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Temu e Shein travolgono l’Ue: governi ancora troppo lenti. Perché?


Post di Henri Seroux, Senior Vice President Europe di Manhattan Associates –
In tutto il mondo è emersa una pericolosa ossessione per i prodotti economici e di rapida produzione. Sebbene la velocità e il prezzo siano certamente fattori importanti per i consumatori del 2025, preoccupa profondamente vedere aziende cinesi di fast fashion, come Shein e Temu, che sommergono i mercati europei con creazioni emulative derivate, merce ultraeconomica, di scarsa qualità e di provenienza ancora più scadente.
Alimentata da budget pubblicitari miliardari sui social media, da partnership a pagamento con influencer superficiali e media che cercano di accaparrarsi la loro fetta di spesa pubblicitaria miliardaria, la moda ultra-fast travolge quotidianamente ogni Paese europeo, approfittando degli inesistenti diritti dei lavoratori e delle lavoratrici in Cina e delle norme permissive sui dazi d’importazione alle nostre frontiere.
Con una gratificazione quasi istantanea a prezzi imbattibili, brand come Shein e Temu stanno conquistando generazioni come Gen Z e Gen Alpha (in particolare), mentre spremono lentamente la vita dei nostri punti vendita retail e di quei brand europei di proprietà e produzione locale.
A rischio migliaia di posti di lavoro europei nel retail
Stravolgendo i tradizionali player del fast fashion grazie alla sua aggressiva strategia di prezzi bassi, all’ampia presenza online e ai rapidi cicli di produzione, l’aumento della quota di mercato di Shein e Temu sta mettendo sotto pressione retailer e brand consolidati che producono in Europa, vendono attraverso reti di punti vendita e offrono centinaia di migliaia di posti di lavoro nel settore del retail in tutto il continente.
I fast fashion cinesi stanno forzando i player europei ad adattare le loro pratiche con un impatto sulla redditività, in particolare tra le aziende più piccole che faticano a competere con prezzi così bassi.

Il logo di Shein e il suo negozio web a maggio 2024. REUTERS/Dado Ruvic
Con una presenza in oltre 150 Paesi e più di 100 milioni di utenti attivi mensili nell’Unione Europea, la sua portata è notevole. Al di là del raggio d’azione, tuttavia, entrambe le aziende sembrano sfruttare alcune considerevoli lacune fiscali, rendendo ancora più difficile per i retailer locali competere su un piano paritario. Ad esempio, le vendite di Shein nel Regno Unito raggiungono oltre 1 miliardo di sterline, ma il retailer cinese paga solo 2 milioni di sterline di tasse.
Shein e Temu hanno da sempre sfruttato una scappatoia che esclude gli articoli di basso valore dai dazi all’importazione. Questa scappatoia sta per finire, poiché l’Unione europea intende imporre dazi all’importazione sui beni a basso costo, e il potenziale cambiamento si inserisce in un contesto di crescente inquietudine tra i retailer con sede nell’Europa continentale, nel Regno Unito e negli Stati Uniti per l’aumento della concorrenza da parte dei marketplace cinesi: un cambiamento che non arriverà mai abbastanza presto.
Obiettivi di sostenibilità e ambientali messi da parte
La produzione di moda avviene in supply chain lunghe e complesse. Dalla coltivazione o estrazione delle fibre, alla tessitura o maglieria, alla tintura, al trattamento, al taglio e alla cucitura dei capi, il modello commerciale del fast fashion si basa sull’uscita frequente di nuove collezioni a prezzi bassi.
Con un forte accento sulla riduzione dei costi di produzione e sul time-to-market, i fornitori si trovano sotto una pressione significativa per rispettare scadenze strette e margini ridotti, portando inevitabilmente a situazioni in cui si fanno compromessi e gli obiettivi di sostenibilità e ambientali vengono di fatto messi da parte. Nel 2022, Shein ha annunciato il lancio del suo programma di re-sale, una piattaforma online peer-to-peer per i consumatori statunitensi per comprare e vendere prodotti usati, ma questo è stato prontamente accolto con accuse di greenwashing.
I prodotti di scarsa qualità finiscono (come ben si sa), poche settimane o mesi dopo, come montagne di tessuti scartati nelle discariche, o peggio ancora nelle periferie o sulle spiagge africane, a migliaia di chilometri dall’Europa e ancora più lontano dal loro punto di origine in Cina, il che giustifica pienamente l’etichetta di greenwashing.
Come non citare anche le emissioni di gas serra generate dai due colossi cinesi? Per garantire consegne rapide ai loro clienti, si affidano in larga misura al trasporto aereo, che inquina da 20 a 30 volte di più rispetto al trasporto marittimo. Secondo uno studio condotto lo scorso anno da Cargo Facts Consulting, Temu e Shein spediscono insieme circa 9.000 tonnellate di merci in tutto il mondo ogni giorno – l’equivalente di quasi 90 aerei cargo Boeing 777. Per mettere le cose in prospettiva, se queste 9.000 tonnellate fossero spedite nel Regno Unito, rappresenterebbero più di 32.000 tonnellate di CO2 al giorno.
Il modello di business di Temu e Shein non è etico
Il modello di business della moda ultraveloce non solo genera enormi volumi di gas a effetto serra e rifiuti tessili. Ad aggravare la questione, non esistono leggi o regolamenti universali che disciplinino la sostenibilità, rendendo quasi impossibile far rispettare le regole.
In seguito a un documentario britannico sulle sue pratiche, Shein ha annunciato che tutti i suoi fornitori devono rispettare il proprio codice di condotta, basato sulle convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e sulle leggi e normative locali. Inoltre, ha affermato che i fornitori vengono sottoposti ad audit da parte delle principali agenzie di verifica a livello globale, che hanno effettuato oltre 2.600 controlli negli ultimi 12 mesi. Tuttavia, con più di 6.000 fornitori, è evidente che controlli regolari estesi sono impossibili, sollevando interrogativi sui diritti umani.

Lavoratrici in una fabbrica di vestiti prodotti per Shein a Guangzhou, princia del Guangdong, lo scorso 1 aprile. REUTERS/Casey Hall
Anche la sua iniziativa filantropica, che prevede la creazione di un fondo climatico da 50 milioni di dollari in cinque anni, di cui 15 milioni destinati a The OR Foundation per affrontare il problema dei rifiuti tessili in Ghana, appare agli occhi dei ricercatori come una forma di “social offsetting”. Come per il carbon offsetting, i critici ritengono che l’iniziativa non affronti la causa principale del problema, ovvero le enormi quantità di abbigliamento prodotte.
Essenzialmente, è necessario rallentare i cicli del settore fashion e realizzare meno prodotti. Non si dovrebbe considerare solo il costo ambientale dell’acquisto di fast fashion, ma anche il costo umano, che consiste nelle persone che realizzano i nostri vestiti.
Perché l’aggressione di Temu e Shein non ha conseguenze?
Questa nuova ondata di fast fashion cinese è il risultato di una distorsione e di un uso improprio delle supply chain e della tecnologia digitale, ed è qualcosa che le società e i governi devono combattere e fermare. Minaccia le nostre economie, i nostri brand, i nostri cittadini (sia acquirenti che addetti alle vendite), la nostra etica e il nostro stesso ambiente.
Per quanto tempo Temu e Shein continueranno a passare inosservati ai nostri governi? Dopotutto, quando c’è volontà politica, l’azione può essere rapida.
Il conto alla rovescia è iniziato: anche per il fast fashion cinese in Europa il tempo sta per scadere.