Mes e Patto di stabilità: miopia istituzionale e incroci pericolosi

scritto da il 22 Dicembre 2023

Post di Francesco M. Renne, commercialista e revisore, faculty member CUOA Business School, formatore in materie finanziarie e fiscali – 

Miopia.

Mio-pì-a, sostantivo femminile; difetto di rifrazione per il quale l’immagine di oggetti lontani risulta indistinta. O, anche, in senso figurato, mancanza di perspicacia e lungimiranza, assenza di visione a lungo periodo.

A voler essere benevoli, il voto di ieri in Commissione Finanze alla Camera sul MES è frutto di miopia istituzionale. Ma, da una diversa angolazione, rischia di divenire l’ennesimo azzardo, strettamente legato alla politica interna, che esporrebbe il nostro Paese sia alle (giustificate, dal loro punto di vista) rimostranze degli altri Paesi europei e sia a (nuovi) attacchi speculativi finanziari.

L’uno-due pugilistico MES – Patto di stabilità

Intanto, fuori dai nostri confini suscita scalpore il mancato rispetto della continuità d’intenti di un Paese fondatore della casa europea al variare della maggioranza politica interna. Sensazione aggravata, peraltro, sia dalla manfrina degli estenuanti rinvii del voto di ratifica (se non si fosse voluto procedere a ratifica, si sarebbe potuto portarlo a votazione molto prima; se non lo si è fatto, occorre individuarne la ragione), che dall’inusitata astensione del partito di cui fa parte il ministro degli Esteri.

MES

L’esito del voto sul MES alla Camera (immagine dal Sole 24 Ore)

Poi, superando lo scalpore iniziale balzano agli occhi due elementi temporali e uno politico, che gettano una luce leggermente diversa sui fatti.

In rapida successione si è infatti arrivati all’accordo sul nuovo Patto di stabilità e, il giorno dopo, al voto (negativo) sul MES. Un “uno-due” pugilistico di grande effetto mediatico, certamente, con però due particolarità: da un lato, le nuove regole del Patto (che verranno formalizzate entro aprile 2024) avranno un regime transitorio per il periodo 2025-2027, cioè le regole a regime decorreranno dopo le prossime elezioni politiche italiane (e presidenziali francesi, peraltro; cioè, i due Paesi che più di altri hanno insistito sull’introduzione del periodo transitorio stesso).

Mani libere in campagna elettorale?

Dall’altro, un potenziale (e non del tutto escluso) nuovo voto italiano sul MES potrà avvenire – da regolamento parlamentare – solo dopo sei mesi dal voto precedente, quindi dopo il voto delle europee. Insomma, tutto porta a interpretare quanto avvenuto con il tentativo di tenersi le “mani libere” in campagna elettorale (e “scaricare” le regole più stringenti del nuovo Patto alla successiva legislatura).

L’elemento politico, invece, riguarda la (persa?) credibilità (in sede europea) di ben due ministri in un colpo solo: Giorgetti, che in quanto ministro dell’Economia siede nel board del MES; Tajani, che in quanto ministro degli Esteri rappresenta la linea politica del nostro Paese. Entrambi, assieme al Premier, hanno sostenuto che la posizione italiana consisteva nel portare avanti un negoziato secondo la “logica a pacchetto” (il MES, prodromo del rafforzamento dell’unione bancaria, andava approvato assieme al Patto, per rendere le modifiche coerenti e rafforzare l’effetto negoziale a favore dell’Italia). Entrambi sono stati smentiti (e subiscono una cocente sconfitta interna; l’uno rispetto alla corrente no-euro del proprio partito, l’altro rispetto agli equilibri interni fra i partiti di maggioranza).

Il MES e i dilemmi dell’opposizione

Per completezza di ragionamento, anche l’opposizione – in particolar modo il “campo largo” – non ne esce politicamente bene, essendo emerso, su un tema così importante per la politica europea del nostro Paese, il voto a favore del partito democratico e quello contrario del Movimento Cinque Stelle (il cui leader, peraltro, quando era premier e in maggioranza con il PD stesso, aveva sottoscritto il trattato).

Insomma, se non fosse che ciò che è avvenuto rischia di esporci ai venti della speculazione e all’ignominia del mancato rispetto degli impegni presi, che peserà sulle future negoziazioni in sede europea, tutto potrebbe ricondursi a un mero miope posizionamento elettorale di breve periodo.

Miopia, appunto.

Sotto il profilo tecnico, però, occorre chiedersi tre cose. È stato raggiunto l’accordo per un “buon” Patto? Il MES era davvero da affondare? Quali effetti (economico-finanziari) ci saranno ora?

Il MES meritava davvero di essere bocciato?

Il nuovo Patto di stabilità europeo contiene delle novità positive, ma anche degli aspetti ancora da valutare e, sicuramente, però, richiederà anche una revisione del budget UE.

La maggiore flessibilità negli interventi correttivi, pur all’interno di corridoi numerici prefissati di risanamento, dichiarata al momento del raggiungimento dell’accordo, si contempera infatti con una maggiore incidenza europea nelle scelte di risanamento interne al Paese in difficoltà. Restano i parametri di incidenza sul Pil del 60% di debito pubblico e del 3% di deficit annuo, il che vuol dire che a oggi ben 17 Paesi su 27 non rispettano almeno uno dei due parametri.

Il periodo di “aggiustamento dei conti” dovrà avvenire in quattro anni (estendibile a sette), con traiettorie di rientro variabili soggettivamente da Paese a Paese (e questo è un bene, poiché si tiene conto delle differenze economiche esistenti nell’individuare la portata degli interventi) qualora il deficit annuo sia inferiore al 3%. In tal caso, vi saranno correzioni pari allo 0,25% (o allo 0,4%, in alcune circostanze) annuo, in aggiunta a un obiettivo di riduzione del debito pari allo 0,5% o all’1% annuo, a seconda che il debito sia, rispettivamente, inferiore o superiore al 90% del Pil.

Se, invece, il deficit fosse superiore al 3%, scatterebbe una correzione fissa dello 0,5% annuale. Nel periodo transitorio, talune voci di spesa (tra cui il peso dell’incremento degli interessi sul debito) non verrebbero conteggiate nei calcoli di sforamento dei parametri.

I nuovi obiettivi di avanzo primario

Per l’Italia, resta comunque certo che occorra fissare obiettivi di avanzo primario (prima del conteggio degli interessi e degli interventi di correzione dei conti) almeno del 3/4%. Mentre il tema ancora aperto degli investimenti previsti dagli obiettivi europei (tecnologici, ambientali ed energetici) determinerà l’esigenza – non del tutto condivisa da tutti i partner europei, ad oggi – di ampliare i fondi comunitari (per non gravare ulteriormente sui bilanci dei singoli Paesi) e quindi ampliare il Budget dell’Unione.

Il MES, invece, subisce una (nuova) battuta d’arresto, con motivazioni, però, tecnicamente (molto) discutibili. Intanto, nella mozione votata in Commissione Finanze alla Camera, si motiva il parere contrario al fine prevenire che vi siano (ulteriori) impegni finanziari – a sostegno dell’ente “salva-Stati” – che potrebbero essere “sottratti” a nuovo voto parlamentare (svuotandone i poteri costituzionali) stante la clausola di automaticità in caso di nuove richieste di fondi. Invero, tale motivazione è poco condivisibile nei fatti poiché, da un lato, l’Italia è uno dei maggiori sottoscrittori del MES (che è già esistente, nda) e i meccanismi di voto al suo interno consentono di esprimere un “voto di blocco”, ove vi siano decisioni non condivise nonché, dall’altro, la clausola di automatismo non rientra fra quelle oggetto di modifica, essendo già in vigore.

L’effetto stigma

Sempre sotto il profilo tecnico, da alcuni si è sostenuto che il motivo principale per il rigetto fosse nel cd. “effetto stigma”; cioè, il fatto che, qualora si ricorra a tali fondi, il resto del debito pubblico perda di valore (o debba essere emesso a tassi maggiorati per il rischio) poiché renderebbe evidente lo stato di difficoltà del Paese. Invero, anche tale affermazione non pare condivisibile, poiché qualora un Paese richiedesse – e peraltro ratificare il trattato è comunque cosa ben diversa dalla decisione di richiederne l’attivazione – i fondi agevolati, lo farebbe in condizioni di conclamata difficoltà e quindi i prezzi e i tassi del proprio debito pubblico già incorporerebbero il rischio di default; anzi, l’attivazione del MES ben potrebbe agire come calmierazione del rischio, poiché sarebbe un segnale di avvio di un percorso di risanamento.

La vera partita: il meccanismo “salva-banche” europeo

La partita “vera”, sotto il piano tecnico, non può che spostarsi dunque sul cd. MES “bancario”, cioè la vera novità del trattato in questione, che prevederebbe la possibilità di attivare i fondi in caso di crisi sistemiche bancarie, affiancandosi ai metodi ordinari europei (i.e. “bail in”) di risoluzione delle crisi bancarie stesse. In tal caso, in linea teorica, potrebbe ravvisarsi un segnale di “impossibilità finanziaria” del singolo Paese nell’intervenire autonomamente, causando un rialzo del rischio percepito sul proprio debito pubblico.

Invero, però, ciò potrebbe accadere solo se si sia in presenza di un default sistemico di dimensioni oggettivamente superiori alle capacità del bilancio di uno Stato (ciò avverrebbe però solo in caso di presenza di banche con asset dimensionalmente superiori alla dimensione economica nazionale, o – di nuovo – in caso di debolezza finanziaria conclamata del singolo Stato).

Ma, così ragionando, ci si dimentica che l’implementazione di un meccanismo “salva-banche” europeo era una necessità (europea) per il completamento del quadro delle regole cd. di “unione bancaria”, teso alla definitiva creazione di un framework regolamentare finanziario comune (e condiviso) e, in tal senso, necessario anche alle nostre Banche nella competizione europea stessa.

Il MES “condivisibile” sacrificato sull’altare delle elezioni

Insomma, un obiettivo di lungo termine condivisibile, sacrificato sugli altari del consenso elettorale di breve periodo. Non certo un risultato di cui andar (sempre tecnicamente) fieri.

MES

Il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni (immagine dal Sole 24 Ore)

Raccolti “i cocci” del (maldestro, ad avviso di chi scrive) attraversamento di questo “incrocio pericoloso”, resta pragmaticamente ragionare su cosa potrebbe ora accadere. Non tout court un tracollo finanziario o un’esplosione dello spread, certo; ma, nel lungo periodo, almeno due cose “problematiche”.

La credibilità perduta

Da un lato, politicamente parlando, la (perduta) credibilità negoziale in sede europea potrebbe generare maggiori difficoltà nei prossimi dossier economici (bilancio europeo, debito pubblico comune, unione bancaria, rate PNRR), con conseguenti minori effetti benefici per il nostro Paese. Effetto da scongiurare, a meno che non sia invece voluto per poter dare la colpa alla “cattiva matrigna” Europa e sganciarsi dalle sue regole (esponendoci ad effetti dirompenti e tutti da valutare, nel loro insieme).

Dall’altro, tecnicamente parlando, se la nostra economia rallentasse più del previsto – mandando in sofferenza i saldi pubblici e il sistema bancario – la mancanza di un “ombrello” come il “nuovo” MES ci esporrebbe a (ulteriori) attacchi speculativi finanziari, causando un clima di incertezza sul futuro che danneggerebbe la (già minima) propensione agli investimenti.

Investimenti e capitali servono per creare nuova ricchezza e maggiori risorse distribuibili; per attrarli occorrerebbe stabilità normativa e credibilità economico-politica. Non proprio ciò che ci si paventa davanti.