Non basta un super-ministero a sciogliere i nodi della transizione ecologica

scritto da il 22 Febbraio 2021

L’autore del post è Enrico Mariutti, ricercatore e analista in ambito economico ed energetico. Founder della piattaforma di microconsulenza Getconsulting e presidente dell’Istituto Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG). Autore di “La decarbonizzazione felice” 

Quando giovedì 10 febbraio è trapelata la notizia che il presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi era intenzionato ad accorpare alcune deleghe del Ministero dello Sviluppo Economico a quello dell’Ambiente, dando vita a un super Ministero della Transizione Ecologica. Greenpeace, Legambiente e WWF hanno salutato l’annuncio come una svolta epocale nella strategia ambientale italiana.

Al di là del valore simbolico, però, è difficile credere che basti istituire un nuovo ministero per sanare le contraddizioni tra sviluppo ed ecosostenibilità.

Vediamo le principali.

1) L’energia rinnovabile è molto più costosa di quella fossile
Da anni ci sentiamo ripetere che le energie rinnovabili stanno diventando competitivi ai prezzi di mercato è più recentemente c’è anche chi sostiene che siano diventate più economiche dei fossili. In realtà nel 2019 impianti eolici e fotovoltaici hanno ancora costi di produzione compresi tra il doppio il triplo rispetto agli impianti tradizionali a gas o a carbone.

Dati: IRENA

Dati: IRENA

Oltretutto, dopo essersi dimezzati in pochi anni all’inizio dello scorso decennio, i costi di produzione sembrano assestarsi, come avviene per qualsiasi tecnologia matura. Quindi aspettarsi ulteriori ribassi significativi nel prossimo futuro è del tutto irragionevole (anzi, nel 2020 il prezzo dei pannelli fotovoltaici è iniziato a salire).

Dati: IRENA

Dati: IRENA

Ma se al costo di produzione andiamo ad aggiungere le cosiddette esternalità negative, quindi le inefficienze e i costi di adeguamento della rete, gli oneri correlati all’intermittenza e i costi legati al prepensionamento delle centrali termoelettriche, scopriamo che l’energia rinnovabile costa quasi 10 volte i prezzi dell’elettricità all’ingrosso.

Dati: IRENA (costi di produzione), OCSE (costi di integrazione = backup, sovraproduzione), UK Energy Research Centre (adeguamento della rete), NREL (Ammortamento/sottoutilizzo delle centrali termoelettriche), Fondo Monetario Internazionale (costi sociali della CO2), EEA (costi sociali e sanitari dell’inquinamento), Commissione Europea (carbon pricing)

Dati: IRENA (costi di produzione), OCSE (costi di integrazione = backup, sovraproduzione), UK Energy Research Centre (adeguamento della rete), NREL (Ammortamento/sottoutilizzo delle centrali termoelettriche), Fondo Monetario Internazionale (costi sociali della CO2), EEA (costi sociali e sanitari dell’inquinamento), Commissione Europea (carbon pricing)

Di fatto, perciò, questa è la prima transizione energetica nella Storia in cui l’umanità passa da una fonte energetica più economica a una nettamente più costosa, in contraddizione con qualsiasi definizione possibile di sviluppo.

2) La transizione energetica farà esplodere le disuguaglianze nelle economie avanzate
Il prezzo dell’energia non è proporzionale al reddito di chi la acquista, perciò è chiaro che gli aumenti penalizzano il ceto medio e i meno abbienti. In California per esempio, uno degli Stati più ricchi e più green del mondo, i continui rincari hanno spinto un sesto della popolazione verso la povertà energetica (quella condizione per cui un nucleo familiare spende più del 10% del proprio reddito in bollette). Un paradosso per uno Stato dove il reddito medio di una famiglia è 120.000 dollari l’anno.

E anche l’Europa marcia nella stessa direzione. Negli Stati che stanno procedendo a tappe forzate verso il paradigma 100% rinnovabili i prezzi dell’elettricità schizzano sotto il peso delle tasse destinate a finanziare la decarbonizzazione del settore energetico.

Dati: Eurostat

Dati: Eurostat

Se ci spostiamo sul fronte dei trasporti la musica non cambia. Anche il prezzo dei carburanti non è proporzionale al reddito di chi li acquista, quindi quando aumentano le accise i primi a pagare sono i pendolari. Non solo, se andiamo ad abolire i famigerati sussidi ai combustibili fossili, come ha fatto la Francia di Macron, a scendere in strada non sono i petrolieri ma gli autotrasportatori e gli agricoltori, categorie che, di norma, hanno redditi ampiamente al di sotto della media.

Per di più cerchiamo di tenere a mente, come ricorda Massimo Nicolazzi, professore di Economia delle fonti energetiche all’Università di Torino, che ogni sistema energetico è composto da una fonte e da un trasformatore: la legna ha bisogno di una stufa, la benzina di un motore etc. Quando parliamo di energia rinnovabile ci concentriamo sempre e solo sulla fonte ma, in un mondo 100% elettrico, dovremo cambiare miliardi di trasformatori: motori a combustione, caldaie, fornelli e milioni di impianti industriali. Pagheranno gli Stati? Forse i più ricchi finanzieranno la riconversione delle infrastrutture strategiche ma per il resto ciascuno dovrà fare da sé: chi non avrà i soldi per sostituire la vecchia utilitaria a benzina o diesel con un’auto elettrica (e annessa infrastruttura domestica per la ricarica) rimarrà senza macchina. E lo stesso vale per gli imprenditori.

Anche qui: prospettive inconciliabili con qualsivoglia definizione di sviluppo.

3) Le energie rinnovabili non sono una rivoluzione industriale
Il 20 dicembre 1990 nasce il primo sito web. Dieci anni dopo le connessioni Internet sono già 400 milioni, oggi – a 30 anni di distanza – sono 4 miliardi.

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Certo, i capitali iniziali, quello che in gergo si chiama il venture capital, ce l’hanno messi il Dipartimento della Difesa USA, intravedendo le potenzialità strategiche dell’Information Technology. Ma quasi subito il business è decollato sulle sue gambe, anzi, chi ricorda la bolla della New Economy ricorderà anche l’entusiasmo irrazionale che si era sviluppato intorno a Internet, sembrava quasi che l’umanità avesse trovato la panacea tecnologica.

Le rinnovabili, al contrario, sono un pozzo senza fondo: dopo 40 anni e più di 1.000 miliardi di finanziamenti pubblici ancora non si vede la luce, l’eolico e il fotovoltaico rappresentano meno del 3% del paniere energetico mondiale.

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Non solo. Dopo tutto questo tempo si fa strada il dubbio che il re delle energie rinnovabili, il fotovoltaico, non funzioni poi tanto bene.

Negli ultimi anni sono uscite decine di articoli scientifici su testate del calibro di Nature Energy che dimostrano come l’energia fotovoltaica sia molto meno produttiva di quella fossile: in poche parole, ogni barile di greggio destinato all’estrazione di altro petrolio produce in 6/18 mesi un output di 20/40 barili mentre ogni MWh di elettricità destinato alla produzione di energia fotovoltaica restituisce in 25 anni 4/6 MWh. Addirittura, alcuni recenti studi (Energy Strategy Reviews, 2019) dimostrano che in aree a media insolazione come la Svizzera, la Gran Bretagna, la Germania ma anche il Nord Italia, gli impianti fotovoltaici non sono fonti di energia, nel senso che dopo 25 anni non restituiscono neanche l’energia impiegata per costruirli e installarli.

4) In nome della lotta al cambiamento climatico rischiamo di creare centinaia di milioni di nuovi affamati in tutto il mondo
Se sul fronte interno le ripercussioni sociali della transizione ecologica sono drammatiche, sul fronte internazionale sono devastanti.

Innanzitutto, ci si scontra con un problema strutturale: gas e petrolio sono fonte di rendite per decine di Paesi in via di sviluppo. La Nigeria, per esempio, finanzia il 75% della spesa pubblica con i proventi dell’industria petrolifera. E parliamo di un Paese grande una volta e mezza la Francia ma con 200 milioni di abitanti, che tra trent’anni saranno 400 milioni.

schermata-2021-02-21-alle-19-23-29Nel mondo ci sono intere regioni, dal Medio Oriente all’Asia Centrale, in cui il benessere e la stabilità sono legate indissolubilmente alle rendite energetiche. Solo in Africa l’economia del petrolio sovvenziona welfare, sanità e istruzione per almeno mezzo miliardo di persone.

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Poi, più nello specifico, ci sono altri due nodi problematici: la decarbonizzazione del settore agricolo e il protezionismo verde.

La strategia agroalimentare europea, Farm to Fork, vuole ridurre drasticamente l’utilizzo di fitofarmaci (50%), fertilizzanti (20%) e antibiotici a uso animale (50%) nel Vecchio Continente, oltre a destinare il 10% della superficie agricola a impieghi non produttivi e a traghettare l’agricoltura biologica dal 7,5 al 25% della produzione agricola europea.

Chiaramente si tratta di misure che mirano a migliorare la qualità e l’ecosostenibilità della produzione agroalimentare europea, a scapito della quantità però.

Il Ministero dell’Agricoltura americano (United States Department of Agriculture) ha stimato l’impatto della politica agroalimentare europea sul mercato delle commodities alimentari, arrivando a risultati sconcertanti: Farm to Fork farà lievitare i prezzi delle derrate alimentari del 10% a livello globale, condannando alla fame 20 milioni di persone in tutto il mondo.

Ancor più spinosa è la questione del cosiddetto protezionismo verde.

Da anni, infatti, l’Unione Europea sta improntando la sua politica commerciale all’ecosostenibilità. Questo si traduce in diktat nei confronti dei Paesi in via di sviluppo, che vedono nell’Europa un mercato di sbocco imprescindibile, e in barriere doganali nei confronti di prodotti che non rispettano gli standard green europei. Per esempio, l’arbitraria messa al bando dell’olio di palma (l’impatto ambientale della monocoltura di palme è indiscutibile ma non esistono analisi dell’impatto ambientale dei sostituti) colpirà duramente l’economia di molti Paesi, soprattutto nel sud-est asiatico. E, dall’Indonesia alla Malesia, passando per il Brasile, si moltiplicano le accuse di colonialismo. Persino il Financial Times ha bollato questo approccio come “Europe First”, associandolo sarcasticamente alla politica commerciale dell’America di Trump.

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Perciò, nel complesso, se sommiamo gli effetti del prosciugamento delle rendite energetiche, dell’aumento del prezzo delle commodities agricole e del protezionismo verde, vediamo bene che il paradigma dell’ecosostenibilità si abbatterà come uno tsunami sui Paesi in via di sviluppo.

5) Distruggere l’ambiente per riparare il clima è una pericolosa illusione
La furia purificatrice nei confronti dei combustibili fossili ci ha fatto perdere di vista che almeno un terzo di quello squilibrio di gas in atmosfera che determina il cambiamento climatico non è correlato a fenomeni di combustione ma alla deforestazione, alla desertificazione e ad altri processi che nulla hanno a che fare con i combustibili fossili ma, più in generale, sono legati al fabbisogno di altre materie prime, dal cibo ai metalli.

Come già approfondito sia su Econopoly sia sul Giornale dell’Ordine dei Biologi, per produrre miliardi di batterie, centinaia di chilometri quadrati di pannelli fotovoltaici e migliaia di turbine eoliche grandi come la Tour Eiffel, dovremo moltiplicare il prelievo di risorse naturali dall’ecosistema. E questo comporterà, inevitabilmente, un inasprimento della crisi ambientale.

Il peggior incidente della Storia dell’industria petrolifera è stato quello avvenuto una decina di anni fa nel Golfo del Messico. Da una piattaforma petrolifera, Deepwater Horizon, fuoriuscirono 400.000 tonnellate di greggio, un disastro ambientale per cui la British Petroleum è stata condannata a pagare 65 miliardi di dollari di danni alle comunità locali.

Uno dei peggiori incidenti minerari degli ultimi decenni, invece, quello della miniera di rame di Ok Tedi, in Indonesia, ha comportato lo sversamento in mare di circa un miliardo di tonnellate di materiali tossici che, prima di arrivare all’Oceano Pacifico, hanno devastato 300.000 ettari di foresta pluviale, un intero bacino fluviale e decine di villaggi (almeno 30.000 abitanti). Per inciso, la compagnia mineraria è stata condannata a risarcire le comunità locali con 29 milioni di dollari.

Perciò, nonostante siano i combustibili fossili ad essere sotto i riflettori, non dobbiamo illuderci che la filiera del litio, del rame o dell’alluminio siano più ecosostenibili, anzi.

In conclusione
Insomma, uno scenario da far tremare le vene ai polsi, soprattutto in un momento storico come questo, che ci ha ricordato quanto sia difficile governare i fenomeni complessi.
L’auspicio, perciò, è che l’Italia di Mario Draghi inizi finalmente a sviluppare il prerequisito fondamentale per una transizione ecologica sociosostenibile: una visione in grado di abbracciare la complessità del tema, trasformandola in un nuovo modello di sviluppo.
L’opinione pubblica si è accorta del problema, il tempo degli slogan a effetto è finito, adesso serve un piano che vada oltre le suggestioni.