L’uso del contante va fatto pagare caro (se si vuole ridurre il sommerso)

scritto da il 11 Dicembre 2020

Ha contribuito a questo post Antonio Caggia, docente e ricercatore di economia e finanza alla Liuc Università Cattaneo –

Il governo ha deciso di intervenire per contrastare il sommerso e l’evasione e ha emanato provvedimenti diretti a premiare i pagamenti con carta di credito o di debito. È stato direttamente il presidente del Consiglio Giuseppe Conte in diretta tv il 3 dicembre scorso ad annunciare le novità in tema di “cashless” economy.

Sul sito governo.it si legge: “Italia Cashless è un piano messo a punto dal Governo per incentivare l’uso di carte di credito, debito e app di pagamento, per modernizzare il Paese e favorire lo sviluppo di un sistema più digitale, veloce, semplice e trasparente. Ogni piccola spesa quotidiana può diventare un guadagno”. A parte che tecnicamente è un risparmio, non un guadagno, ma se l’obiettivo di diventare un’economia cashless è auspicabile, gli strumenti adottati non rappresentano quello di cui l’Italia ha bisogno.

Quando in primavera vengono pubblicate le analisi sulle dichiarazioni dei redditi degli italiani, sono in molti a mettersi a ridere per la manifesta scorretta rappresentazione del reddito e della ricchezza degli italiani. Anche quest’anno la scena si è ripetuta. Infatti, quando ad aprile 2020 il Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) ha comunicato i dati del 2019, è emerso che il reddito (lordo) complessivo totale dichiarato dagli italiani ammonta a circa 880 miliardi di euro, per un valore medio di 21.660 euro. L’imposta netta totale dichiarata è pari a 164,2 miliardi di euro.

Analizzando per fasce di reddito, si osserva che il 44% dei contribuenti dichiara perdite o redditi fino a 15.000 euro, versando il 4% dell’Irpef totale. I contribuenti nella classe tra i 15.000 e i 50.000 euro sono il 50% e versano il 56% dell’Irpef totale, mentre il 6% dei contribuenti dichiara più di 50.000 euro versando il 40% dell’Irpef totale.

Se ne deduce che circa il 60% dei contribuenti (i più poveri) versa circa il 9% dell’Irpef totale (oltre il 30,4% dei contribuenti versano Irpef pari a zero). Mentre, sempre secondo il Mef, il 35% dei contribuenti (i più ricchi), ovvero quelli con redditi superiori a 35.000 euro, versa il 59% dell’Irpef.

Quanto incide il fenomeno dell’economia sommersa su questo quadro? L’ultimo rapporto Istat rileva che il valore dell’economia “in nero” e delle attività illegali in Italia, viene stimato circa 211 miliardi di euro, pari al 12,1% del PIL. La sola economia sommersa, escludendo le attività illegali, vale 192 miliardi di cui il 50,5% derivante da sotto-dichiarazione e il 41% da impiego di lavoro irregolare.

La sotto-dichiarazione è significativa nel comparto Commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (vale il 13,2% rispetto al valore aggiunto), nelle Costruzioni (11,9%), nei Servizi professionali (11,6%) e nelle attività connesse alla Produzione di beni alimentari e di consumo (9,2%). Mentre il lavoro irregolare, che secondo l’Istat rappresenta una “caratteristica strutturale del mercato del lavoro”, ha l’incidenza più elevata nel settore dei Servizi (16,8%), dovuta alla domanda di prestazione non regolari da parte delle famiglie, ma è presente anche in agricoltura (18,4%), nelle costruzioni (17,0%) e nel Commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (15,8%).

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Leggendo l’articolo “L’utilizzo del contante in Italia”, sembra scontato rilevare una qualche correlazione con il fenomeno dell’economia sommersa. Infatti Banca d’Italia descrive il Belpaese come quello dell’Area euro in cui è stato rilevato il maggior numero di transazioni giornaliere per persona, di cui l’85% in contanti. Tra tutte le categorie, i lavoratori autonomi eseguono il maggior numero di operazioni pro-capite in contanti (circa il 90%) e con il valore medio più elevato. Le transazioni in contanti si sono concentrate nei negozi per acquisti giornalieri, in ristoranti e bar, e presso le stazioni di rifornimento.

Tale correlazione è stata individuata anche da Hamaui ed Esposito che, sulle pagine del Sole 24 Ore, hanno spiegato come una “cashless economy” è l’unico “sistema efficiente per ridurre l’evasione fiscale, la corruzione, il lavoro in nero, l’economia sommersa, le rapine e più in generale tutte le attività illegali”. Diversi Paesi nel mondo si stanno muovendo verso questo tipo di sistema finanziario: “in Svezia il contante è utilizzato solo nel 13% delle transazioni in volume e nel 3% in valore”.

In Italia non sembra esserci, però, una visione univoca. Negli anni sono state proposte e praticate, senza grande successo, diverse soluzioni: detrazioni e altri incentivi fiscali, divieto di pagamento degli stipendi in contanti, fino all’introduzione dell’obbligo di dotarsi del Pos per esercenti e professionisti (senza, però, prevedere adeguate sanzioni).

Con gli ultimi provvedimenti è stata annunciata la lotteria degli scontrini, un vero e proprio gioco a premi in cui si assegna al pagante un ticket per ogni euro di acquisti (esclusi gli acquisti on line e i costi deducibili o detraibili). Tralasciando l’aspetto etico e antieducativo, avrà un effetto limitato perché non porterà al cambio di abitudini e sarà appannaggio di chi è già abituato ai pagamenti “smart”.

Stesso discorso per il Cashback o l’Extra Cashback di Natale, di cui sul sito goveno.it si legge: “Sono sufficienti 10 acquisti con carte di credito, carte di debito, bancomat e Satispay per ottenere il 10% di rimborso, fino a un massimo di 150 euro”. Ricordando che Bancomat è il nome commerciale di una carta di debito, che non valgono gli acquisti on line e che il rimborso è previsto nei mesi successivi, anche questa iniziativa non sposterà le abitudini di spesa e chi avrà contante da spendere continuerà a farlo.

L’unico vero limite all’utilizzo del contante è definito dalla normativa antiriciclaggio. Limite che, dal 2008, è cambiato ben 9 volte, fino alla soglia di 999,99 euro che sarà in vigore il 1° gennaio 2022. Ma, come si è visto, il contante è utilizzato per pagare importi ridotti derivanti da acquisti giornalieri, ristorazione, stazioni di rifornimento e prestazioni professionali. Gli stessi settori in cui la sotto-dichiarazione ha un ruolo significativo.

Come detto, per arginare il sommerso, l’attuale sistema offre incentivi fiscali o regalie a chi utilizza strumenti di pagamento diversi dal contante. Il problema è che, nella realtà, molti micropagamenti non ne beneficiano ed è raro che un consumatore chieda il documento fiscale (scontrino, ricevuta o fattura) che il venditore non ha emesso. Anche nel caso di un acquisto che goda di un “bonus” fiscale, potendo scegliere, l’acquirente spesso preferisce lo sconto immediato piuttosto che dover portare in detrazione il costo sostenuto nella dichiarazione dell’anno successivo, rientrando del bonus a rate annuali, dovendo adempiere a scoraggianti obblighi burocratici. Inoltre tale sistema produce effetti limitati in un paese dove oltre il 30% dei dichiaranti (anche con familiari a carico) non versano Irpef e le detrazioni o deduzioni valgono fino a capienza dell’imposta a debito.

Per andare verso una vera “cashless economy” e modernizzare il Paese, il dilemma, e quindi la scelta della modalità di pagamento, non deve essere in capo al pagante, che già soffre la “perdita” immediata del denaro e che vede uno sconto come un’utilità immediata. Si deve puntare sul disincentivo al pagato, venditore di un bene o un servizio, e affinché si disincentivi il prenditore di fondi a ricevere pagamenti in contanti, il contante deve valere meno, si deve rendere il contante costoso.

La soluzione potrebbe essere una “Cash Tax” ovvero una tassazione fissa applicata dagli intermediari finanziari per ogni operazione di pagamento, trasferimento, rimessa o deposito in contanti. Gli intermediari finanziari opererebbero in veste di sostituto d’imposta, trattenendo una percentuale fissa ad ogni operazione in contanti.

In questo modo, il dilemma tra contanti e altro strumento di pagamento rimane in capo al venditore che sarà disincentivato ad accettare pagamenti in contanti, dovendo sostenere una tassazione fissa per poter immettere il denaro nel circuito finanziario o bancario.

Contestualmente all’introduzione della Cash Tax, si dovrebbero rendere gratuiti gli strumenti di pagamento diversi dal contante (carta di debito e di credito, bonifico, proximity payment, etc.) e, parimenti, dovrebbero essere gratuiti i sistemi per accettare tali tipologie di pagamento (Pos). L’azzeramento delle fee per gli intermediari sarebbe compensato dall’aumento della raccolta e del turnover e dalle opportunità di cross selling.

Il venditore che si troverà costretto (dal cliente) ad accettare un pagamento in contanti, dovrebbe poter far sostenere il costo della Cash Tax al consumatore finale. Pertanto si dovrebbe permettere al venditore di applicare un prezzo differenziato per tipologia di strumento di pagamento utilizzato, con una logica esattamente inversa a quella che accade oggi: una penale per chi paga in contanti o, viceversa, uno sconto per chi non paga in contanti.

In un mondo ideale, poi, si dovrebbe rendere il processo “friction-free”. Il pagante dovrebbe fornire sempre obbligatoriamente il codice fiscale, creando uno scontrino unicamente digitale traccerebbe in automatico tutti gli acquisti, eliminerebbe i costi degli scontrini, accrediterebbe in automatico tutti i benefit. Digitalizzare tutto aiuterebbe a tracciare e rendere “consapevoli” entrambi gli attori, pagante e pagato, dei costi e dei benefici associati ad ogni azione.

Il contante costoso avrebbe effetto anche sul lavoro irregolare. Innanzitutto il datore soffrirebbe l’indisponibilità di contanti per pagare il lavoratore in nero. Inoltre, poiché talvolta è il lavoratore che sceglie di lavorare in nero, per ottenere una retribuzione maggiore del netto che avrebbe percepito regolarmente assunto, con il contante costoso sarebbe alquanto indifferente perdere parte della retribuzione con la Cash Tax oppure con l’ordinaria tassazione dello stipendio.

Spesso in Italia i provvedimenti che hanno una logica sottostante non vengono adottati poiché l’opinione pubblica non è d’accordo. Ma, se si va sempre alla ricerca del consenso di breve termine, il risultato è quello che abbiamo davanti agli occhi: un’economia languente, con bassa produttività, nero e sommerso dilagante, criminalità che impazza poiché con i profitti in contanti delle attività illecite è in grado, soprattutto nei periodi di difficoltà, di rilevare le attività al dettaglio in crisi. Al nord, come al sud, senza distinzioni. Quando Giovanni Falcone parlava di “buona economia” auspicava un sistema economico dove i poteri criminali fossero combattuti anche con le buone leggi. Se si favorisce l’uso del contante, non si va nella direzione giusta.

Twitter @beniapiccone