categoria: Draghi e gnomi
La disoccupazione giovanile e la direzione della demografia, ostinata e contraria
L’ultimo bollettino della Bce ha dedicato un approfondimento alla disoccupazione giovanile che esordisce notando come “il tasso di disoccupazione giovanile ha raggiunto il picco nel 2013 al 24% per il gruppo 15-24enni. Da allora il tasso è sceso più velocemente di quello del tasso globale ed è rimasto al 21% nel 2016, circa 6 punti in più rispetto al 2007”. Questi grafici aiutano ad avere la visione d’insieme. Sembra che non ci sia nulla da aggiungere, ma un’osservazione più attenta rivela il mondo complesso celato dietro il semplice dato.
Un esempio aiuterà a mettere i fuoco i termini del problema. Mettiamo che ci siano 13 disoccupati su 100 persone che per semplificare consideriamo tutte forza lavoro (nella realtà statistica ci sono anche gli inattivi) che corrispondono al totale della popolazione 15-24enni in un determinato momento. Ciò implica che il tasso di disoccupazione sia il 13%, perché, non essendoci inattivi, gli altri 87 lavorano. Detto algebricamente 13/100, ossia 0,13. Questo tasso di disoccupazione può variare se cambia il numeratore, ossia il numero dei disoccupati, o il denominatore, ossia la popolazione sulla quale calcolo il tasso. La disoccupazione può aumentare sia perché aumenta il numeratore, sia perché diminuisce il denominatore. Se il numeratore aumenta di una unità, a denominatore fermo, avremo un tasso pari a 14/100, ossia 0,14: 14%. Se diminuisce il denominatore di una unità a numeratore fermo, avremo 13/99, ossia 13,13%. Più il denominatore diminuisce più aumenta il tasso. Se la popolazione arrivasse a 93, avremmo un tasso di quasi il 14%, ossia l’equivalente dell’aumento di una unità al numeratore a denominatore fermo.
Questo esempio consente di apprezzare una evidenza che rimane spesso celata nei ragionamenti sulla disoccupazione. La demografia conta. E ancora di più in un società che invecchia come la nostra. Alcuni dati estratti dal sito di Eurostat daranno la dimensione del problema. Nell’eurozona, nel 2007 i 15-24enni erano l’11,9% della popolazione. Nel 2013 erano diventati l’11% e nel 2016 c’è un previsionale del 10,8. Quindi il nostro denominatore si è ristretto. Se partiamo da questa considerazione, è evidente che il tasso di disoccupazione del 21% censito nel 2016, sei punti più elevato rispetto al 2007, va interpretato anche tenendo conto di come nel frattempo sia cambiato il denominatore che, come abbiamo visto si è contratto.
Se per ipotesi il numero assoluto dei disoccupati fosse rimasto lo stesso, ossia il numeratore, il calo del denominatore, avrebbe fatto aumentare il tasso di disoccupazione, tanto più in un contesto di generale diminuita partecipazione al lavoro, come illustrato dalla Bce. Nella realtà è probabile che i due effetti si verifichino insieme. Se ho 100 15-24enni, dei quali 60 attivi (occupati+disoccupati) e 40 inattivi e poi la popolazione diminuisce a 95 ma gli attivi diventano 55, il mio denominatore diminuisce a fronte di un calo della popolazione e quindi la disoccupazione aumenta, tanto più se cresce il denominatore. Ma in ogni caso un calo della popolazione tende ad aggravare il dato della disoccupazione se il numero assoluto dei senza lavoro non diminuisce o diminuisce la partecipazione.
Nella sua rilevazione, inoltre, la Bce nota che “nell’eurozona la disoccupazione giovanile è 2,2 volte più alta del tasso di disoccupazione totale”, che è ovvio considerando che moltissimi giovani studiano. Ma è interessante osservare che in “Italia, come in Lussemburgo è oltre tre volte più alto mentre in Germania solo 1,7 volte”. Abituati come siamo a pensar male del nostro mercato del lavoro, è sorprendente scoprire che i nostri giovani disoccupati sono al livello del ricchissimo Lussemburgo. Come si spiega? L’andamento demografico può aiutarci a capire, ma anche ricordare il fatto che in un paese molto ricco i giovani è assai più probabile che studino fino a 24 anni rispetto a un paese povero. Il Lussemburgo aveva l’11,8% di 15-24 enni di popolazione nel 2007 che sono addirittura cresciuti al 12,2 nel 2013 per tornare all’11,9% nel 2016. Dal grafico che misura la crescita della disoccupazione si osserva che in Lussemburgo quella dei 15-24enni è cresciuta di quasi il 4% fra il 2013 e il 2016, proprio mentre la popolazione giovanile declinava. La riduzione del denominatore e il calo della partecipazione hanno evidentemente contributo ai risultato finale.
In Germania si è verificato un leggero calo della disoccupazione giovanile a fronte di un leggero calo della popolazione 15-24 enne, passata dal 10,9% nel 2013 al 10,7% nel 2016. Quindi il denominatore è diminuito. Se assumiamo che sia calata la partecipazione, a fronte di una diminuzione della coorte l’unico modo per arrivare a un calo della disoccupazione è diminuire il numeratore, ossia i senza lavoro. Cosa che è accaduta ma assai meno che in altri paesi.
In Italia ad esempio siamo partiti da una popolazione di 15-24enni del 9,9% nel 2013 scesa al 9,8 nel 2016. Mentre nello stesso periodo la nostra disoccupazione giovanile è diminuita di più del 2%, segno che è diminuito il numero assoluto dei disoccupati. E tuttavia il tasso di disoccupazione è raddoppiato fra il 2007 e il 2016. Il calo demografico – nel 2007 la quota dei 15-24enni era il 10,1% – ha probabilmente influito sul peggioramento del tasso così come anche la diminuita partecipazione al lavoro.
Se torniamo al dato Bce e guardiamo all’insieme, la velocità del calo della disoccupazione giovanile a fronte di una diminuzione della partecipazione al lavoro dovrebbe implicare un miglioramento del numeratore. Al calare della popolazione deve corrispondere un aumento della partecipazione o una diminuzione dei disoccupati affinché il tasso scenda. Ma una demografia contraria, evidentemente, è una zavorra quando il mercato rema contro. E in tal senso confrontare i tassi di disoccupazione di anni diversi senza illustrarne nel dettaglio le componenti rischia di essere una semplificazione eccessiva. E generare fraintendimenti.