La scomparsa del lavoro al tempo dei robot: il rebus del welfare

scritto da il 14 Ottobre 2023

Una delle regole del buon giornalismo è fare al politico, al top manager, al personaggio che può prendere decisioni di peso per la comunità, la cosiddetta seconda domanda. Quella scomoda. La domanda che nessuno osa porre. Perché la versione ufficiale, mainstream, per quanto autorevole e documentata, merita sempre di essere messa al vaglio, analizzata, se necessario confutata, provando però a compiere il passo più difficile: trovare una strada alternativa percorribile, saggia, non una trovata estemporanea.

Questo è lo spirito che anima “Robot, lavoratori e contribuenti di domani”*, un libro firmato da Fabio Ghiselli, commercialista, tributarista e docente, nonché contributor di Econopoly, e Luana De Francisco, giornalista del Messaggero Veneto e autrice di Mafia a Nord-Est (2015) e Crimini a Nor-Est (2020).

Che cosa ci aspetta

Il libro si chiede quali sono e saranno le conseguenze di una rivoluzione industriale così dirompente come quella dei robot e dell’intelligenza artificiale. Come affrontare, senza essere demagogici o velleitari, l’evoluzione del mercato del lavoro. E poi, sarà possibile trasformare il vantaggio acquisito da chi utilizza le macchine – invece che dipendenti in carne e ossa – in sostegno al welfare, altrimenti destinato al collasso?

Robot

Per De Francisco e Ghiselli la questione non è semplicemente afferente alla sfera delle scelte politiche dettate dall’avanzata rapida e travolgente della tecnologia. In gioco c’è una visione etica, in particolare della ricerca scientifica. E, va da sé, anche la responsabilità sociale delle aziende.

Un’altra delle questioni affatto secondarie che il libro pone è, per esempio, se il futuro iper-tecnologico non rischi di mettere l’industria davanti all’evidenza di una domanda inadeguata di beni e servizi, dopo l’espulsione di intere categorie di lavoratori. Avremo i prodotti ma non ci sarà nessuno che li compri? Oltretutto le aziende, davanti a continui salti tecnologici, non rischieranno di trovarsi davanti all’impossibilità di definire un modello di business che vada oltre il breve termine?

Il Grande Reset

Ma questo è solo l’antipasto. In un capitolo dedicato al Grande Reset, il progetto globale immaginato dal fondatore del World Economic Forum, l’economista tedesco Klaus Schwab, De Francisco e Ghiselli mettono in guardia dalla teorizzazione di un passaggio dalla democrazia a un neo-capitalismo oligarchico (presunto antidoto occidentale al modello di capitalismo autoritario cinese) che nei suoi punti principali assomiglia molto alla realtà già qui tra noi: dalla robotica avanzata alle monete digitali, dalla sorveglianza digitale al transumanesimo. In risposta, gli autori mettono nero su bianco 17 punti programmatici: dal ruolo dello Stato al ripensamento della globalizzazione, fino alla ricerca di un’equilbrio tra l’impiego delle macchine e delle risorse umane sulla base dell’evoluzione della demografia.

Tassare i robot

Infine, la proposta shock: tassare i robot o le imprese che usano i robot per compensare la disoccupazione innescata dalla tecnologia. Una “robot tax”, magari sul valore aggiunto, che non risulti punitiva per le aziende ma che contribuisca a riequilibrare gli effetti di trasformazioni che potrebbero avere come naturale approdo conflitti sociali di portata imprevedibile. Solo distopie?

* “Robot, lavoratori e contribuenti di domani” 
di Fabio Ghiselli e Luana De Francisco
Santelli Editore – 17,09 euro

Di seguito uno scritto originale di Fabio Ghiselli per Econopoly, che mette a fuoco altre due punti essenziali per mettere a fuoco le sfide della quarta rivoluzione industriale: istruzione e formazione.


Le criticità della quarta rivoluzione industriale: istruzione e formazione

 di Fabio Ghiselli

Come un impianto dolby stereo siamo avvolti dal mantra universale e istituzionale secondo il quale per accedere a un mercato del lavoro in grado di supportare  un mondo produttivo ipertecnologico, come quello che con grande ottimismo si vuole realizzare, serviranno skill trasversali, le persone dovranno possedere una combinazione di capacità cognitive, sociali ed emotive. Le abilità più importanti saranno l’immaginazione e la creatività, la capacità di accettare le ambiguità e di viverle, di gestire dilemmi e risolvere conflitti e, infine, di tradurre ciò che si è pensato in azione. Perché il cambiamento del lavoro “sarà continuo” e continua dovrà essere la nostra capacità di adattamento.

L’istruzione

I problemi iniziano dall’istruzione scolastica sulla quale, però, non possiamo fare a meno di notare che agli studenti e alle loro famiglie giungono messaggi contrastanti che, evidentemente, derivano dalle innumerevoli contraddizioni insite nel modello industriale, sociale e culturale che gli imperterriti e acritici sostenitori della 4° rivoluzione industriale vorrebbero realizzare.

Per esempio. Chi non ricorda le critiche levate contro gli studenti e le loro famiglie che non hanno optato per l’iscrizione a istituti tecnici e professionali, ITS Accademy compresi, contribuendo in tal modo a incrementare il gap formativo rispetto alle esigenze delle imprese? Secondo gli ultimi dati del Ministero dell’Istruzione riferiti all’anno scolastico 2020-2021, il 56,3% degli studenti ha preferito i licei, il 30,8% gli istituti tecnici, e il 12,9% quelli professionali.

Gap strutturale tra domanda e offerta di lavoro

Questo ha portato, secondo un recente studio dell’Inapp (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche), a un gap strutturale tra domanda e offerta di lavoro: a fronte di un fabbisogno di 153.600 profili tecnico-professionali, l’offerta formativa copre solo il 52% (circa 82.000 unità), quindi il 48% di posizioni rimane vacante.

Ma perché uno studente dovrebbe essere invogliato a fermarsi dopo il diploma superiore tecnico che non sembra comunque sufficiente a garantire quelle skill richieste dal mondo delle imprese? Oppure dovrebbe rinunciare a proseguire gli studi, se il messaggio principale che la società diffonde attraverso i media è quello per cui non basterebbe più nemmeno la laurea per trovare lavoro, ma un master superiore? O dovrebbe rinunciarvi se il tasso di rendimento dell’istruzione cresce nettamente con il livello di studio? Perché dovrebbe farlo dal momento che il tasso di occupazione aumenta al crescere del livello di istruzione, e che questa contribuisce a ridurre i divari di genere e di classe sociale?

Se le abilità (e le competenze) devono essere quelle descritte innanzi, con un accento particolare su quelle più sociali ed emotive che fondamentalmente si acquisiscono durante il percorso scolastico, la contemporanea richiesta di tecnici iper-specializzati, già formati dalla suola, appare piuttosto contraddittoria. Perché quelle abilità sembrano più il frutto di un percorso scolastico-educativo di tipo filosofico-umanistico, che invece molti denigrano.

Ma che dire delle lauree?

Da tempo si è levato un coro unanime di critica verso le scelte dei corsi universitari adottate dagli studenti: sarebbero troppo pochi quelli che scelgono lauree STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics). Se guardiamo i dati OCSE riferiti al 2019, la percentuale di nuovi ingressi in questo tipo di lauree è pari al 30% in Italia, contro una media OCSE del 27%. Se escludiamo la Germania, la cui percentuale è pari al 40%, i Paesi che hanno puntato su programmi di sviluppo tecnologico sul modello “Industria 4.0”, non registrano valori molto differenti: la Corea è al 34%, il Regno Unito al 32%, l’Austria la al 34%, la Finlandia al 31%, la Francia al 25%, la Spagna al 24%, l’Australia al 21%, la Danimarca al 20%,  il Giappone al 19%.

Premesso che l’Italia vanta un numero di laureati di appena il 28% tra i giovani di età inferiore ai 34 anni, contro una media europea del 44%, è anche vero che stando ai dati Istat del 2019, la quota di laureati STEM tra i 25-34enni, è pari al 24,6%, non molto lontana dalla media dei Paesi OCSE (25,4%), da quella della Francia (25,8%), della Spagna (22%), del Regno Unito (26,2%), seppur nettamente inferiore a quella della Germania (36,8%). Se consideriamo la presenza femminile, le percentuali di laureate negli stessi Paesi, se superiori a quella dell’Italia (14,5%), non sono così drammaticamente dissimili tra loro – Spagna (11%), Francia (16,6%), Regno Unito (18,2%), Germania (19,2%) – a riprova del fatto che i condizionamenti culturali superano i confini nazionali e, probabilmente, che l’universo femminile non è particolarmente attratto da così elevate specificità tecniche.

Evidentemente l’enfasi posta su questo tipo cosi tecnico di lauree è stata eccessiva, e chi lo ha fatto ha dovuto “correggere il tiro” proprio a seguito dei nuovi statement sulle skill trasversali.

La necessaria dimensione umanistica: lauree STEAM

Non a caso oggi si parla di lauree STEAM (Science, Technology, Engineering, Arts and Mathematics), dove “Arts” sta ad indicare la dimensione umanistica necessaria ad acquisire le competenze a 360 gradi che sarebbero richieste dal mercato del lavoro, e dove tale componente potrebbe essere più o meno presente a secondo degli indirizzi di studi.

Ma i dati di cui disponiamo ci inducono a porci anche un’altra domanda: siamo sicuri che le aziende sarebbero all’altezza di assorbire i laureati con un elevato livello di istruzione e specializzazione? Perché oggi i numeri mettono in dubbio questa correlazione: secondo gli ultimi dati pubblicati da Il Sole 24 Ore, in Italia il 25% degli occupati è sovra istruito rispetto alle esigenze delle imprese, contro una media Ue del 22,7%, con un picco pari al 40% nelle PMI.  Il che significa che un quarto delle risorse umane è sottoutilizzato dalle imprese, con ripercussioni negative in termini di innovazione di processo e di prodotto, di organizzazione dei fattori produttivi, di efficienza e produttività. Questa condizione trascina con sé problematiche negative destinate ad autoalimentarsi: bassa remunerazione, effetto calmieratore dei salari sul mercato, insoddisfazione personale, scarso coinvolgimento negli obiettivi aziendali, bassa produttività: elementi tipici del mercato del lavoro nel nostro Paese.

Sarebbe molto interessante capire, però, se questo “sovradimensionamento” culturale e formativo sia oggettivo oppure sia il risultato di quantomeno imperfette sottovalutazioni dell’imprenditore e dei direttori HR, che non riescono a cogliere l’occasione per migliorare processi di produzione ed efficientare l’organizzazione dei fattori di produzione.

Risorse umane e domande da porsi

Non è superfluo osservare che i direttori HR dovrebbero porsi più di qualche domanda in ordine a una corretta, efficace e produttiva gestione e valorizzazione delle risorse umane.

Da ultimo dovremmo considerare che la 4° rivoluzione industriale si differenzia da quella precedente che abbiamo vissuto negli anni ottanta e novanta per la contemporanea presenza di un insieme di tecnologie che si basano sull’utilizzo di internet e sulla rete di comunicazione 5G, più performante in assoluto, e su una progressione dei risultati della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica di tipo esponenziale. Allora dovremmo chiederci se davvero riteniamo che il nostro sistema di istruzione sia in grado di stare al passo con il ritmo evolutivo della tecnologia e di elaborare un percorso formativo capace di creare figure professionali perfettamente corrispondenti alle le esigenze delle imprese. E la risposta sembra scontata, in senso negativo.

La formazione       

In un mondo che cambia così velocemente e con la concreta prospettiva di perdere il posto di lavoro (e non solo e tanto di cambiare mansione), le persone che lavorano, per cercare di rimanere sul mercato, per riuscire a trovare un’altra occupazione e non dover essere dipendenti dal sistema di welfare statale, dovranno avere la capacità di reinventare sé stesse, nonché implementare competenze complementari alla capacità delle macchine, specializzandosi in tutte quelle attività nelle quali l’essere umano è ancora superiore alle macchine (come afferma il documento “Proposte per una strategia italiana per l’intelligenza artificiale del MISE). Altrimenti, alla fine, l’ultimo lavoro che resterà agli “umani” sarà spiegare il proprio lavoro al programmatore che istruirà la macchina.

La formazione è un obiettivo strategico che si è posto l’Unione europea, prima con il “Pilastro europeo dei diritti sociali” (2017), e poi con la nuova “Agenda europea per le competenze” (2020), nell’intento di raggiungere entro il 2030, la quota del 60% dei lavoratori europei impegnati in attività di formazione (nel 2016, ultimo anno per cui sono disponibili i dati, la media continentale era del 34,7%). L’enfasi su questo tema è così ampia che il 2023 è stato proclamato l’”Anno europeo delle competenze”. Ma si tratta di un obiettivo anche per il Governo italiano per il quale è stato costituito il Fondo per le nuove competenze che si accompagna a numerosi altri fondi di sviluppo

Per l’Italia una montagna da scalare

Ma il percorso è irto di difficoltà. Secondo i rilevamenti dell’OCSE-PIAAC (2018), in Italia il punteggio relativo all’alfabetizzazione e alle abilità numeriche dei lavoratori è il più basso dell’area Ocse (come noi la Spagna, e peggio di noi solo la Turchia, il Messico e il Cile). Lo stesso dicasi per la percentuale di possesso delle abilità IT.

L’Italia ha anche 13 milioni di adulti (tra i 25 e i 65 anni) con un livello di istruzione pari alla terza media, pari al 39% del totale e al 20% della popolazione adulta europea (66 milioni di individui in totale). Di questi, 11 milioni (il 27,9%) ha difficoltà di comprensione, ossia a leggere testi brevi su argomenti familiari e individuare informazioni specifiche.

La situazione non è migliore se guardiamo ai livelli di istruzione superiore: nella stessa fascia di popolazione adulta, solo il 62,2% è in possesso di un diploma (contro il 78,7% della media Ue, l’86,6% della Germania, l’81,1% del Regno Unito e l’80,4% della Francia), e solo il 19,6% è in possesso di un titolo di studio terziario (laurea) contro un valore medio europeo del 33,2%.

Nella stessa fascia si stima che circa il 60% degli adulti avrebbe bisogno di riqualificazione a causa di competenze obsolete o destinate a diventarlo a causa dell’innovazione tecnologica. Ciò nonostante, solo il 24% partecipa oggi ad attività formative contro una media OCSE del 52%.

Abbandono degli studi e giovani NEET: fenomeno di massa

Ai deficit di istruzione (e occupazionali) dobbiamo aggiungere due fenomeni particolarmente significativi nel nostro Paese.

La quota dei 18-24enni ELET (Early Leavers from Education and Training), cioè di quelli che abbandonano precocemente gli studi e la formazione e che sono in possesso al massimo di un titolo di studio secondario inferiore, è pari al 13,5% del totale contro una media UE del 10%. Di questi risulta occupato il 35,4% contro una media UE del 46,6%. A riprova del fatto che un basso livello di istruzione aumenta fortemente la difficoltà a trovare un lavoro e la probabilità di trovarsi, da adulto, in una condizione di disagio sociale.

(Alfons Photographer – stock.adobe.com)

Il secondo fenomeno è quello dei NEET (Neither in Employment nor in Education and Training), ossia dei giovani non più inseriti in un percorso scolastico/formativo e non impegnati in una attività lavorativa. In Italia la quota dei giovani 15-29enni in questa condizione è pari al 23,9% contro una media UE del 13,9%, e abbondantemente sopra il 13% della Francia, il 14,9% della Spagna, l’11,4% del Regno Unito e il 7,6% della Germania.  Con una incidenza che supera abbondantemente il 30% in alcune regioni del Sud Italia. Anche in questa categoria, la relazione con il titolo di studio è evidente: tra coloro che hanno la terza media, la quota raggiunge il 37,9%, il 25,4% per i giovani in possesso del diploma di scuola superiore, il 20,6% per quelli laureati.

Formazione e riqualificazione possono bastare in questa Europa?

Su queste basi dovremmo chiederci per forza se l’attività formativa e di riqualificazione possa davvero contribuire a risolvere il problema dell’inadeguatezza delle competenze e delle skill dei lavoratori.

Nel gennaio 2021 la Commissione Europea ha presentato un documento intitolato “Industria 5.0: verso una industria europea sostenibile, umano centrica e resiliente”.

Già dal titolo si può capire come l’intenzione sia quella di superare il concetto di “Industria 4.0”, simbolo della quarta rivoluzione industriale – peraltro appena avviata – per creare qualcosa di diverso, forse di molto più ambizioso.

Volendo essere fiduciosi, potrebbe essere anche un tentativo di cambiare in corsa le “regole del gioco”, forse perché quelle che si sono introdotte qualche anno fa non sembrano così equilibrate e condurrebbero a giocare un gioco che, forse, non piace nemmeno più. In particolare per gli effetti negativi che l’IA e la robotizzazione avrebbero sull’uomo, sul lavoro dell’uomo, sulla perdita di posti di lavoro e sulle conseguenze nefaste per i sistemi di welfare statali.

Non a caso il documento parla di “umano-centrismo” e pone il benessere del lavoratore al centro del processo di produzione, lasciando alle macchine il compito di aiutare l’essere umano a lavorare meglio, distogliendolo dai lavori più faticosi e ripetitivi e salvaguardando la sua dignità e la sua sicurezza. Tanto è vero che qualcuno enfatizza “il ritorno delle mani e delle menti umane nella struttura industriale”.

Si afferma che il lavoratore non sarebbe più da considerare come un “costo” (da ridurre), ma come un “investimento” in grado di permettere a sé stesso e all’impresa di svilupparsi.

Una tecnologia che non sostituisca i lavoratori con i robot. Davvero?

Ma soprattutto si parla di un approccio tecnologico che dovrebbe espandere le capacità del lavoratore e non rimpiazzarlo con i robot.

Ci sono però alcuni passaggi del rapporto che suscitano qualche perplessità.

Il primo è che “innovation shows non signs of slowing down” , ossia l’innovazione non dà segni di rallentamento. Il che implica la volontà politica di non intervenire per rallentare l’innovazione tecnologica. Ma se così fosse, a parte la compatibilità di una corsa senza fine dell’innovazione tecnologica con la centralità dell’uomo e con la salvaguardia dei posti di lavoro, tutta da dimostrare, sarebbe comunque necessario un intervento pubblico – Stati e Istituzioni comunitarie – per indirizzare la ricerca e l’innovazione verso i fini che si sono stabiliti.

Da sottolineare anche la consapevolezza che sarà impossibile assicurare un upgrade della qualificazione tecnologica a tutti i lavoratori. Tanto è vero che viene adottato il principio per cui se l’innovazione tecnologica deve essere al servizio dell’uomo, allora il suo utilizzo “dovrà divenire più intuitivo e user-friendly” (che richiederebbe una minore attività di formazione). Contemporaneamente, forse per la consapevolezza dell’impossibilità di una estesa formazione esterna, si stabilisce che tale attività dovrà avvenire in simultanea con l’utilizzo delle innovazioni tecnologiche nei luoghi di lavoro. Il che ci riporta al concetto della formazione in azienda, all’apprendimento continuo day by day, più che a un up-grade esterno, di tipo quasi “scolastico”. Si tratta di un orientamento che vincolerebbe le imprese e che non so quanto sia stato ben compreso.

Apprendere al lavoro, quali sono le sfide?

In buona sostanza, si tratterebbe di applicare il modello 70/20/10 inventato da C. Jenning, c.l.o. di Thomson Reuters, considerato sempre valido ma, di fatto poco applicato: le opportunità di apprendimento dipendono solo per il 10% da corsi formali, per il 20% da attività di coaching e per il 70% dal lavoro a stretto contatto con i colleghi.

Ma sembra ci siano almeno due problemi, uno economico e uno culturale. Secondo una indagine Ocse, le imprese italiane destinano alla formazione lo 0,3% del monte salari, contro l’1% di quelle francesi e il 2,5% di quelle inglesi. Un divario sostanziale.

Quello culturale, evidentemente dettato anch’esso da ragioni economiche, è che le imprese oggi richiedono personale già formato, in linea con le esigenze aziendali, insomma, ready to go.

Ma nella storia industriale del nostro paese, mai nessuno studente o studentessa, in possesso di un diploma tecnico o di una laurea scientifica poteva considerarsi in grado di soddisfare con immediatezza le esigenze delle imprese. Non per questo non venivano assunti. Semplicemente le imprese si facevano carico della formazione che avveniva in parallelo con l’espletarsi della normale attività lavorativa, in cambio, spesso ma non sempre, di normali incentivi fiscali o contributivi. Forse dovremmo chiederci se questo approccio sia compatibile con la velocità con la quale si evolve il cambiamento tecnologico che imporrebbe alle imprese un adeguamento insostenibile.

Alla fine, da questo nuovo progetto della Commissione europea emergerebbe la triste consapevolezza che non tutti i lavoratori riusciranno a trovare un nuovo posto di lavoro nelle nuove fabbriche tecnologiche, e che per gli esclusi sarà necessario riformare il sistema di protezione sociale e sanitario e quello di tassazione. Sarà compito dello Stato assicurare a questi lavoratori non solo una adeguata protezione sociale, ma la loro rilevanza come membri della collettività.

Una breve conclusione

Papa Giovanni Paolo II nell’Enciclica Redemptor Hominis (4.3.1979) ha rilevato che l’uomo “vive sempre più nella paura. Egli teme che i suoi prodotti (…) quelli che contengono una speciale porzione della sua genialità e della sua iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale contro lui stesso; teme che possano diventare mezzi e strumenti di una inimmaginabile autodistruzione, di fronte alla quale tutti i cataclismi e le catastrofi della storia che noi conosciamo, sembrano impallidire”. Ecco perché non possiamo non domandarci se “questo progresso, il cui fautore è l’uomo, rende la vita umana sulla terra, in ogni suo aspetto, più umana”, “più degna dell’uomo”.

Non solo, ma osservando questi processi e prendendone parte, “non possiamo lasciarci prendere dall’euforia, né possiamo lasciarci trasportare da un unilaterale entusiasmo per le nostre conquiste, ma tutti dobbiamo porci, con assoluta lealtà, con obiettività e con senso di responsabilità morale, le domande essenziali che riguardano la situazione dell’uomo, oggi e nel futuro. Tutte le conquiste finora raggiunte e quelle progettate dalla tecnica per il futuro, vanno d’accordo col progresso morale e spirituale dell’uomo? In questo contesto l’uomo, in quanto uomo, si sviluppa e progredisce, oppure regredisce e si degrada nella sua umanità?”

Tutti dovremmo occuparci del nostro futuro (cit.)

Queste sono le domande che ci dovremmo porre. Dovremmo chiederci in quale direzione stiamo andando, quale sarà il nostro futuro. Non possiamo acriticamente sostenere, come fa qualcuno, di essere “acerrimi avversari di chi ha paura del futuro” se non siamo in grado di gestirlo o, citando Roosvelt “la sola cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”, perché, per citare C. Katering “Tutti dovremmo occuparci del nostro futuro, perché è là che passeremo il resto della nostra vita”, e perché è compito di chi governa rassicurare le persone che avranno un futuro che meriti di essere vissuto.

E in questo futuro dovremmo anche immaginare il mondo che stiamo costruendo per i giovani. Oggi si dice che i giovani “dovranno acquisire competenze diverse e possedere una straordinaria capacità di adattamento a nuovi contesti lavorativi”. C’è addirittura chi sostiene che l’uomo dovrebbe essere capace di imparare, disimparare e ri-imparare, forse non rendendosi ben conto dell’impatto dirompente sulla psiche di questo processo di ri-nascita. Ma è “anche possibile che i ragazzi di oggi dovranno muoversi in mercati del lavoro più precari e mutevoli a causa di un cambiamento tecnologico più rapido che in passato”. Perché “sono venute meno le sicurezze tipiche, la <terraferma> della società industriale, con posto fisso a vita, continuità e arricchimento progressivo della propria professionalità”. In pratica, non dovremmo pensare di essere sempre concretamente occupati ma occupabili e, quindi, costantemente formati in funzione di nuove e sicuramente diverse esigenze delle imprese. Dall’alienazione della catena di montaggio ci stiamo dirigendo verso l’alienazione da formazione a vita (lifelong learning).

Sostituire il lavoro umano: scelta etica

Ciò che sembra mancare oggi, è anche la consapevolezza che la scelta di sostituire il lavoro umano non è solo una scelta tecnica ed economica, ma etica. Ma l’etica rischia di rimanere una parola priva di significato concreto se continueremo ad adottare la retorica espressione della “centralità dell’essere umano”, senza riuscire a darle un senso, senza impegnarci per intraprendere azioni concrete per salvaguardare il lavoro dell’uomo e difendere l’uomo dall’avvento delle macchine.

Perché di retorica e ipocrisia si tratta, dal momento che in giro per il mondo pensiamo di organizzare continue occasioni di confronto macchina vs uomo per misurare le rispettive capacità di calcolo/analisi: se non fosse triste potremmo ridere di fronte alla notizia che il colosso immobiliare cinese Vanke ha eletto come miglior dipendente 2021 un software di intelligenza artificiale! Dimostrazione evidente dell’insensibilità e della mancanza di rispetto verso l’uomo che si spinge fino all’estremo della bullizzazione. E non si dica che il fine ultimo di simili iniziative sarebbe quello di stimolare l’uomo a dare sempre il meglio di sé, perché in nessun confronto sulle capacità di calcolo o di memorizzazione l’uomo potrebbe essere vincente sulla macchina.