Manovra del Popolo da bocciare su scuola, imprese e futuro. Ecco perché

scritto da il 31 Dicembre 2018

Pubblichiamo un post di Nicolò Andreula, consulente freelance e Visiting Lecturer presso la Chinese University of Hong Kong e Ilaria Orfino, consulente di comunicazione presso aziende e Istituzioni pubbliche – 

Con 313 voti a favore e 70 contrari, ieri pomeriggio è stata approvata alla Camera la Manovra di bilancio 2019, figlia dell’incertezza politica dell’ultimo semestre e di un lungo braccio di ferro con le istituzioni europee, sicuramente una delle più complesse dell’intera storia repubblicana.

In un contesto caratterizzato da risorse economiche limitate e coperte sempre più corte, la politica è chiamata a fare delle scelte di priorità e prospettive: quanto e come sostenere pensionati o lavoratori? Quali segmenti sociali sono a maggior rischio di povertà? Quali investimenti avranno un ritorno più alto?

Per valutare le scelte di questo governo in tema di politiche sociali, bisogna quindi analizzare prima l’allocazione delle risorse tra le varie aree di spesa possibile, e poi la qualità del loro impiego. Partendo dai principali aumenti di spesa non vincolata rispetto all’anno precedente, si capisce subito che le direttrici fondamentali di questa Finanziaria sono sostanzialmente due, in linea con le priorità dei due partiti di governo: da un canto la previdenza sociale per i pensionati (Quota 100); dall’altro, le misure assistenzialistiche rivolte ai disoccupati (Reddito di cittadinanza).

Ed ecco il primo quesito sull’allocazione delle risorse disponibili: in quello che sembra un eterno braccio di ferro tra giovani e anziani, chi dovrebbe essere maggiormente sostenuto con politiche sociali ad hoc?

Per rispondere a questa annosa domanda è importante partire dall’analisi del livello di benessere economico in Italia.

Le stime dell’ISTAT parlano chiaro: siamo un Paese con evidenti diseguaglianze economiche e sociali, e il 2017 è stato il nostro annus horribilis. Dal 2005 (anno da cui partono le serie storiche ISTAT), è nel 2017 che si è registrato il più elevato numero di poveri nel nostro Paese: ben oltre 5 milioni.  L’incidenza della povertà assoluta è aumentata – rispetto al 2016 – di mezzo punto percentuale, raggiungendo il 6.9%. In pratica, ogni 200 famiglie ce n’è una in più che ha peggiorato le proprie condizioni economiche oltre la soglia di allarme. Un’analisi della povertà relativa delle famiglie italiane, inoltre, rivela che questa è più diffusa tra le famiglie più giovani: raggiunge il 16,3% se la persona di riferimento è under 35, mentre scende al 10% nel caso di un ultra 64enne.

In sintesi, la povertà decresce al crescere dell’età anagrafica. Questo è un chiaro segnale dell’emergenza in cui si trovano i giovani del nostro paese. Un segmento che in futuro dovrà ripagare un debito pubblico sempre più alto e con interessi in crescita, e già oggi si trova in una situazione di netto svantaggio competitivo, e dunque economico, rispetto ai coetanei di altri Paesi europei e dei cosiddetti Paesi avanzati.

Basti prendere in considerazione il recente studio dell’OCSE “Education at a Glance 2018”, dal quale si evince che siamo ancora in forte ritardo in materia di istruzione terziaria (cioè universitaria), con un sistema che non riesce a tenere il ritmo dei sistemi scolastici e universitari dei Paesi più industrializzati.

Nel 2017 solo il 27% dei giovani di età compresa tra i 25 e 34 anni era in possesso di un titolo di laurea contro la media OCSE del 44%. Il dato più allarmante, tuttavia, è rappresentato dal numero di ragazzi tra i 18 e i 24 anni che non lavora, non studia e non è in cerca di occupazione: sono oltre uno su quattro, i cosiddetti NEET (“not in education, employment or training”) che, contro una media europea del 16%, in Italia raggiungono una percentuale pari al 30% nella fascia 20 -24 anni.

Ma anche per coloro che hanno conseguito un titolo di laurea, il mondo del lavoro è spesso un miraggio: i laureati fanno più fatica a trovare un impiego in Italia rispetto a molti altri paesi Europei. Perché? Da un lato l’economia non galoppa, per usare un eufemismo e il costo delle assunzioni (il famoso “cuneo fiscale”, termine oramai passato di moda) è ancora troppo alto; dall’altro l’offerta formativa delle Università italiane è ancora di impronta “tradizionalista”.

Prima di tutto, non vi sono stati seri adeguamenti dei percorsi universitari alle esigenze di un mondo del lavoro in continua evoluzione e alla ricerca di competenze sempre più tecniche e allo stesso tempo multidisciplinari, soprattutto in seguito all’avvento di Industry 4.0. Inoltre, i nostri laureati presentano gravi lacune in termini di conoscenze di base (calcolo, lettura e comprensione del testo) rispetto ai parigrado di altri Paesi sviluppati – come emerge da uno studio OCSE del 2016. Per quanto riguarda l’alfabetizzazione digitale più in generale, invece, il DESI 2018 (l’indicatore della Commissione Europea che misura il livello di attuazione dell’Agenda Digitale di tutti gli Stati membri) classifica il nostro paese al 25esimo posto (su 28) per quanto riguarda il Capitale Umano e al penultimo per l’Uso di Internet.

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Fonte: OECD (2016), “Skills Matter, Further Results from the Survey of Adult Skills”

In questo quadro poco incoraggiante per i giovani italiani, la Legge di Bilancio 2019 introduce almeno tre misure abbastanza preoccupanti:

1. Tagli tra i 250 e i 300 milioni di euro alla Scuola, unica vera possibilità di ascensore sociale.

2. Ridefinizione degli attuali percorsi di alternanza scuola – lavoro in “percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”, riducendo il numero di ore minimo complessivo da svolgere.

3. Riduzione degli incentivi per i contratti di apprendistato: saranno 5 milioni l’anno per il 2019, il 2020 e gli anni successivi, mentre dalla scorsa manovra erano previsti 15,8 milioni per il 2019 e di 22 milioni per il 2020.

Quale futuro per le imprese che innovano?

Un tema strettamente connesso a istruzione e formazione, è sicuramente quello relativo all’evoluzione che investirà il settore industriale e la ridefinizione del lavoro in ottica 4.0. Infatti, la quarta rivoluzione industriale è imprescindibilmente legata alla “rivoluzione culturale” che dovrebbe sviluppare nuovi stimoli e competenze in chi è già occupato e ricopre ruoli decisionali.

Se, infatti, è pur vero che le tecnologie abilitanti ricoprono un ruolo fondamentale nell’aumento di produttività, i veri abilitatori di innovazione sono gli individui con competenze e capacità di ridefinire strategie ed adeguare processi ed organizzazione a nuovi modelli di business e produzione.

Secondo le statistiche dell’International Federation of Robotics, i Paesi con il più basso tasso di disoccupazione sono quelli che hanno il maggior numero di robot installati. Più tecnologia, infatti, implica crescita economica, e più crescita implica – a sua volta – più lavoro.
Se un’azienda, dunque, rifiuta o rimanda l’adozione della tecnologia (e non forma adeguatamente le proprie risorse in tale direzione), sarà destinata a chiudere i battenti. L’automazione e la robotica, dunque, possono migliorare la competitività delle aziende, e metterle in condizione di assumere persone specializzate per stare al passo. In quello che sembra un paradosso ai non addetti ai lavori, investire in automazione può voler dire salvare posti di lavoro, anzi oggi è quasi la regola: se non si automatizza si perde in competitività e si rischia di soccombere sotto i colpi dell’innovazione.

Tesi, queste, confermate anche da uno studio di Gartner (società leader nella consulenza strategica e ricerca in ambito ICT) in cui si stima che entro il 2020 le soluzioni collegate all’Intelligenza Artificiale elimineranno circa 1.8 milioni di posti di lavoro legati in particolar modo a compiti ripetitivi e di basso valore aggiunto. A questa perdita di posti di lavoro corrisponderà, tuttavia, la creazione di 3,2 milioni nuove posizioni lavorative che in parte si collocheranno nella fascia delle posizioni perse, in parte si apriranno per personale tecnicamente molto preparato e con ruoli manageriali. Ma senza una strategia per fare il salto di qualità in termini di automazione e capitale umano, sarà sempre più difficile sfruttare queste opportunità di occupazione a salari più alti.

Questa Finanziaria presenta alcuni stimoli all’investimento in tecnologia e innovazione, come i 30 milioni stanziati dal MISE per chi intende sviluppare tecnologie in ambito AI e Blockchain, ma sono ancora troppo pochi per colmare il gap con paesi europei. La Francia, per esempio, investirà circa 80 milioni all’anno per finanziare piccole imprese con “disruptive technologies”, mentre l’Inghilterra, ha quasi 150 startup che si occupano di intelligenza artificiale contro le 22 censite in Italia da Roland Berger. Inoltre, da una prospettiva più ampia su più settori economici, emerge il taglio di circa cinque miliardi di euro di incentivi alle imprese. Per dare un’idea delle dimensioni di questa cifra, è più della metà del fatturato annuale di un’azienda come Luxottica, che impiega oltre 85mila persone in tutto il mondo.

In conclusione, la discussione di una manovra finanziaria non è solo un conflitto tra partiti, lobby e classi sociali. È soprattutto una sfida tra l’assistenzialismo a breve termine e il coraggio di investire nella crescita del tessuto produttivo, che questo governo non ha ancora dimostrato.
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