Lotta al cambiamento climatico, la responsabilità è sulle spalle dei sindaci

scritto da il 16 Dicembre 2021

Post di G. Tiziana Gallo, progettista e pianificatrice esperta di rigenerazione urbana, e Gianluca Galletto, managing director (Tech & Innovation Partnerships) della New York City Housing Authority – 

Partiamo da un presupposto. I grandi della terra non stanno decidendo per ridurre veramente la produzione della CO2. Si discute, ci si incontra, si fanno grandi proclami, ma la realtà è che la produzione di CO2 continua ad aumentare inesorabilmente dalla prima COP 1 alla COP 26 come attesta questo grafico.

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Il G20 di Roma non ha dato risultati migliori, se non una vaga risoluzione a mantenere la temperatura sotto 1,5 °C, senza indicare una roadmap e tempistiche definite. In ultimo la decisione da parte dell’Unione europea di inserire nella tassonomia europea di investimenti green anche nucleare e metano.

In sintesi possiamo senza tema di smentite affermare che non sarà certo dai grandi che arriverà la vera risposta ai cambiamenti climatici.

Ma qual è la prospettiva allora?

L’unica prospettiva possibile e più praticabile per ognuno di noi è, non solo, un personale impegno civile in ogni campo coinvolto nel sistema decisionale, a partire dagli economisti fino ai progettisti, per l’incentivazione seria di politiche di sviluppo green, agendo dove veramente c’è il fronte per agire sui cambiamenti climatici, ossia le città e i comuni.

Infatti si parla spesso di PNRR, a volte pare ci si dimentichi che tale piano di investimenti è solo stato aggiunto al piano strutturale di finanziamenti europei 2021-2027, fondato sulle sfide agenda 2030, che puntano alla riduzione della CO2 del 55% entro il 2030 e alla neutralità climatica entro il 2050. Si parla di governi e Unione Europea.

Ma non si dice mai che gli attuatori e destinatari dei finanziamenti sono città e comuni e quindi che le figure veramente centrali in questa vera lotta contro il tempo sono i sindaci.

Perché una cosa deve essere molto chiara a tutti.

SOLDI A DISPOSIZIONE NE ABBIAMO TANTI

750 miliardi di euro per il Next Generation EU orientati a transizione verde e digitale e per quanto riguarda i fondi strutturali europei, come descritto nel grafico qui di seguito, condiviso dal sito della Camera dei deputati:

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Volendo fare un compendio economico totale delle risorse Ue a disposizione per le sfide Agenda 2030 facciamo riferimento a quanto rendicontato dalla centro studi di ricerca del Senato nella seguente tabella:

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Ciò che manca è la capacità di sviluppare progetti in linea con queste sfide dei comuni italiani, in particolare piccoli, in particolare del Sud.

Qui di seguito la mappa delle città metropolitane maggiormente attive nell’uso dei fondi europei 2014-2020

PON FESR CITTÀ METROPOLITANE

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Si va dal colore più chiaro al colore più scuro in ordine crescente nella capacità di attrarre finanziamenti. Incredibilmente Napoli, Bari e le province siciliane risultano aver ottenuto maggiori finanziamenti, e si distinguono naturalmente anche città del nord come Milano, Venezia, Bologna.

Ciò che sconcerta è il quadro generale. Dove non vi è capacità di attrarre investimenti. E parliamo delle città metropolitane.

Appare pertanto evidente che il problema fondamentale è rafforzare i comuni nella loro capacità di generare progetti in grado di rispondere alle sfide europee agenda 2030.

Sono mesi che i comuni italiani attraverso Anci e Ali, stanno ponendo al Governo Italiano il tema della necessità di irrobustire l’organico e la governance dei comuni, snellendo le procedure ma soprattutto permettendo nuove assunzioni di giovani competenti nelle amministrazioni in grado di sostenere la sfida della progettazione green.

Ad oggi vi sono varie indicazioni di volontà in tal senso, in particolare dalla ministra per il Sud Mara Carfagna, ma ancora nessuno stanziamento reale né avvio di assunzioni, mentre invece è in atto una massiccia campagna di assunzioni di tecnici dalle diverse competenze, presso ministeri e regioni, ossia enti di controllo per il PNRR.

È chiaro come questo dimostri una gestione tecnico-burocratica dei fondi PNRR e 2021-2027 e poco orientata all’incentivare sul territorio innovazione e progetti green, col rischio di veder sfumare la “GRANDE OCCASIONE DEL GREEN DEAL” che ci si sta presentando, per impreparazione, causa mancanza di personale competente, delle amministrazioni territoriali dalle provinciali alle comunali ad affrontare tale sfida.

Vi è inoltre un altro fattore.

I comuni soprattutto se organizzati in area vasta, possono generare politiche di sviluppo green molto più innovative di quanto i governi centrali abbiano dimostrato fino a questo momento di poter immaginare e scegliere.

Dove infatti il gas metano e l’energia nucleare vengono inserite nel quadro della tassonomia green della Ue, i comuni, associandosi, possono decidere diversamente nei loro territori e pianificare in tal senso prendendo decisioni nette verso l’innovazione che sia sinceramente sostenibile, ossia:

– Economicamente

– Socialmente

– Ambientalmente

La vera risposta che i comuni possono dare è infatti al zare l’asticella dei loro obiettivi invece di attendere dall’alto le risposte. Sono proprio i sindaci a conoscere meglio la situazione reale dell’Italia in questo momento.

Sull’argomento ho relazionato (l’architetto Gallo, ndr) di recente presso il padiglione Italia della Biennale di Architettura di Venezia con un intervento dal titolo: «Il Piano-progetto-azione: programma Edifici Intelligenti e New European Bauhaus», di cui potete visionare la presentazione.

Numerosi gli esempi italiani di grandi città come Milano, ma anche comuni piccoli come Gradara (PU) e Crispiano (TA) fortemente impegnate in una vera transizione green del proprio sviluppo urbano verso una dimensione carbon neutral.

Interessante a tal fine è anche guardare oltre-oceano e comprendere come sia possibile sviluppare su scala locale politiche e azioni di sviluppo green, anche in presenza di un governo centrale fortemente contrario.

Emblematico da questo punto di vista è quanto attuato da New York durante la presidenza Trump.

Negli Stati Uniti la responsabilità di interventi in campo di sviluppo economico, urbanistica e ambiente sono di competenza degli stati e delle città. Il governo federale però ha un potere di intervento enormemente più grande: 1) potere legislativo e regolamentare per cui può fissare limiti o soglie minime da rispettare nelle rispettive leggi statali e locali, pena il venir meno di trasferimenti; 2) potere finanziario che può dare agli stati ingenti somme per le politiche infrastrutturali ed energetiche.

La Environmental Protection Agency (EPA), per esempio, è un ente federale che scrive regole e ne fa l’enforcement su tutto ciò che attiene alla salvaguardia dell’ambiente e della salute. Per non parlare poi del notevole suo potere di moral suasion.

Con l’arrivo di Trump e della maggioranza repubblicana nel 2016 e l’immediata uscita degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi, questa spinta propulsiva venne meno. Il potere esecutivo federale, pur non potendo legiferare, può cambiare la regolamentazione che applica le leggi e il personale che dirige gli enti come la EPA, e mettere i bastoni fra le ruote alle politiche ambientali.

Washington non può però obbligare stati e città a non andare oltre i minimi richiesti, tranne che per settori specifici in cui vige una riserva di giurisdizione. E infatti, molti di questi sono andati avanti da soli. La California è da tempo uno degli stati più avanzati al mondo in termini di legislazione ambientale. New York pur essendo più interventista della media, era più indietro. Soprattutto rispetto all’Europa. Nel corso degli ultimi 12 anni, con una forte accelerazione data per colmare il vuoto dell’era Trump, lo stato, ma soprattutto la città di New York (New York City), hanno attuato una mole notevole di misure incisive: leggi, fondi, incentivi e multe, e programmi pubblico-privati per la lotta al climate change.

Subito dopo l’uscita da “Parigi” New York City ha promosso una coalizione di città che avrebbero perseguito comunque gli obiettivi dell’accordo per conto proprio. Nel giro di un anno, sono arrivati a 300 membri e poi cresciuti oltre 500.

In pratica, dal 2017 tutti gli edifici pubblici e qualsiasi contratto della città con aziende private avrebbero dovuto rispettare gli accordi di Parigi. Teniamo presente che gli edifici pubblici e para pubblici che fanno capo in modo diretto e indiretto al comune sono migliaia e fra questi vi sono tutte le scuole pubbliche, 12 grandi ospedali, la City University of New York (CUNY) che ha 24 college. Inoltre, la Grande Mela possiede una flotta di migliaia di automezzi, dai camion per la raccolta rifiuti, al parco auto di polizia e pompieri, altri automezzi a fini di manutenzione. Molte altre città hanno simili raggi di azione anche se su scala ridotta. Insomma, l’impatto non è banale. Pensiamo a cosa significherebbe se la totalità delle municipalità aderissero. I risultati sarebbero simili ad un’applicazione nazionale.

Gli Stati Uniti, contrariamente alla vulgata prevalente, sono stati dei pionieri nella legislazione ambientale, in particolare durante la presidenza Carter (che proponeva pannelli solari nel ‘76). È quasi scioccante vedere filmati e leggere la stampa di allora che parlava di ambiente come ne parliamo oggi. Era la risposta alla crisi da smog da automobili. Il primo Clean Air Act è del ‘63, aggiornato massicciamente nel 1970. Il convertitore catalitico, brevettato negli USA nel ‘56, divenne obbligatorie per le auto nel ‘75. GM fu la prima a produrre, ma senza prima averle ostacolate per anni, insieme con le altre tre grandi case automobilistiche.

Tornando a New York, una forte attenzione all’ambiente è iniziata col sindaco Bloomberg che ha creato il Mayor’s Office of Sustainability, e promosso il piano strategico di resilienza a lungo termine chiamato PlaNYC nel 2007. Il vero punto di svolta si ebbe con l’uragano Sandy del 2012 che fece danni per 12 miliardi, morti e devastazione di molte zone costiere (New York è città di mare e fiumi, costruita su tre isole).

De Blasio ha continuato sulla stessa linea, aumentando di molto la scala e l’ambizione degli interventi.

In concreto, New York, sia con decisioni esecutive (del sindaco) che con leggi (del consiglio) ha posto limiti sull’uso di combustibili fossili, accelerato il cronoprogramma di riduzione delle emissioni da parte degli edifici (che rappresentano 2/3 delle emissioni), investito in una serie di programmi di efficientamento energetico e costruzione di impianti di rinnovabili e sostenuto in maniera notevole la crescita di un ecosistema di aziende tecnologiche nel campo dell’innovazione urbana o “Urban Tech”. Lo stato ha fatto interventi simili ma più blandi perché politicamente più dipendente dal settore del real estate. Il che conferma che la volontà politica è in ultima analisi il motore principale, ma non necessariamente al livello centrale. Il sindaco de Blasio è arrivato persino a far causa alle grandi aziende petrolifere per danni alla salute.

Fra le varie misure adottate, ha ingrandito il Mayor’s Office of Climate and Sustainability diretto da uno “zar” dell’ambiente, istituito l’ufficio del Chief Technology Officer e ha potenziato PlaNYC, divenuto One NYC. In questo piano, oltre alle aree di intervento originarie – terreno, acqua, mobilità, energia, aria e cambiamento climatico – sono stati aggiunti come obiettivi alcuni a sé stanti: la salute, l’equità sociale, l’economia inclusiva e formazione per la crescita del settore green. L’ultima versione prevede investimenti per 280 miliardi entro il 2050.

Il piano viene aggiornato ogni 4 anni e richiede uno sforzo multi-dipartimentale di 8-9 mesi e ha obiettivi quantitativi da raggiungere con un cronoprogramma, un monitoraggio dei progressi avvenuti o meno e una serie di obblighi. Esso si fonda sul co-investimento, per cui dal pubblico arriva il 10-20% delle risorse e il resto dal privato. Fra i vari interventi ci sono stati i rafforzamenti delle zone costiere, una mappatura capillare di tutto il territorio con identificazione dei rischi di inondazioni o di altro tipo, la mappatura delle isole di calore eccessivo. Si è avviato un grande aggiornamento dei sistemi di gestione dei servizi cittadini (la rete fognaria e lo smaltimento di rifiuti resi smart), l’utilizzo massiccio di dati e di open data (la città ha uno dei maggiori e più aperti contenitori di open data al mondo), lo sviluppo di “green roofs” e di “urban farms” nei parchi o nei complessi di case popolari.

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Nel 2019 è arrivata prima una legge statale, il NY Green New Deal con i seguenti obiettivi: 100% di energia rinnovabile nel 2050, rendere lo stato un hub di impianti eolici offshore, riduzione delle emissioni del 40% entro il 2030 e 80% nel 2050 su base 1995. Ma è la città che va veramente a colpire il problema: nello stesso anno approva il Climate Mobilization Act – dopo una lunga battaglia col settore del real estate, il potere più forte della città – il quale include la Local Law 97, che impone a qualsiasi edificio con superficie superiore a 2.400 m2 (il 65% dello stock totale) di ridurre le emissioni del 40% entro il 2030 e dell’80% entro il 2050, su base 2005. Inoltre impone alcuni obblighi a partire dal 2024. Si tratta di una serie di obiettivi obbligatori senza precedenti.

Fra le altre misure ci sono: 110 milioni per la costruzione di un impianto eolico offshore, l’impegno a rendere tutte le operazioni dell’amministrazione statale e cittadina al 100% pulite entro il 2015 con un investimento Stato-CIttà-Privati di 8 miliardi per creare nuova infrastruttura di produzione e trasmissione che coinvolge anche il Canada.

Pochi giorni fa il Consiglio ha varato una legge che vieta l’uso di gas naturale per tutti i nuovi edifici a partire dal 2024. Da ricordare anche il NYC Retrofit Accelerator che sostiene i proprietari degli edifici che avviano azioni di efficientamento energetico (una cosa simile al super bonus ma A livello statale un ruolo chiave lo svolge NYSERDA (New York State Energy Research and Development Authority) che gestisce programmi di R&D, prototyping e finanziamenti speciali in campo energetico.

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Gli interventi sono molti e impossibili da elencare qui. Vale la pena ricordare l’impegno iniziato una decina di anni fa di creare un ecosistema avanzato di Innovazione Urbana, fatto di incubatori, acceleratori, studi e hub per testare nuove soluzioni cui partecipano tutte le università, molte grandi aziende, venture capitalist e imprenditori tech. Si tratta in molti casi di public-private partnership come UrbanTech NYC in cui il pubblico mette a disposizione spazi inutilizzati e un un po’ di fondi necessari per l’avviamento, la possibilità di eseguire progetti pilota e sviluppare soluzioni che l’amministrazione poi può comprare o quanto meno testare. Ma il “grosso” proviene da imprese private. Lo scopo è di far crescere settori del futuro che possano allo stesso tempo fornire soluzioni alla città, creare “capacity” e quindi nuove opportunità di lavoro, rendendo la città stessa un enorme lab vivente (vedi per esempio il programma NYCx gestito dal Chief Technology Officer.

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La NYC Energy & Water Performance Map, disponibile a questo link

Fra queste, un’interessante opportunità per le università e centri di ricerca italiani, in collaborazione con sviluppatori/investitori e il Center for Climate Solutions che sorgerà su Governor Island (isolotto tra Manhattan e Brooklyn).

Per concludere, è chiaro che la potenza di fuoco di New York è inarrivabile per i comuni italiani. Il punto è però che si possono fare molte cose in scala più piccola e in collaborazione fra comuni. I soldi, come abbiamo visto, ci sono. E sono tanti. Serve visione, volontà politica e competenze. E certamente fra le più importanti riforme che il governo dovrebbe varare ci sarebbe quella degli enti locali, perché possano essere messi in condizioni di fare molto di più e, simultaneamente, una grande operazione di formazione del personale delle pubbliche amministrazioni. Il PNRR pare piuttosto carente in materia e sarebbe necessario investire molto di più su interventi di rigenerazione urbana e riduzione del fabbisogno energetico degli edifici pubblici e privati.

 

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