Squid Game, dove il debito è solo cattivo. Ma è sempre così?

scritto da il 12 Novembre 2021

Gli autori di questo post sono Samuel Carrara* e Andrea Eugenio Ramella** –

Squid Game è il fenomeno del momento. Netflix stima che nel solo primo mese dal suo lancio, la serie TV sudcoreana abbia già registrato circa 150 milioni di spettatori in tutto il mondo. E come ogni grande successo cinematografico e televisivo, il suo impatto sta travalicando i confini degli schermi. Ad esempio, le vendite delle slipper Vans (le calzature indossate dai concorrenti del “gioco del calamaro”) hanno avuto un incremento del 7800%. Netflix – che ha confermato la seconda stagione (anche se la maggior parte delle serie tv coreane durano una sola stagione) – in poche settimane ha incrementato di 19 miliardi il suo valore di borsa. E un po’ ovunque i ragazzi replicano le prove della serie nelle pause scolastiche.

Tra i vari spunti sollevati dalla serie, non possono mancare alcune considerazioni di carattere economico. Del resto, il vero protagonista della serie è il debito.

Facciamo un passo indietro, avvertendo che chi non ha ancora visto la serie potrebbe incappare in un (blando) rischio di spoiler. Un uomo, troppo ricco per provare soddisfazione nella vita, decide di dare una seconda possibilità a persone estremamente indebitate: partecipare ad un non meglio precisato gioco, con la prospettiva di aggiudicarsi una somma talmente ingente da liberarsi definitivamente da tutte le loro pendenze. La tesi del vecchio burattinaio, non particolarmente originale ma tremendamente reale, è che la società è profondamente ingiusta e ineguale. Poche persone possiedono grandi quantità di denaro e al tempo stesso ci sono persone così indebitate che non riescono a pagare le cure per i propri genitori, sostenere l’educazione dei propri figli o semplicemente vivere una vita dignitosa. Questo è quello che viene raccontato ai partecipanti che, mentre giocano, sono oggetto di scherno da parte di VIP che pagano per assistere al macabro spettacolo. Macabro perché ben presto i concorrenti capiranno in che senso essi vengano “eliminati” se non riescono a superare le prove cui via via vengono sottoposti.

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Non stupisce che il debito venga portato sul grande o piccolo schermo. La democratizzazione del credito è infatti una delle cifre del capitalismo contemporaneo. Il debito globale si avvicina ai 300 trilioni di dollari. Questo significa che ogni bambino, oggi, nasce mediamente con un debito di 40mila dollari che gli pende sulla testa come una spada di Damocle.

Le numerose iniziative fintech di BNPL (buy now, pay later) recentemente nate o abbondantemente finanziate (si veda l’ultimo round di Klarna guidato da SoftBank che ha portato il valore della startup svedese a 46 miliardi di dollari) sono solo l’ultimo esempio di un sistema economico che divora la liquidità e che alimenta abitudini di consumo sempre più estreme e veloci. Ma senza scomodare innovativi modelli di business o vorticose startup, il concetto stesso di carta di credito, in definitiva, risponde a questa logica: acquistare beni o servizi con denaro non proprio, con l’accordo di restituirlo ad una scadenza definita.

Ma il debito non è solo privato, anzi. Lo sappiamo bene in Italia, dove da decenni il debito pubblico è il convitato di pietra in qualunque ambito della politica pubblica. Più recentemente, politiche monetarie espansive erano state implementate dopo la crisi del 2008 e oggi, dopo la pandemia, si è nuovamente tornati allo stampare moneta per alimentare la ripresa dell’attività economica.

Se le Banche Centrali non avessero continuato con queste politiche aumentando la liquidità e implementando aiuti statali e incentivi, l’indebitamento pubblico e privato avrebbero avuto effetti devastanti sui costrutti sociali odierni.

In questo contesto, non è assolutamente un caso che Squid Game sia una serie prodotta in Corea del Sud, paese in cui, con significativo contrappasso rispetto al regime della Corea del Nord, il capitalismo si dispiega con molte meno reti di protezione sociale rispetto agli standard europei.

Come scrive Justin Jimenez di Bloomberg Economics, in Corea del Sud i contenuti aumenti salariali e l’aumento del costo della vita hanno costretto le persone a prendere a prestito. E con le prospettive economiche in declino e i tassi d’interesse ridotti al minimo storico durante la pandemia, i giovani coreani si sono indebitati ancora di più per acquistare beni – dalle proprietà immobiliari alle azioni alle criptovalute – scommettendo che la speculazione è l’unica via per avere successo finanziariamente.

Insomma, il debito come gorgo che ti inghiotte e ti porta alla morte. Se dovessimo scrivere questo articolo in tedesco, il titolo sarebbe automatico. Schuld: debito e colpa. Un’unica parola nel dizionario tedesco traduce infatti questi due concetti così distinti. Questo rispecchia una concezione molto chiara di debito, colpa, responsabilità, fardello che è quantomeno sconsigliato portarsi sulle spalle. Del resto, il linguaggio riflette la cultura di un popolo e a sua volta contribuisce a plasmarla (per dire, la mancanza di una traduzione letterale in italiano del termine inglese “accountability” la dice lunga sulla predisposizione nostrana a rispondere delle proprie azioni).

Facciamo però un passo indietro, di circa 800 anni. Siamo così abituati alle dinamiche di credito e debito che può sembrare strano, ma il debito non è sempre esistito, perlomeno nella forma in cui lo concepiamo oggi. Il punto di svolta è avvenuto intorno agli anni venti del XIII secolo ad opera delle associazioni mercantili pisane. Con la crescita del commercio internazionale maturò infatti la necessità di scrivere su carta le quantità di denaro che un individuo o un mercante doveva a un’associazione. Questi memorandi, chiamati instrumentum ex causa cambii, diedero avvio all’economia “di carta” che oggi conosciamo.

Passare dallo scambio immediato di liquidità a promesse di pagamento future è stato un enorme cambio di prospettiva. Prima, comprava chi possedeva in un dato momento dei soldi. Ora invece, con l’apertura delle attività creditizie, capacità e acquisto concreto si scollano e si posizionano su due linee temporali diverse dando la possibilità, anche a chi non può, di sviluppare i propri progetti. Come la relatività di Einstein, le associazioni pisane hanno aggiunto una quarta dimensione, quella temporale, al nostro sistema economico.

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Prendere a credito dei soldi implica due fondamentali: la fiducia del creditore e una progettualità futura del debitore. È proprio il credito il vero acceleratore della società odierna perché permette di anticipare progetti, altrimenti possibili, in un mondo economicamente piatto, solamente anni a venire. Un mutuo permette di acquistare e disporre di una casa adesso, non tra 30 anni. Un prestito permette di lanciare la propria startup ora, non tra anni… o più verosimilmente, mai. Alla base di tutto sta la fiducia: fiducia che l’investimento andrà a buon fine, fiducia che la startup fiorirà, fiducia che il debito sarà ripagato (e con i dovuti interessi).

Quella del debito è una dicotomia dai confini sfumati, dunque. Da un lato prospettiva di vita, dall’altro camicia di forza dagli stretti lacci. Walter Benjamin (pensatore tedesco, non a caso) scriveva “il capitalismo è un culto che non consente espiazione ma produce solo colpa e debito”. E la narrativa degli ultimi vent’anni si è fondata prevalentemente su quest’ultima concezione. Da The Big Short a Squid Game il debito ne è uscito a pezzi.

Una narrativa, peraltro, che si rispecchia anche nelle strategie di finanziamento delle startup. Il capitale di rischio e la conseguente cessione di equity è infatti spesso preferito al capitale di debito. Forse ingiustificatamente? Alla base ci sono reali considerazioni finanziarie e industriali oppure c’è soprattutto una repulsione aprioristica per lo strumento del debito? Condurre un’indagine su questo punto sarebbe di estremo interesse.

D’altra parte, è davvero lo strumento debitorio la radice d’ogni male? Alla fine, la sintesi – tanto semplice quanto efficace – l’ha fatta il presidente del Consiglio, Mario Draghi, che a più riprese è intervenuto in merito alla distinzione tra “debito buono” e “debito cattivo”. Ad esempio, in occasione della presentazione del DEF lo scorso aprile, il premier ha dichiarato: “Il debito buono è quando si danno risorse a una società, in modo che questa riesca a fare riforme tali da diventare autonoma, e iniziare a volare con le proprie ali. Il debito cattivo è fatto di quei sussidi che vengono erogati senza che ci sia un piano industriale“. Ovviamente la declinazione del concetto in quell’occasione era riferita alla finanza pubblica, ma non è difficile compiere lo stesso esercizio sull’iniziativa privata.

C’è debito e debito, dunque, e non necessariamente esso è fonte di condanna e disperazione, come per i poveri concorrenti di Squid Game. Del resto, è noto come la storia di Peter Thiel, co-fondatore di PayPal e guru degli startupper di tutto il mondo, sia cominciata chiedendo prestiti a parenti e amici.

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*Samuel Carrara è scientific project officer presso la Commissione Europea dove si occupa prevalentemente di materiali e catene di approvvigionamento, con un focus particolare sulle tecnologie per la transizione energetica e digitale. Su Econopoly scrive anche dal suo profilo personale

**Andrea Eugenio Ramella ha studiato economia presso l’Università Cattolica di Milano e la SBE della Maastricht University. Appassionato di imprenditoria, venture capital, sostenibilità e marketing, ha sempre lavorato (e probabilmente lavorerà sempre) in startup.