Se non ora, quando? L’occasione da non mancare per il rientro dei cervelli

scritto da il 01 Ottobre 2020

La pandemia da Covid-19 ha innescato una crisi economica paragonabile a quella della Grande Depressione degli anni venti. Nel 2020 si è assistito ad una contrazione dell’attività economica in doppia cifra in gran parte dei Paesi sviluppati e nei mercanti emergenti. Per il 2020, il Fondo Monetario Internazionale stima una contrazione del GDP nell’ordine del 5% a livello globale. La crisi occupazionale che ne deriverà, e che come al solito seguirà quella economica, avrà effetti molto pesanti dal punto di vista sociale.

A fronte di questa crisi, c’è stata una risposta di politica economica imponente a livello globale, con governi e banche centrali impegnati nell’approvazione e implementazione di larghi pacchetti di stimolo fiscale e monetario nell’ordine di svariati trilioni di dollari. In Europa, questa reazione di politica economica si è tradotta in misure di stimolo fiscale da parte dei governi nazionali, di accomodamento monetario da parte della Banca Centrale Europea ed, infine, nell’adozione di politiche di rilancio dell’attività economica a livello comunitario, con l’approvazione del pacchetto di stimolo Next Generation EU, che include la Recovery and Resilience Facility. Questo insieme di risposte continentali viene comunemente indicato, nel linguaggio corrente e giornalistico, come “Recovery Fund”. Per brevità e immediatezza di esposizione, adotteremo anche noi questa convenzione.

Uno dei punti cardine del Recovery Fund, è che i fondi vengono erogati dalle istituzioni europee solo a fronte di progetti volti ad introdurre un cambiamento strutturale nell’economia in questione, con particolare riferimento alle linee guida della commissione Von Der Leyen, volte a incoraggiare lo sviluppo sostenibile e la trasformazione digitale dell’economia. L’idea sottostante al Recovery Fund consiste nel fatto di cogliere l’occasione della crisi per introdurre un cambiamento strutturale, un cambio di fase che in tempi “normali” non si sarebbe prodotto. In questo senso, a mio avviso bisognerebbe cogliere l’occasione del Recovery Fund per invertire una tendenza ormai consolidata negli anni, ma non per questo meno negativa, all’emigrazione all’estero dei nostri talenti: un fenomeno che è stato rappresentato negli anni con l’espressione “fuga dei cervelli”, che a mio avviso ne minimizza la portata, ma che – ancora una volta – adotteremo per brevità ed immediatezza di esposizione.

Un Fenomeno Di Portata Storica E Dimensioni Demograficamente Rilevanti
Fiumi di inchiostro sono stati versati per descrivere la vastità del fenomeno [1]. In un recente studio pubblicato dall’associazione Talented Italians In the UK [2] si parla apertamente di “terza diaspora” degli Italiani, dopo quella post-unitaria del 1870-1920 e quella seguita alla fine della seconda guerra mondiale (1948-1970), per descrivere l’esodo di Italiani verso altri paesi in cerca di lavoro e di una speranza di una vita migliore, o più appagante. L’analisi settoriale dello studio certifica che il fenomeno non riguarda più solo coloro che si impegnano nella ricerca scientifica o nella carriera accademica (che si potrebbe frettolosamente catalogare come “cervelli in fuga”), ma ormai riguarda tutti i settori dell’attività economica, dalla medicina alla finanza, dall’ospitalità alla manifattura, dalle costruzioni alle attività professionali.

Ogni anno, centinaia di migliaia di Italiani hanno lasciato la madrepatria negli ultimi decenni, fino a far giungere gli iscritti all’AIRE (l’anagrafe italiana residenti all’estero) la ragguardevole cifra di quasi 6 milioni. Questa cifra rappresenta evidentemente una sottostima, considerando che non tutti coloro che lasciano l’Italia si iscrivono all’AIRE (per esempio, per continuare a godere dell’assistenza sanitaria gratuita in Italia). A livello cumulato, si stima ci siano ormai 70 milioni di Italiani o cittadini di origine Italiana nel mondo, a seguito delle tre ondate migratorie menzionate in precedenza. Una cifra superiore a quella degli attuali residenti del paese, di circa 60 milioni, stando all’ultimo censimento.

Il Costo Astronomico Della Diaspora degli Italiani
Gli effetti economici della diaspora degli Italiani, ancorché molto difficili da stimare, sono facilmente intuibili. Se il PIL di un paese misura la somma dei redditi prodotti dai residenti, è del tutto evidente che ogni qualvolta un residente Italiano si trasferisce all’estero, i suoi redditi andranno ad incrementare il PIL del paese ospite, e non figureranno in quello del paese di origine [3]. Ma dati i ben noti meccanismi di moltiplicazione economica, un reddito prodotto all’estero genera consumi ed investimenti all’estero (e non nel paese di origine). Così come una famiglia costituita all’estero costituisce un formidabile volano economico per il paese ospitante, che non viene colto dal paese di partenza.

Per usare una terminologia derivante dall’ambito giuridico civilistico, al fenomeno del “lucro cessante” derivante dall’emigrazione si aggiunge quella del “danno emergente”, e cioè dalle spese sostenute per formare il “cervello con la valigia” in termini di educazione, spesa sanitaria, sociale ed assistenziale, solo per limitarsi a quelle immediatamente riscontrabili.
Cercando di mettere insieme questi elementi in una stima del costo dell’emigrazione italiana all’estero, il Centro Studi di Confindustria [4] ha stimato che (anche solo limitandosi agli effetti diretti e tralasciando gli imponenti effetti moltiplicativi) ogni anno la fuga dei cervelli costa all’Italia circa l’1% di PIL. Ripeto, ogni anno.

Le Cause Della Diaspora E Gli Interventi Fatti
Questo fenomeno è talmente evidente che da parecchi anni si è provato a porvi rimedio. Per esempio sono stati approntati diversi piani di “controesodo”, per lo più basati su una serie di incentivi fiscali al rientro, quali una cospicua riduzione del carico tributario per un certo numero di anni dopo il rientro [5].

Questi piani hanno senz’altro avuto il merito di cercare di porre un argine al fenomeno, ma non lo hanno certo fermato, né ne hanno invertito la tendenza. Verso alcune destinazioni, anzi, si è assistito ad un’accelerazione negli ultimi anni (per esempio, in UK, anche dopo Brexit). Questo deriva dal fatto che la fuga dei cervelli può essere solo in minima parte spiegata dall’eccessivo carico tributario sulle famiglie e sui lavoratori (che pure esiste), dovendosi invece ascrivere ad una serie di cause strutturali di cui l’esodo è solo la logica conseguenza.

Tra queste è immediato individuare, in ordine sparso, la mancanza di opportunità di lavoro, (specialmente nel sud del paese, specialmente per le donne); il nepotismo, il clientelismo e la corruzione (reale e percepita); la presenza della criminalità organizzata su vaste porzioni del territorio nazionale; l’eccessiva ed oppressiva burocrazia; la mancanza o insufficienza di infrastrutture materiali ed immateriali; l’arretratezza tecnologica in molti settori; le chiusure corporative e la rigidità dei contratti di lavoro in alcuni casi, o l’eccessiva flessibilità in altri; la difficoltà di accesso al credito per giovani in assenza di garanzie reali da parte della famiglia di origine; la scarsa disponibilità del capitale di rischio per nuove iniziative imprenditoriali; il declino di interi settori manifatturieri una volta capaci di offrire opportunità di lavoro; la dimensione asfittica dei mercati finanziari, soprattutto non bancari; lo scarso collegamento tra il mondo degli studi e quello del lavoro; le risorse irrisorie spese per la ricerca e sviluppo, sia a livello pubblico che privato (rispetto ai paesi nostri diretti concorrenti); la sottovalutazione del merito rispetto a criteri di anzianità e appartenenza. E si potrebbe agevolmente continuare con l’elenco delle cause che hanno indotto milioni di nostri connazionali a lasciare l’Italia nei decenni scorsi, a sentire le loro risposte alla domanda su cosa li abbia spinti al trasferimento all’estero. Questi motivi, agli occhi dei nostri lettori, suonano familiari o campati per aria da zelanti cervelli con la valigia?

Aggredire Le Cause Per Ridurre L’Effetto
Per anni, parlando del fenomeno, policymakers anche considerati “illuminati” o “giovani” hanno fatto spallucce, trincerandosi dietro la trita espressione che “un’esperienza all’estero fa sempre bene” e che quindi il fenomeno andasse addirittura incoraggiato [6]. A questo punto, a mio avviso la misura è colma, e tali atteggiamenti vanno ormai apertamente stigmatizzati, non potendoli più giustificare come semplici boutade. Un’esperienza all’estero è un’ottima cosa, se prevede un percorso di rientro, che permetta al cittadino di riportare in patria le esperienze acquisite all’estero, altrimenti si tratta di un viaggio di sola andata di cui beneficia solo il paese ospitante, a fronte dei costi di formazione e crescita sostenuti dal paese di partenza.
In questo senso, basterebbe imparare da paesi anche molto vicini a noi e simili per molti aspetti a noi, come la Francia. Di francesi in giro per il mondo ce ne sono milioni, ed in posizione di vertice ce ne sono decine di migliaia, così come di Italiani. Ma la differenza è che la Francia, prima o dopo, li riporta quasi tutti a casa, offrendo loro opportunità di impiego a carriera all’altezza del curriculum e delle esperienze conseguite all’estero. Lo stesso non si può dire dell’Italia [7]. Anzi il potenziale rientrante viene spesso vissuto con fastidio, come qualcuno che viene a rompere gli equilibri consolidati, i percorsi di carriera predefiniti, gli equilibri di potere, ed in quanto tale, da respingere. Al punto che non pochi di coloro che sono rientrati, per esempio attratti dall’incentivo fiscale, sono poi ripartiti una volta scontratisi con il “muro di gomma” descritto in precedenza.

Ora, se le cause della partenza sono quelle sinteticamente elencate di sopra è ovvio che una riduzione significativa del fenomeno della fuga dei cervelli si può solo avere aggredendo sistematicamente e massicciamente le cause che lo hanno generato, che come abbiamo visto sono molteplici, interconnesse, molto radicate e stratificate nel tempo e nel territorio [8].

In questo senso, i fondi del Recovery fund potrebbero e dovrebbero essere impiegati a questo fine, visto che si ottempererebbe in pieno al requisito primo di partenza (al di là dell’etichetta “green” o “tech” che si voglia dare a questo o quel provvedimento) e cioè che i “soldi dell’Europa” non vadano dispersi in mille rivoli di fantasiosa spesa corrente, ma piuttosto impiegati per finanziare quelle riforme strutturali “di seconda generazione” [9] che permetterebbero all’Italia di riguadagnare competitività nel mondo post-covid.

Di esempi di come strutturare una piano coerente di rilancio della nostra economia ce ne sono molti, ed alcuni molto ben fatti [10]. Qui si propone di mettere l’accento su quelle riforme che più direttamente andrebbero nella direzione di tamponare l’esodo dei nostri connazionali. Tra queste riforme, particolare enfasi dovrebbero avere le proposte rivolte a creare un ambiente di business più favorevole (non solo in termini fiscali) ed un substrato culturale più predisposto verso il talento e l’innovazione, rispetto alla seniority e alla conservazione.

Vista L’incertezza, I Nostri Connazionali Pensano Al Rientro: Ma Sapremmo Accoglierli?
Chiaramente, si sarebbe detto una volta, una domanda nasce spontanea: Ma siamo proprio sicuri che i nostri connazionali vogliano rientrare? Secondo un recente rapporto dell’Associazione Talents in Motion, il 71% degli espatriati intervistati aspirerebbero a rientrare. Questa percentuale è molto alta, ancorché in calo rispetto all’74% dell’anno precedente. Come prima motivazione si troverebbe il ricongiungimento familiare (82%). Inoltre, il 16% degli intervistati ritiene che l’Italia possa offrire opportunità di carriera e di crescita professionale. Un dato sembra emergere chiaramente: di fronte ad una prospettiva lavorativa e familiare positiva, gran parte dei nostri connazionali sarebbe pronta a tornare.

Tale percentuale è ovviamente destinata a salire a causa della pandemia, non solo perché purtroppo la perdita del lavoro all’estero costringerà al rientro diversi emigrati, ma perché le nuove ed emergenti forme di organizzazione del lavoro potrebbero incentivare un rientro in Italia, anche a fronte di attività lavorative domiciliate all’estero, sfruttando le possibilità derivanti da telelavoro e dallo smart working in generale [11].

In effetti, non pochi connazionali all’estero sono disposti a riconsiderare la loro scelta in una fase di grande incertezza economica e sociale e in presenza di un deciso cambio di fase e paradigma che potrebbe far diventare interessante una prospettiva finora scartata, data la necessità di svolgere la propria attività lavorativa risiedendo all’estero. Quindi sembrerebbe proprio che le stelle si stiano allineando per favorire un possibile rientro dall’estero per molti dei nostri connazionali, se venissero eliminate quelle cause di fondo che hanno determinato l’esodo in prima istanza.

Il Rischio Dell’inazione: Una Nuova Ondata Migratoria E L’insostenibilità Del Debito Pubblico
Cosa succederebbe se l’Italia, invece di cogliere l’occasione per questa storica inversione di tendenza, si lasciasse sfuggire questa opportunità? Gli effetti mi sembrano evidenti. Una caduta del PIL di quasi il 10% con un prevedibile incremento della disoccupazione e dei fallimenti aziendali, con l’ulteriore restrizione delle opportunità di lavoro, sembrano essere la premessa di una nuova, imponente ondata migratoria dal nostro paese verso quelli che hanno reagito meglio alla crisi (come la Germania). Come successe all’indomani della crisi del debito sovrano nell’Eurozona del 2011, che vide un’impennata degli espatri.

Direi quindi addirittura che ancor prima di riportare a casa chi già è uscito, bisognerebbe mettere mano al più presto alle riforme di cui sopra per cercare di arginare una massiccia andata di nuove partenze. Lo stato ha tutto interesse a farlo, dato che l’altra faccia della medaglia dell’emigrazione è l’insostenibilità del debito pubblico. Infatti, ad ogni espatriato, per la cui formazione, mantenimento etc. lo stato ha speso denaro (spesso in deficit, così contribuendo alla crescita del debito) corrisponde – come visto in precedenza – anche una mancata crescita di PIL: pertanto, l’emigrazione peggiora il rapporto debito/PIL sia dal lato del numeratore che del denominatore. Arginare il fenomeno di nuova emigrazione, o incentivare il rientro, invece avrebbe un effetto benefico sul rapporto debito/PIL, visto l’incremento di reddito (e di entrate fiscali) che ne conseguirebbe.

In effetti, l’emigrazione di un giovane formato e cresciuto in patria costituisce un trasferimento fiscale indiretto dal paese di origine a quello di destinazione. Visto che nell’ambito dell’Eurozona il paese che attrae maggiormente i giovani lavoratori da tutta Europa è la Germania, sarebbe giusto che che la Germania, beneficiaria di trasferimenti fiscali indiretti da tutta la “periferia” dell’Eurozona, desse il via libera a quell’unione di trasferimento che sancirebbe il completamento del processo di integrazione Europea. Cosicché si potrebbe finalmente parlare di circolazione dei cervelli, piuttosto che di loro emigrazione, o peggio ancora, fuga.

Conclusione: “Se Non Ora, Quando?”
In conclusione, mi pare di aver illustrato le ragioni per cui in questa fase sarebbe opportuno concentrare gli sforzi per permettere a chi è uscito di poter tornare in patria e contribuire al rilancio del paese, nello spirito del “Recovery” fund e della Next Generation EU. Ecco perché mi sento di ripetere: “Se non ora, quando?”

Twitter @brunello_rosa

 

NOTE

[1] Tra i contributi più significativi all’analisi del fenomeno appaiono le pubblicazioni della Fondazione Migrantes, con i suoi rapporti annuali “Italiani nel Mondo” (qui l’edizione 2019) e lo studio “Game of Brains. 21st century Italian emigration” by Algebris Policy And Research Forum and Tortuga. 

[2] Questo studio è stato presentato il 28 Novembre 2018 alla Camera dei Deputati ed il 21 Gennaio 2019 al Senato della Repubblica Italiana. 

[3] Esiste anche la definizione di Prodotto Nazionale Lordo, che misura la somma dei redditi prodotti dalla comunità nazionale, sia in patria che all’estero. Ma quando le “rimesse degli immigrati” – che a spanne costituiscono la differenza tra le due misure – sono molto ridotte (come nel caso dell’Italia) riferirsi al PIL o al PNL fa poca differenza. 

[4] CONFINDUSTRIA, Le sfide della politica economica, Centro studi, Scenari economici, 2017, n30. 

[5] In una recente risposta all’interpello n. 274 del 26 Agosto 2020, l’Agenzia delle Entrate ha stabilito che la legge 122/2010 (cosiddetta Controesodo) si applica non solo ad istituzioni accademiche ma anche ad altri soggetti che offrano una posizione al lavoratore di rientro. 

[6] Fino alla famigerata espressione dell’ex Ministro del Lavoro Giuliano Poletti, per cui “certi giovani è meglio non averli tra i piedi”. 

[7] Tristemente noto è il caso di Samantha Cristoforetti (Chiamata Astro-Samantha, dal nome del suo account Twitter) per essere stata la prima donna italiana ad andare nello spazio. A inizio 2020, Samantha Cristoforetti ha lasciato l’Aeronautica Militare Italiana, apparentemente a seguito di una promozione di un suo collega con meno titoli, per continuare a lavorare solo per l’Agenzia Spaziale Europea. 

[8] In questo senso, concordo con l’articolo di Giulia Pastorella e Fabio Migliorini, apparso recentemente su Econopoly. Non concordo invece nella parte in cui si sostiene che un massiccio rientro di italiani dall’estero non costituirebbe uno shock positivo all’economia del paese. 

[9] Seconda generazione rispetto alle solite ricette di liberalizzazione dei mercati dei prodotti, dei servizi e del lavoro, peraltro anch’esse rimaste largamente inuattuate. 

[10] A questo proposito, si può citare il piano organico presentato dall’Associazione Minima Moralia. 

[11] A mio avviso bisognerebbe rifuggire dalle semplici sirene del cosiddetto “south working” o dello svolgere il lavoro tipico della grande metropoli dalla spiaggia sulle rive del mediterraneo: questa si potrebbe rivelare piuttosto come triste premessa di un futuro licenziamento, alla prima ristrutturazione aziendale.