Tassa sugli extraprofitti, pro e contro delle misure fiscali straordinarie

scritto da il 10 Agosto 2023

Post di Fabio Ghiselli, dottore commercialista, già tax director d’impresa, attualmente tax and lab advisor, autore di numerose pubblicazioni in materia tributaria e di welfare, opinionista de Il Sole 24 Ore, cultore di economia –

Non tutti gli extraprofitti sono uguali ma sembra che tutti, quando si manifestano, cadano sotto l’incudine del fisco. E’ successo nel 2022 con le imprese che operano nel settore energetico: allo scopo di garantirsi i mezzi per fornire alle famiglie meno abbienti un aiuto economico per fare fronte al caro-bollette, il governo ha deciso di imporre alle imprese una distribuzione più equa del vantaggio ottenuto dall’evoluzione dei prezzi dell’energia, con un contributo di solidarietà straordinario. Dapprima con il decreto legge “Aiuti bis” (art. 37, D.L. 115/22), per la verità piuttosto grezzo e approssimativo, e che è già stato oggetto d ricorsi che giungeranno sino alla Corte Costituzionale. Poi con la legge di bilancio per il 2023 (art. 1, L. 193/2022), una disposizione normativa più articolata e più adatta a individuare una base imponibile più prossima ai profitti definibili “straordinari” rispetto a quelli realizzati in condizioni di mercato “normali” o ordinarie.

Il decreto omnibus del 7 agosto

Ed è successo ora, nel 2023, con il decreto “omnibus” approvato dal governo il 7 agosto scorso e non ancora pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.

Rispetto alla prima tipologia di contributo è stato abbandonato, come criterio di determinazione della base imponibile, il riferimento ai dati delle liquidazioni periodiche IVA, scarsamente espressivi di una reale capacità contributiva delle imprese, mentre rispetto alla seconda, non è stato replicato il criterio che assumeva una quota del reddito imponibile determinato ai fini IRES. La versione recentemente approvata strizza l’occhio all’Irap, dal momento che assume come base imponibile l’importo della voce 30 del conto economico del bilancio bancario, secondo lo schema approvato dalla Banca d’Italia (Circ. n. 262 del 22.12.2005 e succ. integr., oltreché Reg. (CE) n. 1606/2002, e D.Lgs. 38/2005), ossia quel margine (o differenza) tra interessi attivi e passivi e proventi e oneri assimilati tipici dell’attività propria.

Retromarcia o no? 

La misura dell’imposta sarebbe determinata dall’applicazione dell’aliquota del 40% sul maggiore tra il valore del suddetto margine relativo all’esercizio 2022 che eccede per almeno il 5 per cento il medesimo margine nell’esercizio 2021, e quello relativo all’esercizio 2023 che eccede per almeno il 10 per cento lo stesso margine nell’esercizio 2021. Proprio il confronto con i valori di due annualità precedenti e la previsione di un tasso di crescita “normale” non imponibile, garantirebbe l’applicazione dell’imposta sul margine “extra-ordinario”.

Come per il contributo di solidarietà ex legge di bilancio 2023, il legislatore avrebbe previsto un limite all’imposta liquidabile pari a una certa percentuale del patrimonio netto contabile. Su alcuni media era circolato il “solito” 25%, poco credibile per il sistema bancario soggetto ai vincoli patrimoniali imposti dalla legislazione europea, ma la percentuale che sta circolando sembra si aggiri su valori molto più contenuti, attorno allo 0,1%. Questa differenza così marcata ha scatenato una polemica su una presunta retromarcia del governo che, in realtà, non c’è stata. Il fatto è che simili “incidenti” affondano le radici nella poco opportuna abitudine (che si trascina da tempo) di organizzare le conferenza di presentazione delle misure intraprese prima della stesura definitiva dei testi di legge. E quando i temi sono tributari queste mancanze sono molto più difficili da gestire.

I casi precedenti in cui è stato superato il vaglio di legittimità

In linea di principio occorre premettere che nulla osta all’attivazione di una imposizione specifica: “La nostra Costituzione non impone affatto una tassazione fiscale uniforme con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria”, purché vi sia un “indefettibile raccordo con la capacità contributiva”, “coerenza interna … con il suo presupposto economico” e che non sia ravvisabile una “arbitrarietà dell’entità dell’imposizione” (C. Cost. nn. 341/2000; 258/2002; 223/2012; 116/2013).

Molti sono gli esempi di temporanei inasprimenti dell’imposizione differenziati per settori economici che hanno superato il vaglio di legittimità della Corte Costituzionale: ad es. le aliquote differenziate Irap, l’addizionale sulle remunerazioni in forma di bonus e stock option, il contributo straordinario per l’Europa, il tributo straordinario del sei per mille sui depositi. Senza dimenticare la famosa “Robin Tax”, introdotta nel 2008 dall’art. 18, D.L. 112/2008 che, per gli errori commessi nella sua costruzione giuridica, è stata dichiarata incostituzionale con sent. 10/2015.

Extraprofitti, Consulta e reddito d’impresa

Essendo stato riproposto il vincolo dell’indeducibilità del contributo ai fini IRES e IRAP, si riproporrà il dibattito sul conflitto con il principio di tassazione del reddito d’impresa al netto dei costi, e con gli artt. 3 e 53 Cost., come recentemente interpretati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 262/2020 riguardante l’indeducibilità dell’IMU dall’IRES. Senza entrare nel merito delle singole argomentazioni addotte dalla Corte – come quella del principio d tassazione del reddito netto, che impedirebbe al legislatore di “rompere il vincolo di coerenza” rendendo “indeducibile un costo fiscale chiaramente e interamente inerente”, ovvero del disposto dell’art. 99, TUIR, peraltro derogabile – giova ricordare, però, che i giudici non hanno affatto escluso la legittimità di una misura che limiti la deducibilità di taluni costi.

Nella sentenza si legge che “se non è escluso che il legislatore possa prevedere limiti alla deducibilità dei costi effettivamente sostenuti nell’ambito di una attività d’impresa, tuttavia forme di deducibilità parziale o forfettaria si devono giustificare in termini di proporzionalità e ragionevolezza, come deroghe che rispondono a esigenze di tutela dell’interesse fiscale o anche a finalità extrafiscali, ma sempre riferibili a specifici valori costituzionali”.

Gli appigli costituzionali per la decisione del Governo

Se “la temporaneità dell’imposizione non costituisce un argomento sufficiente a fornire giustificazione a un’imposta che potrebbe risultare comunque disarticolata dai principi costituzionali”, non lo sono nemmeno generiche “esigenze di gettito”, alle quali il legislatore è tenuto a rispondere in modo trasparente, aumentando l’aliquota dell’imposta, non attraverso incoerenti manovre sulla deducibilità, che si risolvono in discriminatori, sommersi e rilevanti incrementi della base imponibile a danno solo di alcuni contribuenti”.

Tuttavia, se nel testo definitivo apparirà evidente che il contributo non risponde a generiche esigenze di gettito, ma a un obiettivo preciso – come fornire aiuto a coloro, famiglie e imprese, che sono state penalizzate dal rialzo dei tassi sui mutui ipotecari e prestiti bancari – potrebbe trovare la sua giustificazione nell’ambito dei principi costituzionali della eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, co. 2, e del limite dell’utilità sociale in funzione del quale può svolgersi una attività economica,  ex art. 41, co.2, Cost., per i quali viene attivata la funzione extra fiscale e redistributiva dell’imposta, pacificamente riconosciuta come strutturale.

Extraprofitti. Cosa saranno mai?

Molti lamentano l’assenza di una definizione generale di extraprofitti – come se fosse difficile immaginare che si tratta di un guadagno superiore rispetto a quello normalmente conseguito – ma non sarebbe la sua presenza nell’ordinamento giuridico a dare legittimazione alla scelta politica di tassarli. Senza dimenticare che il nostro sistema tributario contiene poche definizioni generali mentre è disseminato di presupposti impositivi specifici, o casistici.

(Adnkronos)

C’è poi chi sostiene che, a questo punto, nessun imprenditore avrebbe la certezza di contare sul libero mercato per generare profitti secondo le proprie capacità di organizzare i fattori di produzione, di accollarsi i rischi e di fare investimenti. Ci sarebbe sempre lo Stato ad avere il diritto di individuare il livello di profitti “ragionevole” e di appropriarsi della differenza in eccesso sotto forma di tassazione. Un intervento “statalista” che penderebbe sopra le loro teste come una la spada di Damocle, e che “finirebbe per colpire in modo punitivo il merito imprenditoriale e le attività economiche che hanno avuto il <torto> di sovraperformare il proprio mercato di riferimento” (IBL).

Se la performance dipende da una rendita da posizione dominante

In realtà, nei casi di cui parliamo, la sovra performance nel proprio mercato non dipende affatto dal merito imprenditoriale, né dall’efficienza dell’impresa, ma da due condizioni, la prima esogena, la seconda di sfruttamento di una rendita da posizione dominante.

Le imprese energetiche hanno visto incrementare i profitti in misura eccezionale solo grazie a meccanismi di riferimento nella formazione dei prezzi di vendita scelti dal legislatore europeo (e nazionale), completamente disfunzionali e inefficienti.

Le banche hanno incrementato i margini di intermediazione traendo un indebito vantaggio dalla libertà di sfruttare una posizione di mercato dominante che ha consentito di adattare il costo del denaro (i tassi di interesse sui prestiti alla clientela, attivi per le banche) agli incrementi decisi dalla BCE nell’ambito di una politica monetaria restrittiva per ridurre l’inflazione, ma di tenere pressoché stabile il costo della raccolta (i tassi sui depositi delle clientela, passivi per l’istituto bancario). E infatti l’utile netto aggregato del primo semestre 2023 è salito di oltre il 65% rispetto all’anno scorso, ma alcune banche primarie hanno registrato tassi di crescita di oltre l’80%. Valori impossibili da raggiungere in condizioni dinamiche normali di mercato.

Come si giustifica l’intervento dello Stato?

E’ evidente che se il mercato non è in grado di neutralizzare abusi e di garantire un equilibrio che vada oltre una funzione matematica che tutti gli studenti di economia conoscono, lo Stato ha il dovere morale e la responsabilità politica di intervenire per garantire principi di equilibrio distributivo e di etica dei rapporti economici. L’intervento dello Stato di redistribuire le risorse tra chi ne ha troppe e chi ne ha poche non avviene a prescindere, ma è indotto da distorsioni del mercato che non avrebbero nulla in comune nemmeno con il principio della libera concorrenza, che tanto sta a cuore ai difensori del “libero mercato”.

Efficacia della moral suasion e della regolamentazione

Certo, ci si può chiedere se l’obiettivo individuato dal governo possa essere raggiunto senza l’utilizzo della “leva fiscale”. Nel caso specifico la risposta sarebbe negativa: l’erogazione di risorse a categorie soggettive specifiche necessita della preventiva raccolta per il tramite di uno strumento – l’imposta – di carattere più generale. Diverso sarebbe se l’intento del governo fosse quello riequilibrare con effetto erga omnes la differenza tra tassi passivi e attivi. In questo caso, la presenza di istituti bancari pubblici di elevato standing (come in passato), avrebbe potuto indurre il mercato a comportamenti virtuosi, nel pieno rispetto della libera concorrenza.

Così come avrebbe potuto incidere un intervento del governo di particolare e convincente “moral suasion” o, addirittura di tipo regolatorio, atteso che un riequilibrio generalizzato della struttura dei tassi avrebbe effetti macroeconomici significativi in termini di consumi, domanda aggregata, inflazione, produzione, Pil, e costituirebbe una azione di politica economica alla quale quel poco di spazio e autonomia che ci resta nella definizione della politica monetaria dovrebbe essere subordinato.

Meglio correzioni delle anomalie di mercato che ripetute misure fiscali

In tutti i casi in cui ci troviamo di fronte a delle vere e proprie distorsioni e imperfezioni del mercato, forse l’intervento pubblico dovrebbe più opportunamente indirizzarsi verso la correzione di queste anomalie piuttosto che introdurre ripetute misure straordinarie di tipo fiscale, con il rischio di farle diventare una componente ordinaria del sistema. E con il rischio che ulteriori oneri posti a carico di una componente così importante del sistema economico come le banche, siano traslati in capo ai clienti sotto forma di maggiori costi dei servizi.