“E i medici erano i più numerosi a morire…”: epidemia e resistenza

scritto da il 19 Aprile 2020

(Questo contributo è stato scritto con la collaborazione di Cristina Mincione, docente di lettere nei licei e negli istituti tecnici di Teramo)

Raccontare per esistere: potrebbe essere questa la massima vincente e purificante della quarantena. In altri termini: sforzarsi di produrre il maggior numero di righe possibile col minor numero di parole possibile al fine di dominare anche un morbo che non si conosce. L’uso improprio dei termini, infatti, ci condurrebbe alla deriva psicologica e intellettuale. Le fake news, di fatto, non sono altro che espressioni o della massima ottusità o della massima cattiveria d’un uomo che tenti di compensare lacune e bisogni con un protagonismo non richiesto. Contro la paura, il dolore e il disinteresse, allora, il coraggio della narrazione nuda, cruda ed essenziale può rappresentare il superamento dell’invisibilità del virus. Insomma: meglio vivere che immaginare di vivere.

Forse, la letteratura e, più in generale, la narrazione sono consolatorie? Né il verso sublime d’un poeta né la pennellata elegante d’un artista aiuteranno il padre di famiglia a sfamare i propri figli, allo stesso modo in cui gli stilemi d’un filosofo e le trame d’un romanziere non potranno mai confortare la vedova, ma l’uomo esiste unicamente in ciò che dice e rappresenta di sé. Di conseguenza, non si può revocare in dubbio il Wittgenstein del Tractatus Logico-Philosophicus, che, alla proposizione 5.6, scrive: “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”, ma che, con la 7, conclude: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.”.

Se la nostra testimonianza di scrittura, intesa come opera di partecipazione all’esistenza della collettività, è imparziale, penetrante e, per certi aspetti, anche impietosa, allora è probabile che essa diventi storia del ‘noi’, documento utile alle generazioni a venire. Medici, infermieri e operatori sanitari d’ogni genere, oggi, segnano il nostro tempo, sono la misura delle cose perché giorni, settimane e mesi non rinviano più a un qualche calendario, ma si dilatano e si restringono tra le mani di chi incarna onore e gloria, pur nel rischio della brevità; tutte le altre categorie hanno assunto la forma del derivato, della validità secondaria. L’affermazione può apparire parossistica e incongrua: quasi irriverente; non lo si può negare. Eppure, ogni epoca è passata dalla resa all’epidemia, da quella omerico-arcaica a quella tecnologico-invulnerabile, tanto più che gli stessi medici si sono dovuti piegare all’incertezza e soccombere – essi stessi (ci sia concessa la ripetizione dell’identificativo!) – al “feral morbo”:

E qual de’ numi inimicolli? Il figlio / di Latona e di Giove, Irato al Sire / destò quel Dio nel campo un feral morbo, / e la gente perìa: colpa d’Atride / che fece a Crise sacerdote oltraggio (I, 10-14)

Nell’Iliade, sembra che la causa della pestilenza sia da ricondursi all’ira degli dei, ma, a ben vedere, la collera divina è generata dalla prepotenza di Agamennone, il quale prende con sé Criseide come preda di guerra. Criseide, tuttavia, è la figlia di un sacerdote di Apollo, cosicché l’Atride è costretto a restituirla. Ma “gente perìa”, come scrive l’autore; e continua a perire, ignara e impotente, perché il re dell’Argolide, perdendo la propria schiava, s’impossessa di quella di Achille, Briseide, formulando così il secondo decisivo oltraggio. La superbia e la smania di protagonismo smaterializzano la libertà, a tal punto da costringere l’individuo vivente alla privazione. Aristotele, nel quinto libro della Metafisica, afferma che “la privazione si ha in un senso, quando una cosa non ha uno degli attributi che per loro natura si potrebbero avere, anche se la cosa stessa non potrebbe per sua natura averlo: si dice, per esempio, che una pianta è priva di occhi (…)” (1022b).

Colui che per la prima volta, in letteratura, circoscrive la peste come fenomeno scientifico e oggetto di vera e propria indagine storica è Tucidide, che, nel descrivere la guerra del Peloponneso, tratta ampiamente l’esplosione dell’epidemia del 430 a. C. e, nel secondo libro delle Storie o Guerra del Peloponneso, ci dà le seguenti informazioni:

Non erano ancora trascorsi molti giorni dal loro arrivo nell’attica, quando comparve per la prima volta tra gli ateniesi l’epidemia. La tradizione ha sì notizia di altre epidemie scoppiate anteriormente in molti altri luoghi, a Lemno e altrove, ma di una peste di tali proporzioni, e con così vaste perdite di vite umane, non si aveva memoria in nessuna contrada.  I medici erano disarmati di fronte a questa malattia a loro sconosciuta, che si trovavano a curare per la prima volta. Ed erano i più numerosi a morire, quanto più venivano a contatto con i malati. Né vi era alcun’altra arte umana che potesse domare quel male. Malgrado tutte le suppliche nei templi o per quanto c ci si rivolgesse agli oracoli e siffatti mezzi, tutto era vano. Alla fine, si rinunciò a questi espedienti, e l’accasciamento del male prevalse. (II, 47, 3-4)

È appena il caso di ricordare che Tucidide stesso si ammalò di peste, sebbene, ancora una volta, il nostro sguardo debba volgersi al potere politico che, entrando in scena, risulta determinante: all’arrivo del male, tutta la popolazione delle campagne si trova ammassata in città per la decisione di Pericle di non combattere con i nemici spartani in pianura. La diffusione è immediata e devastante.

S’impone dunque, di là dai fatti pestiferi, la necessità d’interpretazione degli eventi e, in particolare di decodificazione decifrazione del messaggio della natura, nei confronti della quale, di rado, si riesce ad avere una posizione di equilibrio. Fabrizio De Andrè, una volta, nell’introdurre una propria canzone, disse: “Gli animalisti non vogliono che si facciano le corde di chitarra col budello di bue; gli ambientalisti non vogliono che si facciano col nylon. Purtroppo, è difficile farle con gli spaghetti”. Sorriderne è semplice, ma accoglierne la portata enigmatica sarebbe doveroso. L’enigma è l’uomo stesso, cioè quell’individuo ‘pensante’ che tanto più si configura quale personaggio, quanto più propone a sé stesso e ai propri simili dimensioni parallele dalla vita reale e da essa sempre più aliene. È il paradigma della complessità. Se ne ha un primo riscontro letterario – e qui ci tocca credere fermamente all’utilità della letteratura – nell’Edipo re di Sofocle. La sfinge sottopone Edipo proprio a un enigma, ne stressa le capacità intellettive rendendolo campione di Tebe, apparentemente o temporaneamente salvata dal maleficio: “Chi, pur avendo una sola voce, si trasforma in quadrupede, bipede e tripede? (Pseudo-Apollodoro, III, 5, 8). “L’uomo” risponde Edipo, ottenendo in premio la mano di Giocasta e la reggenza della polis beotica. Ma Giocasta è sua madre e Laio, l’uomo che egli stesso, per ignoranza dei fatti, ha ucciso lungo la strada, è suo padre: ciò in avveramento dell’antica predizione dell’Oracolo di Delfi. A nulla vale la sua inconsapevolezza, come a nulla valgono la sua rettitudine e il suo amore per il popolo. La peste arriva ed è dirompente, letale e, per l’appunto, sovrumana.

La città, come tu stesso vedi, troppo sbanda in balia delle onde, e non ha forza di sollevare il capo dai profondi gorghi, da questo sanguigno rullio, e si strugge nei calici dei frutti, si strugge nelle mandrie pascolanti di buoi, nei parti sterili di donne, mentre s’avventa il dio che porta il fuoco, incalza la città funesta peste per cui si svuota la sede cadmea, e l’Ade nero accresce il suo tesoro di lamenti e di gemiti. (22-30)

L’ingegno non è sufficiente a fare opposizione, tanto che la massima carica della città, per paradosso quell’Edipo salvatore, al culmine degli sforzi ammessi dalla logica, deve espiare le proprie colpe con l’esilio affinché la polis sia liberata dalla peste. Mitologia, tragedia ed epidemia sono accomunate da un elemento di irrazionalità: il lògos appartiene al mito solo in quanto del mito si accetti il primato misterico-iniziatico.

La questione non ricade sotto il dominio della morale; sarebbe troppo comodo classificarla così sbrigativamente. E non si tratta di un’esigenza di schieramento: “con” o “contro” la natura. Non ce n’è neppure il bisogno, a ben vedere, dal momento che gli estremisti aggiungerebbero disagi al disagio. Non si può esimere tuttavia dall’analisi della memoria documentale. Nell’analizzarla, tra le altre cose, siamo costretti a postularne la supremazia, alla maniera di Kant, il quale non transigeva affatto sull’inaccessibilità delle idee di anima, mondo e Dio. A tal proposito, una lezione impareggiabile ci giunge dal De rerum natura di Lucrezio, un autore la cui accuratezza, in materia di epidemia, ci offre un vero e proprio quadro clinico: segni, sintomi e condizione psicologica del malato sono da lui minuziosamente descritti, pur nella narrazione degli stessi eventi messi per iscritto, per la prima volta, da Tucidide.

Dapprima avevano il capo in fiamme per il calore / e soffusi di un luccichìo rossastro ambedue gli occhi. / La gola, inoltre, nell’interno nera, sudava sangue, / e occluso dalle ulcere il passaggio della voce si serrava, / e l’interprete dell’animo, la lingua, stillava gocce di sangue, / infiacchita dal male, pesante al movimento, scabra al tatto. / Poi, quando attraverso la gola la forza della malattia / aveva invaso il petto ed era affluita fin dentro il cuore afflitto / dei malati, allora davvero vacillavano tutte le barriere della vita. / Il fiato che usciva dalla bocca spargeva un puzzo ributtante, /simile al fetore che mandano i putridi cadaveri abbandonati. / Poi le forze dell’animo intero e tutto il corpo / languivano, già sul limitare stesso della morte. (VI 1145-1157)

Quali che siano le conseguenze psicofisiche dell’incontro col mistero, l’intelletto umano n’è sempre rapito. Altrimenti, non si spiegherebbe come mai pure Virgilio, nel III libro delle Georgiche, dedichi un significativo spazio a una peste del mondo animale, l’epizoozìa del Norico, che non corrisponde a una verità storica: un episodio costruito dall’estro letterario che consente all’autore di mostrarsi interprete del male, portavoce di un sentimento. Il fatto è che taluni rapimenti, quando non concernano un Publio Virgilio Marone, di là dalla sensibilità e dall’intelligenza individuali, possono rivelarsi, a volte, inopportuni, non altrimenti che se fossero delle forme di prevaricazione. La compostezza e la severità lucreziane sono comunque delle qualità rare.

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Pieter Bruegel, Il trionfo della morte

Il richiamo al rigore lucreziano non è – si badi bene! – un giudizio di gusto, ma una sorta di avvertenza: la credulità o, in alcuni casi e più correttamente, l’occultismo eziologico non è un’esclusiva di secoli lontani; nel passato, semmai, le entità soprannaturali costituivano la legittimazione dell’agire; oggi, diversamente, un male invisibile viene associato con un nemico invisibile, talora inesistente, un manovratore la cui presenza, quantunque ingiustificata, serve a reggere l’inevitabile escatologia, quella di cui si serve inconsciamente pure un inveterato empirista. Ovidio, nel VII libro delle Metamorfosi sceglie l’ira di Giunone come causa dell’epidemia che si abbatte su Egina e ignora del tutto i precedenti sforzi scientifici fatti dai suoi predecessori.

Vedevi persone errare mezzo morte per le strade, finché riuscivano a reggersi in piedi, e altre piangere distese a terra e stralunare gli occhi stanchi, con un estremo sussulto; e protendevano le braccia verso gli astri del cielo incombente, esalando l’ultimo respiro qua, là, dove la morte le sorprendeva. Che sentimenti provai io allora? Non forse quelli che dovevo odiare la vita e desiderare di condividere la sorte dei miei? Ovunque lo sguardo si volgesse, c’era gente buttata per terra come le mele marce quando si agitano i rami, come le ghiande quando si scuote il leccio. (VII, 572-585)

Ogni grafema, ogni sillaba, ogni sintagma e ogni frase liberati sulla pagina, negli ultimi tremila anni di letteratura, hanno documentato la limitatezza del nostro agire e l’incapacità della ragione di superare il male e il dolore, fuorché il pensiero disponga o imponga i modi della coesistenza in un cammino verticale e cieco verso Dio. L’umanità non può ‘guarirne’ né scacciarlo, può accettarlo e, forse, in parte, dominarlo. Accade qualcosa di simile nel Decameron, in cui Boccaccio, pur consentendo ai propri protagonisti, sette giovani uomini e tre giovani donne, di sottrarsi alla peste abbattutasi su Firenze, non rinuncia a una descrizione dolorosa e inquietante della mortifera pestilenza, quasi fosse un dovere inalienabile. Si consideri, infatti, che la brigata presentataci nelle novelle che compongono l’opera e rifugiatasi in una residenza di campagna, è animata da umorismo erotico e allegria: qui, il potere della narrazione e della parola si fa davvero taumaturgia esistenziale, cosicché amore e morte finiscono col compenetrarsi: la potenza della morte è la cornice di una potente vita e l’una è complice dell’altra.

E come che questi così variamente oppinanti non morissero tutti, non per ciò tutti campavano: anzi, infermandone di ciascuna molti e in ogni luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, essemplo dato a coloro che sani rimanevano, quasi abbandonati per tutto languieno. E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano. (I, Introduzione, 26-28)

A questo punto, non è un caso che la summa del nostro itinerarium sia da trovarsi nella Dialogo della Natura e di un Islandese non perché il protagonista faccia, per così dire, una brutta fine, divorato dai leoni o seppellito da una tempesta di sabbia, ma perché il protagonista, prima di mettersi in viaggio verso l’Africa, attribuisce la causa del proprio malessere proprio alla natura, dalla quale fugge e con la quale presto dialogherà. Il vasto senso d’inappagamento che lo surclassa, invece, è racchiuso nella sua pretesa di oltrepassare di rabbia la propria congenita debolezza. L’equilibrio tra bene e male può essere, forse, compreso, intuito, accettato, non già sopravanzato, battuto, subordinato alla volontà individuale o collettiva. Potrebbe esserci di grande aiuto, in questa direttrice, la lettura della Teodicea di Leibniz o del Libro di Giobbe, in cui il male è una vera e propria condizione ontologica, ma, oltre a introdurre il presupposto di Dio, dovremmo allontanarci un po’ dal tòpos letterario.

Mentre stavano in questi e simili ragionamenti, è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa.

Quando giungiamo all’opera manzoniana, non ultima tra le attestazioni, in specie dopo tanta rassegna, a malapena ci meravigliamo delle terribili analogie tra la peste del 1630 e l’epidemia di coronavirus. E se lo facciamo, cioè se ne siamo ancora basiti e sgomenti, ciò accade non solo per il diretto coinvolgimento emotivo e intellettuale, ma anche e soprattutto perché, pure allora, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, con gli stessi epicentri cittadini, risultarono le zone aree più colpite dal morbo. La ricerca del paziente 0, il disagio e lo stress dei medici, lo scetticismo e l’incertezza delle autorità e la credulità della gente, nel XXXI capitolo dei Promessi sposi, trovano lo stesso spazio che, oggi, diversamente, trovano sulle prime pagine dei giornali.

Sia come si sia, entrò questo fante sventurato e portator di sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni; andò a fermarsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di porta orientale, vicino ai cappuccini; appena arrivato, s’ammalò; fu portato allo spedale; dove un bubbone che gli si scoprì sotto un’ascella, mise chi lo curava in sospetto di ciò ch’era infatti; il quarto giorno morì.

(…)

Il tribunale della sanità chiedeva, implorava cooperazione, ma otteneva poco o niente.

(…)

Anche nel pubblico, quella caparbietà di negar la peste andava naturalmente cedendo e perdendosi, di mano in mano che il morbo si diffondeva, e si diffondeva per via del contatto e della pratica

Eh, sì! È vero: potremmo ampliare ancora il testo con Camus, Saramago, Poe e chissà quanti altri indiscutibili autori, ma la verità di fatto resterebbe immutata: il pensiero autentico e coraggioso, quello che si limita al riconoscimento e non pretende di definire le cose con troppi aggettivi, è un oltraggio alla morale comune.

 

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