Tra i Rocket men miliardari c’è anche l’Italia che guarda alle stelle

scritto da il 11 Giugno 2018

L’autore di questo post, Raffaele Perfetto, ha acquisito esperienza decennale in ambito Oil & Gas con una Major Oil Company. Ha conseguito un MBA in Oil & Gas Management nel 2016. Scrive preferibilmente di energia e geopolitica –

Ultimamente non si parla altro che di razzi: di quelli iraniani, degli S-400 russi, dell’americano THHAD, che in realtà è un sistema anti-razzo, e dei razzi coreani di Mr Rocket Man (così il presidente Trump aveva affettuosamente battezzato il suo collega Kim Jong-Un prima della quasi candidatura al premio Nobel per la pace).

Qui parliamo tuttavia di lanci spaziali che sono tutt’altra cosa e della relazione tra energia e spazio.

Secondo George Friedman, fondatore e amministratore delegato del famoso think tank americano Stratfor, arriveremo a produrre energia dallo spazio e la trasferiremo direttamente sulla Terra. Ne parla nel suo libro “The Next 100 Years: A Forecast for the 21st Century” (scritto nel 2010 e non ancora tradotto in Italia).

Secondo l’autore la produzione energetica spaziale sarà facilitata da necessità militari, analogamente a quanto avvenuto negli anni cinquanta negli States con la realizzazione del sistema di connessione autostradale “interstate highway system”. A quanto pare l’allora presidente USA prese spunto, durante la seconda guerra mondiale, dall’efficienza tedesca nel movimentare divisioni e materiali da un fronte all’altro. Questi investimenti nei trasporti ebbero forti ricadute economiche indirette oltre alla costruzione delle strade stesse ovviamente. Furono abbattuti tempi e costi di trasporto. Furono rese accessibili vaste aree industriali ed estesi i tessuti urbani esistenti. Senza la giustificazione militare fornita dal presidente Eisenhower “interstate highway system” non sarebbe stato economicamente fattibile.

Altro esempio degli anni ’70, si sa, è Internet, nata proprio da investimenti e ricerca in ambito militare.

Torniamo all’energia e allo spazio: pannelli fotovoltaici in gran quantità, posti in orbita geostazionaria o sulla superficie della Luna, saranno usati per generare energia elettrica. L’energia elettrica verrà poi “sparata” sulla Terra attraverso microonde, entrando in quelle che saranno le nostre reti (più intelligenti ed evolute). Tutto questo, secondo le stime di Friedman, potrebbe avvenire tra quaranta-cinquanta anni.

Ci vorranno tanti pannelli ma, come è noto, nello spazio l’unica cosa che non manca è lo spazio. Inoltre non ci sono nuvole che riducono efficenza e i ricevitori sulla Terra potrebbero essere posizionati per avere costantemente energia 24 ore al giorno. L’unico punto critico, sottolinea Friedman, riguarderebbe la collocazione dei ricevitori di energia i quali dovrebbero trovarsi in zone isolate a causa della forte concentrazione di energia; ad ogni modo creerebbero meno problemi delle centrali nucleari e meno inquinamento delle fonti fossili.

FANTASCIENZA? SÌ E NO
In effetti la premessa fin qui fatta sembra abbastanza fantascientifica, tuttavia dobbiamo osservare alcuni punti che dimostrano quanto potrebbe essere vicina alla realtà questa visione. Innanzitutto i pannelli fotovoltaici o i sistemi di generazione di energia elettrica spaziale, dovranno essere “sparati” nello spazio. Prima di produrre energia dai pannelli o chi per essi, questi infatti devono essere portati nello spazio. Quindi abbiamo bisogno che si creino dei flussi di trasporto più frequenti.

In questa ottica si inserirebbero i tre cosiddetti Space Barons, come qualcuno li definisce, e cioè Jeff Bezos con la sua Blue Origin, Elon Musk con SpaceX e Richard Branson con la Virgin Galactic.

In un recente articolo del Wall Street Journal, Elon Musk afferma che costruire un missile per un solo lancio è come creare un aereo 737 che viene usato per un solo viaggio e poi buttato. Il segreto del successo secondo Musk risiederebbe nel creare dei missili che siano poi riutilizzabili. La riduzione dei costi deriva proprio della capacità dell’industria aerospaziale di riutilizzare tutto “l’hardware”. Lo stesso approccio è stato utilizzato anche da Jeff Bezos e da Richard Branson.

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Oltre all’approccio del riutilizzo alcuni aspetti della reingegnerizzazione del processo vanno menzionati, come ad esempio la costruzione in “orizzontale” dei missili anziché in “verticale” come faceva la NASA. Lo sviluppo del magazzino in orizzontale ha permesso di utilizzare appunto warehouse (magazzini) già esistenti o comunque degli approcci ben consolidati. Beh, sul fronte magazzino, Amazon ha tanto da dire…

Tra le compagnie che vogliono spingere il turismo spaziale e catalizzare l’interesse sull’industria in generale, notiamo qualche piccola differenza di tipo tecnico. SpaceX e Blue Origin usano la retropropulsione per raggiungere la quota prima di attivare i motori del razzo una volta raggiunta l’orbita desiderata. Virgin Galactic invece porta il razzo in quota usando una sorta di aereo spaziale.

Nelle ultime settimane ha fatto notizia l’apertura in sud Italia del primo aeroporto spaziale. Come riportato dal Sole 24 Ore, presto vedremo un vero e proprio spazioporto in Puglia, candidato a diventare un importante polo per lo sviluppo del business spaziale.

SpaceX sarebbe quella che è un po’ più avanti per quanto riguarda la commerciabilità del suo business: ha infatti ottenuto un contratto dalla NASA tra le compagnie che si occuperanno del trasporto verso la stazione di ricerca spaziale International Space Station. Qualcuno dice che era ora, dal momento che da quando lo space shuttle fu ritirato nel 2011 gli astronauti americani della NASA chiedevano anche “qualche passaggio” ai russi per raggiungere la stazione di ricerca. SpaceX è riuscita a vincere la gara strappando la vittoria alla United Launch Alliance, una joint venture di colossi del calibro di Lockheed Martin e Boeing, che offriva lanci a 400 milioni di dollari (SpaceX a 100 milioni di dollari). Quando al presidente di SpaceX veniva chiesto di spiegare la differenza di costi, semplicemente rispondeva: “Non so come costruire un missile da 400 milioni di dollari”.

Bezos, a quanto pare vende ogni anno circa un miliardo di dollari di azioni Amazon per finanziare il suo “giocattolino” Blue Origin e, come riportato di recente sul Wall Street Journal, vede la Luna come una fase intermedia nello sviluppo delle capacità spaziali per iniziare ad allenarsi e testare le ultime tecnologie soprattutto in ambito robotico/unmanned fuori della Terra prima di lanciarsi in imprese più ardite.

Insomma le cose sono in movimento, siamo agli inizi, ma la diffusione sarà proprio necessaria a buttar giù i prezzi.

SENZA LANCI NELLO SPAZIO NON CI VAI
Tra le prime otto compagnie al mondo che fanno lanci abbiamo un’italiana: la AVIO Spa quotata alla borsa di Milano nel 2017 con un valore di mercato di circa 0,35 miliardi di dollari.

L’industria dei lanci vale circa 5,7 miliardi di dollari e rappresenta la parte più critica della filiera (come possibile vedere in figura) perché è praticamente il portale di accesso.

A seguire, nella filiera abbiamo la fabbricazione di satelliti, il cui mercato si stima intorno ai 14 miliardi di dollari, quella delle attrezzature di ricevimento di terra (60 miliardi di dollari) e poi abbiamo quella che riguarda i servizi satellitari, che vale circa 140 miliardi di dollari. Tra i clienti finali passiamo da aziende di telecomunicazione come Vodafone, a quelle di intrattenimento come Sky, alle compagnie petrolifere, alle banche fino ai grandi colossi della chimica e dell’agricoltura come Cargill e Monsanto. L’industria dei lanci è in forte crescita, soprattutto i satelliti di peso inferiore a alle 1.5 tonnellate.

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E gli italiani hanno sempre rappresentato un’eccellenza in questo settore. Il binomio spazio ed energia è presente fin dagli inizi.  Siamo in Kenia, vicino Malindi. Non è noto a tutti infatti che la prima base di lancio equatoriale italiana nacque riadattando una piattaforma dell’Eni di Enrico Mattei, rimorchiata nelle acque di Ungwana Bay, ribattezzata “Santa Rita”. Il resto è storia.

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