Storia (non breve) della ricchezza, di rivoluzioni e di governi onnipotenti

scritto da il 21 Febbraio 2023

“La ricchezza è una delle manifestazioni della rivoluzione che ci ha condotto dal governo di pochi a quello di molti”, dall’oligarchia (ahimé ce ne sono anche oggi) alla democrazia. Anzi: la ricchezza stessa è l’esito di questa rivoluzione. Una rivoluzione permanente”. E però “la crescita disordinata del credito può facilmente generare l’autodistruzione della ricchezza. E quindi diminuire la nostra libertà”.

Queste poche righe comunicano con grande efficacia il senso delle oltre 400 pagine di “La Storia della Ricchezza, l’avvento dell’Homo Habens e la scoperta dell’abbondanza”, edizioni Diarkos, l’ultimo libro di Maurizio Sgroi, giornalista, blogger (ha fondato The Walking Debt) e autore. La sua cifra è la divulgazione dell’economia in chiave di analisi storica e geopolitica, sapiente e rigorosa, come ha dimostrato nei numerosi post scritti nel corso degli anni proprio per Econopoly, ma anche negli articoli per Il Foglio, Linkiesta o Aspenia.

La storia dell’economia e del mondo è riletta con gli occhi di chi, in tempi molto complicati e incerti, non si rassegna alla visione che ha portato il debito e la povertà al centro di tutte le paure dell’Occidente. Così il racconto (Sgroi è un eccellente narratore) si dipana dall’antichità, da Uruk a Roma, dal Medioevo al Settecento. Fino all’800, alla prima globalizzazione, alla “Seconda guerra dei trent’anni” (Prima e Seconda Guerra mondiale) e infine nella seconda metà del secolo scorso all'”età dell’abbondanza” e della conquista dei diritti. Sgroi conta quattro rivoluzioni borghesi e chiude il libro con due pagine dense, il Post Scriptum: Memento Europa.

Cos’è la ricchezza? Cosa ha a che fare con la ricerca della felicità e la conquista delle
libertà politiche? Perché alcune società hanno raggiunto l’età dell’abbondanza e altre no? E come possiamo ragionevolmente aspettarci che la ricchezza cambi il mondo?

Pubblichiamo qui di seguito stralci del capitolo “Rivoluzione, oggi” e una parte del post scriptum.

ricchezza

Ricchi e poveri

La domanda di benessere alimenta quella rivoluzionaria. Perciò l’incremento permanente della ricchezza, al netto del ciclo economico, si è associato a una rivoluzione permanente per colmare i divari fra ricchi e poveri. La diseguaglianza, non a caso, appartiene da sempre al nostro discorso pubblico. Neanche il nostro tempo fa eccezione (Ciocca, 2021). Anche questa è una tendenza che dobbiamo aggiungere alla nostra ricetta per il futuro.

Nelle epoche che abbiamo fugacemente attraversato la diseguaglianza è stata sempre molto elevata esibendo un tasso di estrazione – rapporto fra la diseguaglianza effettiva misurata con l’indice di Gini e quella massima possibile senza far morire di fame le persone – che in alcuni Paesi e in alcuni periodi ha addirittura superato il 100 per cento (Milanović, Lindert, Williamson 2011). La gente infatti moriva di fame. Nell’epoca di Augusto, ad esempio, il tasso di estrazione arrivava al 75 percento, nella Francia prerivoluzionaria poco più del 76, come nell’Olanda della seconda metà del Cinquecento. La ricchezza non era ancora cresciuta tanto da diventare abbondanza.

Oggi sì. Il tasso di estrazione misurato in Italia nel 2000 era del 36,5 per cento, e in Francia addirittura del 31. Purtroppo questo “miracolo” non è successo ovunque. In Brasile il tasso di estrazione del 1872 era pari al 74,2 per cento. Nel 2002 era sceso solo di una decina di punti, fermandosi al 63,4. E questo è uno dei problemi. Chiaramente questi dati sono retti da molte congetture, quindi vanno considerati come semplici indicatori di tendenze, non come verità assolute. Ma confermano che l’età dell’abbondanza è ancora agli inizi.

La buona notizia è che la nostra società opulenta convive malissimo con la povertà. Coltivare questo disagio è un ottimo viatico per elaborare soluzioni capaci di alleviarla. E poiché nel mondo esistono alcuni miliardi di poveri, ciò significa che abbiamo ampi margini di miglioramento.

Ma è difficile dire come migliorare. Molti pensano che basti impoverire i ricchi per arricchire i poveri. Che sia insomma tutta una questione di redistribuzione. Ma davvero basta che il governo prema un bottone? E poi, impoverire i ricchi non rischia di distruggere la ricchezza?

Oggi in sostanza rimane attuale la distinzione fra proletaria- to interno ed esterno (Toynbee, 1950). La nostra società è sottoposta a una pressione duplice. Siamo doppiamente in pericolo. Quindi servirà una doppia dose di coraggio. E di intelligenza.

L’espansione del governo

Un’altra tendenza di lunghissimo periodo è quella che conduce a una costante espansione dell’area di penetrazione del governo nella vita dei suoi governati, per giunta con una dotazione di strumenti mai osservata nella storia.

Abbiamo iniziato ad osservare questa tendenza svilupparsi significativamente a partire dalla seconda metà del XIX secolo, accelerare moltissimo dopo le due guerre globali, e consolidarsi per tutta la terza rivoluzione borghese, dove all’espansione del governo si è accompagnata quella del debito pubblico.

Non certo a caso. Le politiche fiscali e quelle monetarie, specie a partire dagli anni Ottanta, sono cresciute d’importanza, covando più o meno inconsciamente l’idea della loro potenziale inesauribilità. I governi perciò tendono a sentirsi onnipotenti. E i cittadini subiscono questa seduzione.

Questa tendenza ne implica ancora un’altra, antichissima, che addirittura la precede, essendo l’invenzione del governo null’altro che una delle sue manifestazioni: la tendenza all’eliminazione del disagio. Ossia il gemello diverso del benessere.

Il virus dell’emergenza

L’Occidente ha un cuore di tenebra, e dobbiamo sempre ricordarcelo. La nostra forza nella storia è stata quella di associare a questo cuore una mente ragionevole che ha generato il perfetto anticorpo per la tirannide che affligge l’uomo da sempre: l’idea della libertà.

Ma come abbiamo già detto, l’anticorpo contiene il virus. Nel duplice senso che ne contiene lo sviluppo e che al tempo stesso lo incorpora. Perciò siamo costantemente esposti al rischio che il nostro cuore di tenebra prenda il sopravvento, come ci ricordano costantemente i tanti critici della nostra società, che coltiviamo all’interno del nostro seno.

La critica è un elemento fondamentale per il processo – sostanzialmente rivoluzionario – che ha animato i nostri miglioramenti. Ma chi critica la nostra società non dovrebbe limitarsi a esporre il nostro cuore di tenebra. Dovrebbe ricordare anche il resto. Non si dovrebbe solo parlare dei debiti crescenti nel-la nostra società. Si dovrebbero ricordare anche i crediti, per tornare alla nostra storia. Il rischio dell’estremismo è molto elevato, in una società massificata come la nostra.

Il virus della tirannide, per giunta, ha tanti modi per manifestarsi, e muta di continuo. Una delle vie più efficaci che ha trovato per contagiare la nostra società è sfruttare le emergenze, che sembrano riprodursi assai più velocemente di quanto siamo capaci di contrastarle.

Il virus dell’emergenza, che spinge a forzare le regole del gioco democratico, alle politiche straordinarie, all’isteria di massa, è il pericolo più rilevante del nostro presente, specie quando si associa a una dotazione tecnologica senza precedenti per potenza e pervasività. Si può molto facilmente sfruttare il ricorso a questa forma di legislazione per addomesticare masse riottose.

Non è un problema che riguardi solo il nostro tempo. Abbiamo visto come al tempo dei Romani l’agonia della Repubblica, che preparò la tirannide dell’Impero, fu scandita dall’uso massiccio di una legislazione di emergenza (senatus consultum ultimum). Oggi però questo virus viaggia molto più velocemente e ha potenzialità assai più distruttive. Perciò guardare alle emergenze con ragionevole giudizio è una necessaria pratica civica. Oggi più che mai. Senza fanatismo. Ma con una osservazione attenta.

(S)governare con la ricchezza

La terza rivoluzione borghese del secondo dopoguerra realizzò in tutta la sua pienezza di significato, e quindi anche nei fatti, che si doveva (e si poteva) governare una società in espansione usando la ricchezza per produrne di nuova. Fu questa l’origine dei Trenta gloriosi e insieme il viatico che condusse alla loro stagflazionaria conclusione. Per una serie di eventi che è inutile ricordare qui, il meccanismo si inceppò. (S)governando con la ricchezza si generò sfiducia, ossia veleno per la crescita.

La propaganda degli Ottanta, animata da alcuni Paesi e correnti di pensiero, servì a risvegliare gli animal spirit, al prezzo che conosciamo, e la fine della Guerra fredda fece il resto. La fiducia tornò, la crescita pure. I governi trovarono del tutto naturale continuare a fare quello che avevano fatto negli ultimi decenni: distribuire, più o meno sensatamente, risorse.

Oggi questa tendenza si è talmente radicata nella nostra società che risulta addirittura impensabile non associare all’azione pubblica una qualche forma di redistribuzione fiscale. Le società – e il nostro Paese ne è un fulgido esempio – somigliano sempre più ad uccellini nel nido che aspettano a becco aperto la razione, con la politica costantemente impegnata a fornirla.

Governare con la ricchezza ha fatto crescere il rischio di sgovernare la ricchezza. Così come governare con i diritti rischia di mettere in crisi il Diritto. Le crisi finanziarie sono solo un esempio di cosa succede quando si esagera col pedale del credito. Le crisi fiscali facilmente diventano crisi democratiche. Peggio ancora: una popolazione adusa a ricevere dissennatamente viene indebolita nella sua costituzione. Diventa fragile. Facile preda degli illusionisti. È già successo. Può accadere di nuovo.

Post scriptum: Memento Europa

L’Europa di oggi somiglia al Sacro romano impero: una disunità che equilibra le potenze laterali. Un altro gigantesco non-Stato cuscinetto. Questo è il limite massimo che l’espansione geografica, iniziata in Italia, poteva raggiungere, e ormai è stato raggiunto. Ma l’espansione non è terminata. E in questo proseguire risiedono infiniti pericoli.

Una semplice analogia dovrebbe suggerire a noi europei molta prudenza e senso della realtà, mentre lavoriamo “bismarckianamente” alla nostra rivoluzione “antirivoluziona- ria”. L’Europa di domani, qualora dovesse consolidare la sua forma istituzionale, potrebbe somigliare alla Germania del cancelliere di ferro. E un’Europa “germanizzata”, per dirla con Thomas Mann, deve sempre ricordare la propria storia per non commettere per la terza volta il suo errore fatale.

La storia ovviamente non si ripete. Ma il proverbio “non c’è due senza tre” è un ottimo memento mori. Ci ricorda che camminiamo sempre lungo l’abisso della distruzione.

Ci ricorda soprattutto che dobbiamo investire ogni cosa, compresa la nostra ricchezza, faticosamente conquistata, nella creazione di un futuro migliore per sempre più persone.

Questo è il senso, l’unico possibile, della storia che abbiamo raccontato. La nostra Storia.