Il business della vita eterna in Terra, che mondo sarà per i (pochi) giovani?

scritto da il 14 Marzo 2022

L’autore di questo post è Andrea Ciucci, PhD in filosofia contemporanea, prete cattolico, ufficiale della Pontificia Accademia per la Vita. Lavora sui nessi tra antropologia, etica ed esperienza religiosa, con particolare riferimento alle nuove tecnologie, alla comunicazione, alla condizione giovanile e familiare, al cibo. I suoi libri migliori sono per bambini. Twitta come @donciucci –

In passato la vita eterna era un business riservato ai miei colleghi, che gestivano tale possibilità in un complesso combinato disposto tra promesse divine e rigorosa moralità. Non più.

Con una certa regolarità appaiono notizie che presentano serie ricerche scientifiche (e conseguenti cospicui finanziamenti) dedicate al conseguimento della vita eterna da parte della razza umana nei prossimi decenni, grazie allo sviluppo di tecnologie che, progressivamente, lasciano l’ambito della fantascienza per abitare il campo delle possibilità da verificare e perseguire. L’ultimo, in ordine cronologico, è un articolo su Tech Times intitolato esattamente: Vuoi vivere per sempre? Come la tecnologia può aiutare a farlo (quasi) accadere. La portata scientifica della questione appare subito rilevante se si digita “human immortality” nel prestigioso database Pubmed. Anche il Sole24Ore si è occupato qualche tempo fa del tema con un pezzo di Enrico Marro intitolato La nuova sfida della Silicon Valley: l’immortalità umana.

Queste notizie sono meno banali di quanto si possa pensare e meritano più di una riflessione, anche in campo economico.

La prima considerazione può sembrare ovvia, ma aiuta a precisare il campo e intuire qualcosa di come siamo fatti. Ogni titolo o notizia che fa riferimento alla vita eterna è falso e menzognero, al contempo intrigante quanto ogni riuscita operazione di marketing. In realtà si tratta sempre di tecnologie che possono allungare in modo significativo (il limite che spesso appare è quello di 120 anni) l’esistenza delle persone. A meno di iniziare a pensare la vita umana in modo più ampio rispetto alla fisicità dei corpi, e immaginare un perdurare dell’esistenza personale grazie ad archivi digitali capaci di custodire e perpetuare l’intera esistenza di ogni persona, anche permettendo una qualche forma relazionale. (No, non è uno scenario fantascientifico alla Black Mirror, che sul tema dedicò i due magnifici episodi San Junipero e Be Right Back. Basti vedere la notizia sul brevetto Microsoft per uno chabot che permette di parlare con i propri defunti). In entrambi i casi non possiamo fare a meno di registrare che un certo desiderio di eternità abita indelebilmente il cuore e le menti degli umani (i miei colleghi ci avevano visto giusto già diversi millenni fa, alcuni intuendo anche la portata economica non banale delle offerte pecuniarie connesse).

jeremy-bishop-ewkxn5capa4-unsplashfoto di Jeremy Bishop per Unsplash

Limitandoci però alla prospettiva di vivere fino a 120 anni, c’è una domanda che merita già ora (stagione in cui i 90 anni sono una prospettiva di molti, almeno in occidente) una certa attenzione, non solo di filosofi o umanisti, ma anche di chi si occupa di economia e dintorni: ora che abbiamo dato 20 anni (e in futuro 40) in più all’esistenza umana, cosa ci facciamo di questo lungo lasso di tempo? Vent’anni per fare cosa?

Il business legato all’anzianità è cresciuto enormemente di pari passo con il fiorire di questa nuova età della vita. Da una parte, vista la progressiva fragilità che caratterizza l’anzianità, è esploso tutto il settore legato alla cura. Il Rapporto Anziani 2021 dell’Istat stima in quasi tre milioni gli anziani in Italia con malattie tali da produrre una media o grave compromissione dell’autonomia. Secondo il Bilancio Cerved 2022 l’assistenza agli anziani è costata alle famiglie italiane 29,4 miliardi di euro, il 21,5% delle spese complessive.

Il mercato connesso alle residenze per anziani, ad esempio, era, prima del Covid, in crescita costante, offrendo un basso rischio e buoni rendimenti con stime per investimenti in nuove strutture per 15-20 miliardi entro il 2035. Marco D’Eramo nella sua indagine su Micromega sulla galassia delle case di riposo per anziani nel mondo parla di un vero e proprio asset di biopolitica. In Italia, l’86% delle strutture per anziani è in mano ai privati.

Al contempo, crescendo il numero di anziani fuoriusciti dal mondo del lavoro ma ancora in buona salute, si è registrato in questi anni uno sviluppo significativo del comparto che mira a offrire servizi per il molto tempo libero dei pensionati. Secondo uno studio della Commissione Europea del 2018 dedicato alla silver economy, gli over 65 hanno speso nel 2015 297 miliardi di euro per il tempo libero e cultura e 248 miliardi in hotel e ristoranti. Nel 2030 il valore del silver tourism avrà registrato un aumento del 169% rispetto al 2010, raggiungendo i 548 miliardi di euro.

Entertainment e cura non sono però sufficienti, soprattutto se il tempo della vecchiaia si allunga fino a occupare un terzo della vita. È umanamente insopportabile ed economicamente insostenibile un’esistenza condotta per decenni solo sul duplice registro del tempo libero e/o del decadimento fisico.

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foto di Peter Conlan per Unsplash

Manca ancora una riflessione sociale ed economica che riconfiguri (in modo adeguato all’età e alle esperienze) la vita produttiva e professionale delle persone anziane. Se il tema viene posto, è quasi sempre in chiave di competizione generazionale, connessa alla spartizione tra vecchi e giovani dei pochi posti di lavoro lasciati liberi da sistemi automatizzati.

Altrettanto povero è allo stato attuale, il pensiero che individui le possibilità di un protagonismo sociale degli anziani vuoi nelle relazioni libere e personali, vuoi nelle strutture sociali intermedie. Davvero non esiste una terza possibilità oltre la vita professionale produttiva e impegnativa e un pensionamento socialmente costoso e deresponsabilizzante, se non noioso?

C’è però una questione ancor più di fondo che merita di essere presa in considerazione, se vogliamo seriamente fare i conti con un mondo in cui molti festeggeranno il secolo di vita. L’aumento dell’età media in una consistente parte della popolazione renderà sempre più manifesto il cambiamento demografico che già oggi registriamo in senso specifico in occidente e, in senso lato, a livello planetario. La popolazione del pianeta, grazie a questo rinvio quasi all’infinito della morte, aumenterà e invecchierà sempre più.

Aumenterà, soprattutto in Asia e in Africa, perché la crescita della popolazione umana cui assistiamo non dipende principalmente dall’incremento delle nascite, bensì dalla (fortunatamente) significativa diminuzione delle morti. E poi invecchierà: quale sostenibilità sociale ed economica avrà un mondo popolato in gran parte da anziani e grandi vecchi? Cosa faranno i pochi (in occidente in senso assoluto, a livello globale in senso percentuale) giovani che abiteranno questo pianeta?

Il tema è certo conosciuto e frequentemente evidenziato, ma non sembra trovare ancora soluzioni capaci di rispondere ad analisi obiettivamente inquietanti. Per questo merita di essere ricordato anche in sede di riflessione sul business della vita quasi eterna.