire alle stelle la rotta dello spread si è invertita. Forse una decisione del presidente Napolitano ha avuto qualche effetto sugli spread (oltre che sulla mia vita). Poi è vero che, anche prese le misure interne che probabilmente occorreva prendere, c’è voluto il “whatever it takes” del luglio 2012 per vedere una discesa più stabile dei tassi di interesse. Però c’è da prendere in considerazione che comunque, da novembre/dicembre in poi, lo spread dell’Italia torna ben sotto lo spread della Spagna. Come può spiegare la politica monetaria, che è la stessa per tutti, che l’Italia prima era sopra la Spagna e poi torna sotto la Spagna? Oggi è tornata sopra, ma questo è un altro discorso.
Emiliano Brancaccio. [..] In precedenza ho sostenuto che le politiche di bilancio restrittive e le riforme del lavoro non necessariamente contribuiscono alla crescita economica e alla stabilizzazione finanziaria, ma possono anzi scatenare una deflazione che accentua le turbolenze e la crisi. Questa tesi è confermata dalla più avanzata analisi empirica di questi anni – avallata persino dall’OCSE e dal FMI – come la pletora di studi sull’assenza di benefici macroeconomici dalla riduzione degli indici di protezione del lavoro, o le numerose ricerche sulla sottostima dei moltiplicatori fiscali (rassegne, verifiche e meta-analisi in: Brancaccio, De Cristofaro, Giammetti 2020; Brancaccio e De Cristofaro 2020). In base a queste evidenze empiriche, ho tratto due definizioni ispirate proprio dalle vicende del governo Monti.

La prima definizione è “austerità keynesiana”. Ho usato questa espressione per la prima volta in Bocconi, durante il dibattito citato prima dal professor Monti. In quella occasione la politica dell’esecutivo da lui guidato venne nuovamente criticata da Alesina, Favero e Giavazzi, i quali sostennero che quel governo avrebbe dovuto attuare una diversa forma di austerity, fondata sulla riduzione della spesa pubblica più che sull’aumento delle imposte. Io invece sostenni che la via della maggior tassazione, che l’esecutivo Monti privilegiò, è una forma di austerità un po’ meno perniciosa di quella suggerita dai suoi critici, non solo perché in grado di rispettare maggiormente gli equilibri sociali, ma anche per le evidenze empiriche più recenti, che sostanzialmente confermano l’intuizione originaria di Haavelmo, secondo cui i moltiplicatori keynesiani della spesa sono più grandi di quelli riferiti alla tassazione. In quella sede, dunque, sostenni che quella di Monti poteva paradossalmente esser definita una forma di “austerità keynesiana”, un po’ meno recessiva di quella suggerita dai colleghi bocconiani. Naturalmente, anche lì rimarcai che a mio avviso la politica di austerità fu comunque un grave errore. E oso qui aggiungere che un’azione di governo alternativa sarebbe stata possibile.

La seconda definizione che traggo dalle evidenze empiriche è quella che ho usato oggi: “Monti demiurgo di Draghi”. Rispondendo alle obiezioni di Monti, è bene chiarire che io non ho affatto sostenuto che gli spread sui tassi d’interesse sono determinati esclusivamente dalla politica monetaria. Io ho detto, invece, che in base all’evidenza empirica gli spread sono determinati da un complesso articolato di fattori in cui il deficit e il debito pubblico o le tutele del lavoro non sono i più rilevanti, e non è affatto garantito che una loro riduzione contribuisca in quanto tale a ridurre i tassi. Anzi, potrebbe addirittura aumentarli. Nel complesso di fattori che determinano gli spread rientrano elementi più importanti e di segno più chiaro, tra cui la crescita, il saldo estero e, in ultima istanza, la politica del banchiere centrale, specie nell’ambito di una unione monetaria. Posso anche convenire sul fatto che pure altri elementi abbiano contribuito a determinare le differenze contingenti tra Spagna e Italia o il calo temporaneo dello spread a seguito della nascita del nuovo governo. Ma il punto è un altro: che tali elementi siano da ricondurre alla stretta fiscale o alla riforma del lavoro è contestabile, e nel caso esaminato è comunque alla politica monetaria che dobbiamo imputare la parte preponderante del calo dei tassi d’interesse.

Per il resto, la narrazione del professor Monti mi sembra pienamente in linea con la definizione che ho suggerito prima, di Monti “demiurgo del whatever it takes” di Draghi. Le restrizioni del bilancio pubblico e le riforme del lavoro costituirono la necessaria contropartita politica per la svolta nell’azione monetaria del banchiere centrale. Senza di esse, il banchiere centrale non avrebbe potuto pronunciare quelle tre parole. Su questo siamo totalmente d’accordo. Ma quella contropartita politica non contribuì in quanto tale a ridurre i tassi d’interesse: non vi sono evidenze scientifiche in questo senso. E in generale non vi sono evidenze a sostegno della tesi neoclassica di una relazione tra maggiore risparmio e minore tasso d’interesse “naturale”, una tesi che non trova adeguati riscontri empirici e che, come sappiamo, è oggetto di importanti obiezioni da parte degli approcci alternativi di teoria economica. Tutto questo, a mio avviso, implica una diversa interpretazione di quella cruciale fase storica.

Mario Monti. Credo che tu abbia fatto un chiarimento perfetto. [..]

Twitter @emibrancaccio