Non siamo ancora un Paese per startup. Ecco i 3 fattori chiave per farcela

scritto da il 14 Dicembre 2022

Post di Mariano Spalletti, Country Manager Italia di Qonto

L’Italia è un paese per startup? Se guardiamo poco oltre i nostri confini, il confronto appare davvero impietoso. Il numero di unicorni, startup private con una valutazione superiore al miliardo di dollari, nel nostro paese è decisamente inferiore a quello dei nostri vicini. In Italia possiamo contarne 2, mentre in Francia sono già 25 e in Germania 30, ovvero rispettivamente tredici e quindici volte  rispetto alle nostre. Se allarghiamo il volume di controllo e guardiamo anche i cosiddetti “soonicorn” (le startup prossime a tagliare questo traguardo) le cose non cambiano.

Startup in Francia, investimenti 8 volte maggiori

Nello specifico in Francia gli investimenti in startup francesi sono 8 volte più grandi di quelli in startup italiane (nel 2021 10 miliardi di euro contro gli 1,5 miliardi investiti in Italia nello stesso anno). Esistono infatti realtà come “La French Tech“, un ecosistema composto di attori pubblici e privati per mettere insieme competenze concrete per gestire le politiche pubbliche, ma anche quelle necessarie per concretamente concepire, promuovere e finanziare programmi del digitale, il tutto finalizzato alla nascita, accelerazione e crescita internazionale delle startup francesi. La loro sede si trova presso Station F, il più grande campus di startup al mondo, con una massa critica importante di oltre 1.000 startup accelerate.

Un pilastro dell’ecosistema francese infatti sono gli incubatori che le grandes écoles mettono a disposizione degli imprenditori. Il governo francese in particolare gioca un ruolo di primo piano nel supportare lo sviluppo dell’ecosistema di startup, basti pensare che ad inizio 2020 (pre pandemia), Emmanuel Macron aveva fissato l’obiettivo di avere 25 licornes entro il 2025. È stato raggiunto in grande anticipo, malgrado la recessione, anche grazie al piano Deep Tech del 2019 da 2,5 miliardi.

Startup in Germania, investimenti 14 volte maggiori

La Germania è il secondo paese europeo per numero di startup e volume degli investimenti, seconda solo alla Gran Bretagna. Anche qui, se guardiamo gli investimenti in startup, nel 2021 questi ammontano a circa 20 miliardi di euro (14 volte superiori ai nostri 1,5 miliardi citati in precedenza). Particolarmente virtuosa è la città di Berlino, hotspot dell’ecosistema tedesco ed europeo delle startup, che nel 2021 ha registrato un +243% nel volume totale dei finanziamenti, seguita da Parigi (+130%), Londra (+90%) e Monaco, che ha approvato finanziamenti per circa quattro miliardi di euro. Il 2021 è infatti stato un anno di crescita incredibile per il settore delle startup nel paese:

Ma l’Italia non è ferma

E in Italia? Nel nostro paese le cose non sono ovviamente ferme: si attesta infatti a 14.621 il numero delle startup innovative presenti in Italia alla fine del 2° trimestre 2022, dato emerso dall’ultimo report del MISE aggiornato al 1° luglio 2022 e realizzato in collaborazione con Unioncamere, InfoCamere e Mediocredito Centrale. Sono passati appena 10 anni dall’approvazione dello Startup Act nel 2012, il decreto legge che ha dato legalmente vita all’ecosistema italiano delle startup.

Da allora, sono nate sempre più startup innovative e ad alto valore tecnologico, oltre ad una vasta rete di player del mercato, che fornisce strumenti sia economici che formativi. Secondo The Week in Italian Startups, nel primo semestre 2022 sono stati registrati 1,1 miliardi di euro di finanziamenti per le startup italiane. Un dato molto incoraggiante rispetto al primo semestre del 2021, in cui la raccolta era stata di 650 milioni, evidenziando quindi una crescita del +59%.

Il ritardo sul G7 

Come Paese ci stiamo muovendo nella direzione del cambiamento, nonostante ci sia ancora un gap da colmare se guardiamo i grossi numeri. Per esempio è significativo che l’Italia, paese del G7, non sia tra i primi 10 che investono in startup. Ci stiamo muovendo ma dobbiamo ancora fare di più ed è qui che giocherà un ruolo fondamentale l’ecosistema come abilitatore.

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(vegefox.com – stock.adobe.com)

Tre pilastri per fare innovazione: la cultura, le competenze e il regolatore

Con cultura intendo quel mix di iniziative centralizzate volte da un lato a stimolare la voglia di imprenditorialità, evidenziando l’importanza della nascita e della crescita di aziende digitali e tecnologiche ad alto potenziale di crescita come volano per l’economia del nostro Paese, e dall’altro ad inculcare la consapevolezza che sì, fare impresa è complesso e comporta delle responsabilità, ma è al contempo fondamentale accettare la sfida e lasciarsi andare, accogliendo l’idea che il fallimento, soprattutto alla prima esperienza, non solo è possibile, ma è assai probabile, senza che questo debba costituire motivo di vergogna. Non importa se avrai successo al primo tentativo, ma prima ti butti e prima impari.

Servono competenze reali e solide

Per fare impresa servono però competenze reali e solide, le quali altro non sono che il risultato di esperienze concrete. Non è un caso infatti che sia proprio nei paesi più avanzati che nascano il maggior numero di startup di successo, in quanto è proprio lì che i giovani hanno la possibilità di lavorare per scaleup a crescita esponenziale, e vivere dall’interno, sulla propria pelle, vari stadi di sviluppo della startup. È così che si sviluppa il know-how.

Il “playground” per rendere tutto questo possibile è semplicemente moltiplicare il numero di scaleup, ossia di aziende che hanno il mix necessario di velocità di crescita e approccio all’innovazione (dinamismo, flessibilità, unite a pensiero critico e laterale). Se è certamente vero che questo rappresenta piuttosto un punto di arrivo, o comunque il risultato visibile e a regime di un ecosistema che funziona, è altrettanto vero che per arrivare a quel punto è fondamentale partire dalle basi.

Startup, un segreto è l’accessibilità

Questo significa trovare un modo per agevolare e (idealmente) industrializzare il passaggio “da 0 a 1”, e cioè dando modo a chi ha la voglia, il talento ed il carattere per fare impresa, di toccare davvero con mano cosa significhi fare startup e innovazione, dandogli la possibilità di entrare facilmente in contatto con mentore che queste cose le hanno già fatte. Questo prende il nome di accessibilità. Sebbene il numero di incubatori e acceleratori in Italia sia in crescita, siamo ancora molto indietro rispetto a Paesi come la Francia in termini di “facilità di accesso” all’innovazione, intesa come numero e parametri di accesso a programmi di incubazione / accelerazione / mentorship.

Il peso della burocrazia e i tempi della giustizia

Infine, una volta assicurati l’aspetto culturale e l’accessibilità all’innovazione, è fondamentale dare agli imprenditori, soprattutto se a capo di realtà innovative ad alto potenziale di crescita, la possibilità reale di “scalare” (passare “da 10 a 100”, idealmente su nuovi mercati). Il tema è ampio e tocca aspetti che vanno dalla possibilità di testare, a braccetto con il regolatore, certi tipi di innovazioni in ambienti controllati (ad esempio attraverso il Sandbox), a temi più di alto livello riguardanti tematiche che un po’ tutti oggi conosciamo, dal peso della burocrazia (nel “time to comply” siamo tra gli ultimi in UE), ai lunghi tempi della giustizia (un processo civile dura in media 8 anni, quattro volte in più rispetto alla media UE), al diritto societario (limiti di manovra nel passaggio dal piano teorico a quello pratico di aspetti sulla carta nobili, come determinate forme di tutela per investitori di minoranza).

La risorsa numero uno: fondi per investire

Subito dopo le competenze infatti, per far crescere una startup, la risorsa più importante è quella finanziaria: se non ci sono fondi da investire, un business non può essere scalato (o almeno non alla velocità necessaria). Oltre a prevedere stanziamenti crescenti per il Fondo Innovazione per stimolare gli investimenti dei Venture Capital locali, è dunque fondamentale creare i presupposti necessari per risultare attraenti agli occhi di grandi investitori esteri, per conseguire l’effetto moltiplicatore che è di fatto il fine ultimo degli stessi fondi governativi.