La zoom fatigue fa male al corpo e all’ambiente: da Stanford 4 soluzioni

scritto da il 11 Maggio 2021

Zoom fatigue identifica l’insieme di sintomi negativi dovuti ad un utilizzo eccessivo di interfaccia virtuali per riunioni di lavoro o anche sociali e familiari. È un termine moderno nato con la pandemia, in risposta alle necessità di distanziamento fisico e sociale.

Il tempo trascorso utilizzando piattaforme di chat video è infatti tanto aumentato da iniziare a vederne gli effetti avversi in termini di affaticamento psichico e fisico. Si tratta di aspetti sostanzialmente riconducibili all’adattamento alla riduzione della distanza tra vita pubblica e privata (per il ricorso allo smart working), al time lag comunicativo (lo strumento virtuale toglie fluidità al dialogo), oltre che al rischio di disturbi oculistici o posturali, fino al pericolo di reclusione sociale (o sindrome Hikikomori).

Dati record, fino a 5,5 miliardi di videochiamate entro il 2025

La diffusione della zoom fatigue poggia sul numero di utenti iscritti ad un servizio di video chiamate che, nel 2020, è aumentato di 600 milioni, raggiungendo la dimensione record di 1,8 miliardi e un incremento del 50 per cento rispetto al periodo precedente. In proposito si stima entro il 2025 il raggiungimento della cifra di 4,5 miliardi di utenti e di 5,5 miliardi di chiamate (dati Juniper Research, 2020), con un nocumento anche di tipo ambientale.

L’analisi dell’impronta climatica delle attività on-line mostra infatti che un’ora di video conferenza equivale ad un’emissione di anidride carbonica da 150 grammi ad un chilo, richiede da 2 a 12 litri di acqua e consuma una superficie di terra pari alle dimensioni di un iPad Mini, ma solo tenendo la video camera spenta durante una call se ne riduce l’impatto fino al 96 per cento (dati Purdue e Yale University e MIT-Massachussetts Institute of Technology).

Complessivamente si stima che le attività digitali inquinino più dell’intera industria aeronautica con il 4 per cento delle emissioni gas serra contro il 2,5 riconducibile al trasporto aereo (dati ong Shift Project).

Più colpite le donne, anche in assenza di disturbi pregressi e con rischi di burn-out

Alle ripercussioni ambientali si aggiunge quindi la zoom fatigue e, secondo l’analisi del VHIL di Stanford, i principali problemi psico-fisici dipendono dall’intensità del contatto visivo che assume una dimensione eccessiva, dalla possibilità (innaturale) di vedere se stessi per tutto il tempo, dall’immobilità protratta che si ripercuote negativamente sul benessere cognitivo, dal carico cognitivo necessario a interpretare o amplificare gesti e spunti non verbali (gesti percettibilmente realistici ma magari socialmente privi di significato perché riferiti al contesto casalingo dell’interlocutore).

Secondo le analisi di Barello et al. (2021), questi disturbi psicosomatici non sono associati a problematiche pre-esistenti (nel 90 per cento dei casi gli intervistati dichiarano buone condizioni di salute pregressa) e non comportano necessariamente una diminuzione del coinvolgimento e della dedizione al proprio lavoro, anche se una cronicizzazione degli stati di affaticamento ha come deriva il fenomeno del burn-out.

Risulta invece che ne sono colpite più le donne rispetto agli uomini (14 per cento contro 6 per cento), come mostra l’elaborazione in termini di genere realizzata da The Economist a partire dai dati raccolti da Fauville et al. (2021) su un campione di oltre 10.000 individui.

 

Zoom Fatigue - The Economist

4 soluzioni fai da te in attesa di linee guida istituzionali

Per trovare metodi adattivi e guidare una progettazione migliore è in corso il progetto di ricerca Bailenson et al. (2021) per definire una scala zoom exhaustion & fatigue, suggerire cambiamenti di interfaccia e fornire ai consumatori e alle organizzazioni suggerimenti per un utilizzo delle funzionalità attuali allo scopo di ridurre l’affaticamento durante le videoconferenze.

Organizzazioni di vario tipo, tra cui scuole, grandi aziende ed enti governativi, sono interessate infatti a comprendere come gestire le proprie video conferenze in modo ottimale, identificando le migliori pratiche possibili a partire dalle peculiarità delle videoconferenze realizzate quotidianamente ed isolare così delle linee guida istituzionali.

Intanto dai ricercatori di Stanford vengono fornite 4 soluzioni fai da te per tutti (come ridurre le finestre rispetto al monitor, nascondere l’auto-visualizzazione, utilizzare una fotocamera o una tastiera esterna o adottare pause “solo audio”) e la possibilità di misurare il proprio livello di zoom fatigue attraverso un questionario ad hoc (accessibile da qui).

Semplici domande che aiutano a riflettere sulla sensazione di esaurimento o prosciugamento emotivo e di evitamento di ulteriori attività post-video conferenza possono in effetti guidare a quantificare e ridurre gli elementi stressogeni, per un utilizzo ragionato, consapevole ed efficace di strumenti ormai divenuti d’uso comune. In attesa di iniziative istituzionali che promuovano una corretta igiene del lavoro anche a distanza, oltre a misure di prevenzione e trattamento della zoom o (più largamente) della on-line fatigue.