Perché Brexit non si farà (e come dovrebbe muoversi l’Europa)

scritto da il 30 Giugno 2016

All’indomani del referendum, quando David Cameron ha annunciato le sue dimissioni e la decisione di passare al prossimo governo britannico il compito di notificare al Consiglio europeo la volontà del Regno Unito di uscire dall’Ue – in linea con l’articolo 50 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea – quasi nessuno ne ha intuito l’importanza per il futuro della Brexit. Ogni giorno che passa, tuttavia, quella decisione assume un’importanza sempre più grande e potrebbe fornire uno strumento politico e legale unico per ribaltare il verdetto del 23 giugno.

La mossa di Cameron
La posizione prudente di un brexiter come Boris Johnson sulla necessità di ritardare la notifica anche oltre ottobre a molti è sembrata strana. Ma non è un caso, come ha fatto notare The Independent. Il nuovo primo ministro, che i Tories nomineranno dopo l’estate, si dovrà assumere la responsabilità di una scelta storica, che potrebbe spaccare il Regno Unito, come ha fatto ben capire il first minister scozzese Nicola Sturgeon.

Pertanto, la mossa di Cameron potrebbe di fatto spingere Johnson a non voler rischiare la sua carriera politica diventando il primo capo del governo che ha scisso il Regno Unito. In questo scenario d’incertezza, infatti, è plausibile che nessun candidato dei Tories si voglia prendere questa responsabilità e che non sia sufficiente un meccanismo democratico interno ad un partito a doversi farsi carico di una tale decisione.

Il risultato potrebbero essere le elezioni anticipate, come richiesto anche da Nick Clegg nel suo intervento alla House of Commons. Una volta aperto questo scenario, qualsiasi risultato sarebbe possibile.

La sensazione è che tanti dal lato Brexit si siano resi conto che la decisione di abbandonare l’UE non è stata ben pensata, mentre molti leader hanno deliberatamente mentito riguardo ai benefici e costi reali dell’uscita semplicemente per fare fuori la parte ostile nei rispettivi partiti e ottenerne il controllo.

Le elezioni anticipate lasceranno così spazio ai vari candidati di rimettere (o meno) la notifica della Brexit al Consiglio europeo all’interno del loro programma, di fatto legando la loro elezione alla notifica (o meno) del risultato del referendum.

La reazione dei mercati internazionali, con perdite diffuse, in tutti i settori, simili a quelle della crisi del 2007, la sterlina in caduta libera (ai livelli di 30 anni fa), la perdita della tripla A e la perdita dello status di seconda economia d’Europa, sono ragioni sufficienti per fare cambiare opinione a molti brexiters, cercando di rimediare con le elezioni anticipate.

Un altro segnale del cambiamento di opinione è il risultato delle elezioni in Spagna, che ha rovesciato l’esito previsto di una vittoria del partito anti-establishment Podemos. La paura di un effetto Brexit lo ha relegato in terza posizione e fatto rivincere l’attuale (scarso) governo di Mariano Rajoy. Chi riuscirà a candidarsi in Gran Bretagna con l’obiettivo di ribaltare il referendum, pertanto, potrebbe ottenere voti bipartisan e, qualora vincesse, non ci sarebbe più Brexit, soprattutto se la posizione del parlamento rimarrà a favore dell’Unione Europea.

Cosa dovrebbe fare l’Europa
La posizione degli altri stati membri e delle istituzioni europee è certamente complessa. Mentre è giusto chiedere al Regno Unito di fare le valigie al più presto per evitare l’effetto incertezza sull’economia europea, l’attesa potrebbe essere il prezzo da pagare per evitare una fuoriuscita che forse costerebbe molto di più a tutti i paesi europei.

Intanto, i politici europei potrebbero continuare a pressare i candidati tories ad esprimersi sulla volontà (o meno) di notificare la fuoriuscita prima di ottobre, così da creare già da subito le condizioni per le elezioni anticipate. Questa pressione potrebbe andare avanti con la rimozione dei rappresentanti del governo inglese da tutte le posizioni politiche di potere anche senza una formale uscita, com’è avvenuto nel caso delle dimissioni del Commissario alla stabilità finanziaria, Lord Jonathan Hill.

Soprattutto, rimane la necessità di rispondere a milioni di cittadini che, con il voto su Brexit e altre potenziali richieste di referendum in tutt’Europa, si mostrano insoddisfatti dell’attuale governance dell’Europa. Siamo in presenza, infatti, di un sistema istituzionale ingessato dallo strapotere dei governi, che operano nell’esclusivo interesse dei propri campioni nazionali, in una logica del ‘do ut des’. Basta vedere la guerra in atto per accaparrarsi le posizioni di potere dei britannici nelle istituzioni europee.

Il mercato interno è oramai fermo da anni, con mercati come quello tedesco e svedese tra i più chiusi in Europa (secondo gli indicatori dell’OCSE), mentre si chiede alla Grecia di diventare un’economia aperta e flessibile (verso chi?). C’è qualcosa che non va in questa governance e più si lasceranno gli stati nazionali a guidare questo processo, più aumenteranno le conflittualità e le decisioni incomprensibili.

È ora di avviare una discussione vera sulle riforme delle istituzioni che escluda i governi nazionali e coinvolga rappresentanze di parlamenti nazionali, guidati dal parlamento europeo, con la creazione di una costituente che discuta piani di riforme istituzionali nei prossimi 3-5 anni.

Con l’aiuto di gruppi di esperti su temi specifici, l’assemblea potrebbe proporre due o tre piani alternativi di modifica dei Trattati che includano un nuovo processo legislativo europeo, un nuovo mandato per le istituzioni europee e che limiti ulteriormente il ruolo degli stati nazionali a favore di istituzioni che rispondano direttamente ai cittadini e non agli interessi elettorali dei governi.

I cambiamenti potrebbero prevedere un parlamento europeo con più ampi poteri di indirizzo e controllo sulle decisioni intergovernative, con la nomina di un esecutivo dedicato all’Eurozona in aree di competenza specifiche, mentre il resto rimarrebbe a livello nazionale.

Una volta che i parlamenti nazionali abbiano approvato un piano di riforme comune, un referendum in contemporanea in tutti i paesi europei potrebbe essere un esercizio salutare di democrazia, questa volta più informato di quello che ha condotto al disastro d’Oltremanica.

Twitter @diegovaliante