Quale rivoluzione normativa e culturale per l’impresa femminile?

scritto da il 08 Maggio 2024

Negli ultimi decenni, il panorama economico europeo ha visto un crescente protagonismo delle imprese femminili. Tuttavia, la definizione di “impresa femminile” rimane ancorata a concetti obsoleti, incapaci di cogliere la complessità e la diversità delle realtà imprenditoriali moderne. “Occorre agire sulle normative vigenti in Italia e in Europa, al fine di giungere a una definizione unica e moderna di impresa femminile”, come dichiara Valentina Picca Bianchi, portavoce del Comitato Impresa Donna. Questo sarebbe utile per evitare problemi di concorrenza nel mercato unico europeo e per migliorare la capacità di misurare le performance delle imprese femminili, come già avviene per le PMI, oltre che per analizzare le politiche pubbliche adottate nei singoli Paesi per sostenere la crescita e lo sviluppo delle aziende con una forte presenza femminile.

La coerenza che manca a livello europeo

Il cuore del problema risiede nella mancanza di una definizione uniforme e aggiornata a livello europeo, che porti ad una maggiore coerenza normativa e a una migliore valutazione delle performance delle imprese guidate da donne. “Ogni bando/incentivo ‘setta’ i parametri dei beneficiari, spesso in deroga con la normativa nazionale (proprio perché obsoleta), il che crea confusione normativa. Occorre, quindi, fare chiarezza e al tempo stesso aggiornare la norma”, aggiunge Picca Bianchi.

Il Manifesto Start We-Up, promosso dal Comitato Impresa Donna, rappresenta un passo avanti significativo verso una definizione unica e moderna di impresa femminile a livello europeo. “Tutto ciò che esso rappresenta è parte del dibattito europeo e definisce gli obiettivi da porsi, tra i quali: aggregare più stakeholders, sia in Italia che in Europa per intervenire in maniera organica sulle politiche per le imprese femminili e raccogliere dati sull’imprenditoria femminile – non solo a livello nazionale ma anche europeo – che occorrono in particolare per proporre al Parlamento Europeo una nuova e univoca definizione di ‘impresa femminile'”, conclude Picca Bianchi.

Garantire un ambiente più favorevole all’impresa femminile

In conclusione, l’appello di Valentina Picca Bianchi rappresenta una chiamata all’azione per rivedere e modernizzare le normative vigenti, al fine di garantire un ambiente normativo e competitivo più favorevole alle imprese femminili, promuovendo così la crescita economica e l’equità di genere a livello nazionale ed europeo.

Elevare i tassi di attivazione imprenditoriale nelle diverse condizioni in cui l’imprenditorialità stessa si esprime è un obiettivo fondamentale ai fini della crescita e dell’innovazione dei Paesi. La propensione imprenditoriale è infatti un fattore cruciale per accelerare la ripresa e per indirizzarla verso obiettivi di sostenibilità economica, ambientale e sociale.

Questo obiettivo è ancora più impellente in Italia che si posiziona al 36esimo posto sul rank mondiale delle 46 economie censite dal GEM (Global Entrepreneurship Monitor).

Avviato nel 1999 dal Babson College (USA) e dalla London Business School (UK), il GEM è divenuto il principale strumento di studio dell’attività imprenditoriale a livello mondiale. L’indagine relativa al 2023 ha coinvolto 46 paesi con interviste dirette ad oltre 100.000 individui e interviste a circa 2.000 testimoni privilegiati. In Italia, l’indagine presso la popolazione adulta, ha riguardato 2000 persone ed è stata resa possibile grazie al sostegno dell’Universitas Mercatorum.

Impresa femminile, il gap è ancora particolarmente elevato in Italia

Il team GEM Italia, formato da ricercatori di Universitas Mercatorum e del centro per l’innovazione e l’imprenditorialità dell’Università Politecnica delle Marche, ha presentato le principali evidenze lo scorso 16 aprile presso la sala Longhi di Unioncamere, in un evento che ha visto coinvolti esponenti illustri dell’ecosistema imprenditoriale italiano: Giuseppe Tripoli, Segretario Generale Unioncamere, Giorgio De Rita, segretario generale Censis, Claudio Gagliardi, vice segretario generale di Unioncamere, Stefano Scarpetta, direttore per l’occupazione dell’Ocse, Bernardo Mattarella, AD Invitalia, Gaetano Fausto Esposito, direttore del centro studi Tagliacarne, Amedeo Teti, Capo Dipartimento Politiche per le imprese del MIMIT, Giovanni Cannata, Rettore di Universitas Mercatorum, Donato Iacobucci, Professore di Economia Applicata presso l’Università Politecnica delle Marche e Alessandra Micozzi, Professoressa di Economia Applicata e Preside della Facoltà di Scienze dalla Società e della Comunicazione di Universitas Mercatorum.

“Un’evidenza del rapporto è che il gender gap è ancora particolarmente elevato in Italia: eccezion fatta per il 2010, i tassi di attivazione imprenditoriale delle donne risultano circa la metà di quelli osservati per gli uomini”, afferma Alessandra Micozzi, Coordinatrice del team Italia che ha curato l’indagine GEM.

Impresa femminile, l’aspetto culturale è fondamentale

Come si evince dal rapporto, in linea con la maggior parte dei paesi avanzati, anche in Italia i tassi di attivazione imprenditoriale sono significativamente più alti per gli uomini rispetto alle donne.

I tassi di attivazione imprenditoriale femminili più bassi nel 2023 sono in Italia, Polonia, Slovenia e Norvegia. I livelli più alti di imprenditoria femminile sono in Medio Oriente e Africa, e solo in 6 paesi dei 46 censiti dal GEM nel 2023, il tasso di attivazione imprenditoriale femminile è maggiore di quello maschile: Tailandia, Colombia, Equador, Lituania, Marocco e Cina.

La ricerca scientifica ha identificato gli aspetti sociali, culturali, infrastrutturali, educativi, lavorativi e relativi al ruolo delle donne nella società come ostacoli o facilitatori all’imprenditoria femminile.

“L’aspetto culturale è fondamentale in quanto le consuetudini e le aspettative sociali sono fortemente radicate in qualsiasi cultura e l’orientamento all’imprenditorialità riflette, almeno in parte, le credenze dei singoli: il role model tradizionalmente legato alla donna la vede responsabile della famiglia e della casa e questo limita l’accesso a carriere come quelle imprenditoriali che richiedono forte commitment e autostima” afferma Micozzi.

In questo senso, la mancanza di fiducia in sé stesse e la bassa percezione delle proprie capacità, così come l’avversione al rischio sono fattori che possono deprimere la propensione imprenditoriale delle donne. Inoltre, la bassa percentuale di donne che conseguono una laurea nelle discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) fa si che siano meno le donne che si attivano in settori high-tech e knowledge-based.

Altri fattori di contesto che possono influire sul gender gap sono sicuramente la modesta capacità di reperire finanziamenti e la mancanza di infrastrutture che favoriscano la conciliazione lavoro-famiglia.

Un altro dato molto significativo emerge dall’indagine NES (National expert survey), quindi l’indagine sui fattori abilitanti (finanza, cultura, supporto normativo, apertura del mercato, infrastrutture, etc): l’ambito peggiore è rappresentato dal supporto all’imprenditorialità femminile, seguito da quello sulla formazione imprenditoriale.

“Il fatto che il ritardo maggior per l’Italia sia sul supporto all’imprenditorialità femminile e sulla formazione imprenditoriale fa emergere una riflessione importante: occorre investire sull’istruzione e sulla formazione per cambiare una cultura intrisa di stereotipi e pregiudizi” conclude Alessandra Micozzi.