Garantiti e non garantiti, una riflessione scomoda e qualche proposta

scritto da il 07 Febbraio 2022

Post di Francesco M. Renne, commercialista e revisore, faculty member CUOA Business School, formatore in materie finanziarie e fiscali –

Ne saremmo dovuti uscire migliori, veniva ripetuto. E, in qualche modo, ne siamo comunque (quasi) usciti. Ora, però, si corre il rischio di una frattura fra cittadini. Netta, difficile poi da rinsaldare, con ripercussioni sulle scelte future di rappresentanza politica. Non tout court quella, conosciuta e fors’anche retorica, fra ricchi e poveri. E nemmeno quella, più attuale e non ancora metabolizzata, legata agli obblighi vaccinali e di green pass. Tutt’altro. E però meno visibile agli occhi dei più. La frattura che rischiamo ora è quella fra soggetti “garantiti” e no.

Da una parte quei lavoratori, cioè, che subiscono meno (o non subiscono affatto) il rischio di essere licenziati (e a volte nemmeno il rischio della cassa integrazione); essenzialmente dipendenti delle pubbliche amministrazioni e degli organi dello Stato, nonché quelli di grandi aziende che non soffrono (o hanno superato velocemente) la crisi o quelli con stipendi elevati e superiori alla media. E tutti i pensionati, anche, a ben vedere, al netto dei percettori della “minima”. E gli imprenditori proprietari, di quelle aziende, beninteso.

Dall’altra, i lavoratori non garantiti: i dipendenti delle micro e piccole aziende, gli stagionali e i lavoratori a termine; forse ancor più dei loro datori di lavoro. E, certo, anche questi ultimi; micro, piccole (e a volte medie) imprese in crisi, autonomi partite IVA e professionisti, ovviamente. Non tutti, invero, fra questi; ma molti, di questi. La questione che voglio porre non è in sé (solo) politica, bensì piuttosto (e soprattutto) economica.

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Piccolo è bello, si diceva una volta; ma piccolo è davvero bello? La mancanza di un sistema generalizzato di tutele (si pensi all’attualità della questione legata alle tutele nei casi di malattia e/o impedimenti di salute al lavoro, per i professionisti e gli autonomi, solo recentemente – e tardivamente – normata solo per alcune situazioni) e la oggettiva minore reattività agli shock economici, così come alle situazioni di ripartenze veloci, connaturata alle caratteristiche strutturali delle micro-attività e delle piccole imprese, impongono un ripensamento di quello slogan. Rassicurante, forse, ma inattuale.

Le statistiche sono impietose. Alle micro e piccole imprese è associato un livello inferiore di produttività del lavoro e di contributo all’export, che invece sono ai vertici europei per le nostre imprese maggiori e costituiscono entrambi fattori caratterizzanti la nostra economia. A ciò si aggiunga tanto la selezione avversa nell’accesso al credito, anche legata a fattori dimensionali, dovuto alle regole di vigilanza necessarie alla tutela del sistema finanziario, che il basso livello di investimenti in innovazione, legato a tale composizione del sistema economico. Per dire, in ricerca e sviluppo, pubblica e privata, siamo all’1,20% del Pil, contro il 3% della Germania, il 2,2% della Francia e l’1,35 della Spagna. E il rischio dell’essere “piccolo” – che non vuol dire “non esistere”, ma “strutturarsi meglio” per crescere (e vale anche per il mondo delle professioni) – non paga; né per il sistema-Paese e né per gli stessi imprenditori autonomi, senza effettive tutele.

Quale modello per poter competere come economia e quale strada seguire per essere costruttivi e migliorare la situazione? Cosa si potrebbe fare, pragmaticamente? O, certo, almeno cosa si potrebbe proporre all’attenzione dei decisori pubblici, da queste colonne? Intanto, tornando al punto iniziale della frattura fra garantiti e non garantiti, occorrerebbe introdurre dei meccanismi di perequazione del reddito dai primi ai secondi. Siccome però a chi scrive non piacciono affatto le misure coercitive, men che meno di natura fiscale straordinaria (le patrimoniali periodicamente evocate qua e là), si potrebbe pensare a un meccanismo volontario premiale.

Ovvero, per spiegare, la creazione di un fondo pubblico di perequazione, formato da un lato con dotazione di risorse pubbliche (nel rispetto delle disponibilità di bilancio) e dall’altro con versamenti volontari resi deducibili fiscalmente dal reddito. Solidarietà privata, dunque, che si aggiungerebbe a quella pubblica, ma premiata con minore tassazione.

Poi, sarebbe possibile pensare all’introduzione di due regimi di premialità fiscale, uno legato alla crescita delle imprese e il secondo alla tutela occupazionale connessa.

Il primo – nei casi di aggregazioni, fusioni, apertura al mercato dei capitali, accesso a finanziamenti-attestati destinati a nuovi investimenti – attraverso l’introduzione di una dual income tax, cioè un’aliquota fiscale fortemente ridotta, in luogo di quella ordinaria, solo sui redditi aggiuntivi derivanti dall’operazione agevolata intrapresa.

Il secondo, nei casi di crisi aziendali, tramite un rinvio dei pagamenti delle imposte – che resterebbero dovute – condizionato al mantenimento dei livelli occupazionali nelle procedure di composizione negoziata, ristrutturazione e risanamento delle imprese; una sorta quindi di subordinazione delle imposte (da pagare) al costo del lavoro (livelli da mantenere), che – a risanamento riuscito – verrebbero comunque ripagate ratealmente.

Sì, tecnicamente, si potrebbe fare tutto questo. Sicuramente anche altro. Fors’anche di meglio, presumo. Ma di sicuro, non certo “aspettare” passivamente ciò che accadrà, pena veder acuire quella frattura paventata e, a tutti i costi, da evitare.